“OTTIMO LO STOP AL FISCAL COMPACT, MA EUROPA DEVE DIVENTARE L’UNIONE DEL LAVORO”. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Ieri, al termine della teleconferenza dei capi di Stato e di governo, la presidente Ursula von der Leyen ha dichiarato che “la Commissione presenterà nei prossimi giorni una proposta per attivare la clausola di salvaguardia generale che permette di sospendere il Patto di Stabilità”. Sono parole in evidente controtendenza rispetto non solo a quanto pronunciato la scorsa settimana da Christine Lagarde ma anche dalla narrazione che è seguita alle affermazioni della presidente della BCE. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0, per approfondire l’impatto della svolta europea sull’economia reale.

Sabella, in meno di una settimana si passa da una percezione di immobilismo che ha fatto crollare le borse a un’Europa che mette in discussione il suo trattato più rigido, il fiscal compact. Come stanno realmente le cose?

La scorsa settimana Christine Lagarde ha fatto una dichiarazione molto critica. Spesso i funzionari, per quanto alti, non comprendono a fondo la portata di parole che se pronunciate durante una riunione a porte chiuse avrebbero tutt’altro sapore. Nel momento in cui Lagarde dice in conferenza stampa “non è compito nostro ridurre gli spread” naturalmente si crea un effetto di instabilità che produce timore sui mercati e il crollo delle borse. Non dimentichiamoci che non è crollata solo la borsa italiana (-17%), ma anche quella spagnola (-14%), quella francese (-14%) e quella tedesca (-13%). In Italia è scattato un comprensibile allarme ma basta considerare questi dati per comprendere che la tesi dell’attacco speculativo al nostro Paese è debole. D’altro canto, secondo molti Lagarde è stata voluta a capo della BCE per cambiare radicalmente le politiche di Mario Draghi.

Lagarde è all’inizio di un mandato. E la sua provenienza dal FMI ha effettivamente alimentato quest’idea. Lei cosa ne pensa?

Gli avvenimenti più recenti ci inducono a pensare che non sia così. Innanzitutto, Draghi lascia la BCE a ottobre e il suo quantitative easing prosegue sotto il mandato di Lagarde. Consideriamo poi che il giorno dopo alle sue dichiarazioni ci ha pensato il capo della BCE a fare chiarezza e che, domenica scorsa, Fabio Panetta – membro del board di BCE – dice in un’intervista al Corriere che la BCE ha pronti 3 mila miliardi per sostenere imprese e famiglie, spiegando anche l’equivoco che ha generato il panico. Secondo Panetta, in sintesi, Lagarde voleva richiamare la responsabilità degli stati membri: naturalmente, anche loro, con una gestione adeguata delle risorse e con politiche fiscali adeguate, sono chiamati a mitigare il differenziale degli spread. Ma c’è dell’altro.

Per esempio?

Ieri sera, Von der Leyen ha detto anche che “questo è uno shock esterno, faremo tutto quello che è necessario e non esiteremo a prendere altre misure a seconda di come evolve la situazione”. Quindi, alla fine, nessun cambio di rotta: è sempre “whatever it takes”, la linea Draghi. Detto questo, vorrei però tornare sul discorso responsabilità degli stati membri perché se no si parla solo di Unione in modo astratto.

In primis, come ricorda spesso Giulio Tremonti, c’è differenza – ed è sostanziale – tra gli scostamenti di bilancio causati da congiunture economiche negative e gli scostamenti causati da eventi eccezionali, soprattutto connessi a fenomeni naturali. La situazione attuale è riconducibile, naturalmente, agli scostamenti della seconda tipologia che non prevedono in alcun modo richieste o concessioni di flessibilità: sono in sintesi risorse che vengono investite dai singoli stati che non vanno conteggiate dentro i parametri di bilancio. È importante richiamare questo fattore perché è ora che si faccia chiarezza sul rapporto tra Unione e stati membri, in ragione di competenze più definite e di una sudditanza a comportamenti burocratizzati che sarebbe utile venisse meno. In secondo luogo, come ha spiegato Panetta, è molto importante che gli stati membri si attivino, in buona sostanza, sul versante dello sviluppo: solo questo può generare una virtuosa riduzione degli spread.

Come può l’Unione Europea, intesa proprio come unione dei 27 stati, incamminarsi sulla via dello sviluppo?

In questa fase di emergenza sanitaria, naturalmente il contenimento è anche del contraccolpo economico. Certo non è uguale per tutti ma il rallentamento è generale. In un secondo momento, bisognerà attivarsi per investire in modo fruttuoso le risorse che l’Unione sta per iniettare nell’economia reale. 3.000 miliardi sono una cifra importante, pensiamo che fino a una settimana fa eravamo fermi al quantitative easing – se non vado errato sono 20 miliardi ogni mese verso le banche centrali nazionali – e ai 1.000 miliardi del green new deal in 10 anni, che significa 100 miliardi ogni anno. Le risorse – stando a quanto dice Panetta – si sono triplicate, investire è l’unico modo per generare ricchezza. Il punto è che bisogna investire nella giusta direzione.

Ma sarà la BCE a erogare queste risorse o il neo meccanismo europeo di stabilità meglio noto come MES?

Naturalmente, qui aleggia ancora un po’ di ambiguità. E, secondo me, quando Lagarde dice che la riduzione degli spread “non è compito della BCE” intende, anche, ricordare che c’è il MES in fase di negoziazione avanzata. Naturalmente, si tratta di uno strumento che nasconde criticità soprattutto per i Paesi col debito particolarmente elevato, e tra questi vi è l’Italia. Questo perché chi beneficerà del MES dovrà impegnarsi in una ristrutturazione del debito. Giusto e comprensibile, ma cosa vuol dire? Come avviene la ristrutturazione del debito? Attraverso, come dice qualcuno, il risparmio privato? E poi, perché insistere con questa interpretazione monolitica del debito pubblico quando sappiamo molto bene che i debiti in pancia delle banche, alla fine, diventano debito pubblico? Da questo punto di vista, l’Italia offre garanzie più di qualsiasi altro Paese avendo un risparmio che è 4 volte il debito pubblico. Ciò significa che il nostro sistema creditizio non è a rischio. Ecco perché le insidie del MES sono rilevanti e perché è opportuno una distensione: l’Unione non può essere della finanza.

Secondo lei, l’Europa proseguirà sulla strada del green new deal?

L’Europa deve proseguire su quella strada e sono convinto che lo farà. Questo è non solo il modo per riproporre la sua industria in maniera innovativa ma anche per staccare i nostri principali concorrenti, ovvero USA e Cina, sul piano della manifattura in particolare, ma anche sul piano dell’economia circolare e della transizione energetica verso gas e rinnovabili, settori dove in Europa si è già investito – lo ha fatto anche l’Italia – e che cominciano a dare risultati importanti. Pertanto, non sono d’accordo con la narrazione dominante che ha già sentenziato un futuro di decrescita per l’Europa, credo invece che la sfida con USA e Cina sia molto aperta.

Crede davvero in un cambiamento possibile per l’Unione Europea?

È appena iniziato un nuovo mandato. È chiaro che o ora o mai più: l’Europa rischia seriamente la disgregazione. Ma vedo questo di buono: finalmente, si sta passando dalla stagione dell’austerity ad una stagione in cui l’investimento torna centrale. Come può un’economia crescere senza investimenti? Da 30 anni ormai, i più grandi investimenti sono andati verso la Cina oltre che nella rendita finanziaria. Ciò ha reso marginale l’elemento che non solo tiene in piedi l’economia ma che dà stabilità a una società: il lavoro. L’economia moderna si fonda su questo presupposto di cui negli ultimi decenni ci siamo dimenticati, ma basta rileggere per esempio “La ricchezza delle nazioni” di Adam Smith che ne resta il padre. Oggi è, appunto, la volta buona per ricordarcene e per restituire centralità al lavoro. Se non lo faremo, sarà inutile parlare di Unione.