“OTTIMO LO STOP AL FISCAL COMPACT, MA EUROPA DEVE DIVENTARE L’UNIONE DEL LAVORO”. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Ieri, al termine della teleconferenza dei capi di Stato e di governo, la presidente Ursula von der Leyen ha dichiarato che “la Commissione presenterà nei prossimi giorni una proposta per attivare la clausola di salvaguardia generale che permette di sospendere il Patto di Stabilità”. Sono parole in evidente controtendenza rispetto non solo a quanto pronunciato la scorsa settimana da Christine Lagarde ma anche dalla narrazione che è seguita alle affermazioni della presidente della BCE. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0, per approfondire l’impatto della svolta europea sull’economia reale.

Sabella, in meno di una settimana si passa da una percezione di immobilismo che ha fatto crollare le borse a un’Europa che mette in discussione il suo trattato più rigido, il fiscal compact. Come stanno realmente le cose?

La scorsa settimana Christine Lagarde ha fatto una dichiarazione molto critica. Spesso i funzionari, per quanto alti, non comprendono a fondo la portata di parole che se pronunciate durante una riunione a porte chiuse avrebbero tutt’altro sapore. Nel momento in cui Lagarde dice in conferenza stampa “non è compito nostro ridurre gli spread” naturalmente si crea un effetto di instabilità che produce timore sui mercati e il crollo delle borse. Non dimentichiamoci che non è crollata solo la borsa italiana (-17%), ma anche quella spagnola (-14%), quella francese (-14%) e quella tedesca (-13%). In Italia è scattato un comprensibile allarme ma basta considerare questi dati per comprendere che la tesi dell’attacco speculativo al nostro Paese è debole. D’altro canto, secondo molti Lagarde è stata voluta a capo della BCE per cambiare radicalmente le politiche di Mario Draghi.

Lagarde è all’inizio di un mandato. E la sua provenienza dal FMI ha effettivamente alimentato quest’idea. Lei cosa ne pensa?

Gli avvenimenti più recenti ci inducono a pensare che non sia così. Innanzitutto, Draghi lascia la BCE a ottobre e il suo quantitative easing prosegue sotto il mandato di Lagarde. Consideriamo poi che il giorno dopo alle sue dichiarazioni ci ha pensato il capo della BCE a fare chiarezza e che, domenica scorsa, Fabio Panetta – membro del board di BCE – dice in un’intervista al Corriere che la BCE ha pronti 3 mila miliardi per sostenere imprese e famiglie, spiegando anche l’equivoco che ha generato il panico. Secondo Panetta, in sintesi, Lagarde voleva richiamare la responsabilità degli stati membri: naturalmente, anche loro, con una gestione adeguata delle risorse e con politiche fiscali adeguate, sono chiamati a mitigare il differenziale degli spread. Ma c’è dell’altro.

Per esempio?

Ieri sera, Von der Leyen ha detto anche che “questo è uno shock esterno, faremo tutto quello che è necessario e non esiteremo a prendere altre misure a seconda di come evolve la situazione”. Quindi, alla fine, nessun cambio di rotta: è sempre “whatever it takes”, la linea Draghi. Detto questo, vorrei però tornare sul discorso responsabilità degli stati membri perché se no si parla solo di Unione in modo astratto.

In primis, come ricorda spesso Giulio Tremonti, c’è differenza – ed è sostanziale – tra gli scostamenti di bilancio causati da congiunture economiche negative e gli scostamenti causati da eventi eccezionali, soprattutto connessi a fenomeni naturali. La situazione attuale è riconducibile, naturalmente, agli scostamenti della seconda tipologia che non prevedono in alcun modo richieste o concessioni di flessibilità: sono in sintesi risorse che vengono investite dai singoli stati che non vanno conteggiate dentro i parametri di bilancio. È importante richiamare questo fattore perché è ora che si faccia chiarezza sul rapporto tra Unione e stati membri, in ragione di competenze più definite e di una sudditanza a comportamenti burocratizzati che sarebbe utile venisse meno. In secondo luogo, come ha spiegato Panetta, è molto importante che gli stati membri si attivino, in buona sostanza, sul versante dello sviluppo: solo questo può generare una virtuosa riduzione degli spread.

Come può l’Unione Europea, intesa proprio come unione dei 27 stati, incamminarsi sulla via dello sviluppo?

In questa fase di emergenza sanitaria, naturalmente il contenimento è anche del contraccolpo economico. Certo non è uguale per tutti ma il rallentamento è generale. In un secondo momento, bisognerà attivarsi per investire in modo fruttuoso le risorse che l’Unione sta per iniettare nell’economia reale. 3.000 miliardi sono una cifra importante, pensiamo che fino a una settimana fa eravamo fermi al quantitative easing – se non vado errato sono 20 miliardi ogni mese verso le banche centrali nazionali – e ai 1.000 miliardi del green new deal in 10 anni, che significa 100 miliardi ogni anno. Le risorse – stando a quanto dice Panetta – si sono triplicate, investire è l’unico modo per generare ricchezza. Il punto è che bisogna investire nella giusta direzione.

Ma sarà la BCE a erogare queste risorse o il neo meccanismo europeo di stabilità meglio noto come MES?

Naturalmente, qui aleggia ancora un po’ di ambiguità. E, secondo me, quando Lagarde dice che la riduzione degli spread “non è compito della BCE” intende, anche, ricordare che c’è il MES in fase di negoziazione avanzata. Naturalmente, si tratta di uno strumento che nasconde criticità soprattutto per i Paesi col debito particolarmente elevato, e tra questi vi è l’Italia. Questo perché chi beneficerà del MES dovrà impegnarsi in una ristrutturazione del debito. Giusto e comprensibile, ma cosa vuol dire? Come avviene la ristrutturazione del debito? Attraverso, come dice qualcuno, il risparmio privato? E poi, perché insistere con questa interpretazione monolitica del debito pubblico quando sappiamo molto bene che i debiti in pancia delle banche, alla fine, diventano debito pubblico? Da questo punto di vista, l’Italia offre garanzie più di qualsiasi altro Paese avendo un risparmio che è 4 volte il debito pubblico. Ciò significa che il nostro sistema creditizio non è a rischio. Ecco perché le insidie del MES sono rilevanti e perché è opportuno una distensione: l’Unione non può essere della finanza.

Secondo lei, l’Europa proseguirà sulla strada del green new deal?

L’Europa deve proseguire su quella strada e sono convinto che lo farà. Questo è non solo il modo per riproporre la sua industria in maniera innovativa ma anche per staccare i nostri principali concorrenti, ovvero USA e Cina, sul piano della manifattura in particolare, ma anche sul piano dell’economia circolare e della transizione energetica verso gas e rinnovabili, settori dove in Europa si è già investito – lo ha fatto anche l’Italia – e che cominciano a dare risultati importanti. Pertanto, non sono d’accordo con la narrazione dominante che ha già sentenziato un futuro di decrescita per l’Europa, credo invece che la sfida con USA e Cina sia molto aperta.

Crede davvero in un cambiamento possibile per l’Unione Europea?

È appena iniziato un nuovo mandato. È chiaro che o ora o mai più: l’Europa rischia seriamente la disgregazione. Ma vedo questo di buono: finalmente, si sta passando dalla stagione dell’austerity ad una stagione in cui l’investimento torna centrale. Come può un’economia crescere senza investimenti? Da 30 anni ormai, i più grandi investimenti sono andati verso la Cina oltre che nella rendita finanziaria. Ciò ha reso marginale l’elemento che non solo tiene in piedi l’economia ma che dà stabilità a una società: il lavoro. L’economia moderna si fonda su questo presupposto di cui negli ultimi decenni ci siamo dimenticati, ma basta rileggere per esempio “La ricchezza delle nazioni” di Adam Smith che ne resta il padre. Oggi è, appunto, la volta buona per ricordarcene e per restituire centralità al lavoro. Se non lo faremo, sarà inutile parlare di Unione.

“Nella guerra al Coronavirus l’Italia può diventare un modello in Europa”. Intervista a Fabio Martini

 

Sono giorni difficili, tragici, segnati dalla grave pandemia del Coronavirus. Un virus micidiale che sta mettendo sotto un pesantissimo stress i nostri medici ed infermieri. La loro battaglia, durissima, sta  ricevendo ammirazione a livello internazionale. Come sta reagendo la politica a questa drammatica sfida? Ne parliamo, in questa intervista, con Fabio Martini giornalista parlamentare del quotidiano “La Stampa”.

FABIO MARTINI

Fabio Martini, incominciamo la nostra riflessione sui “singolari avvenimenti” (per citare il Camus della Peste, il suo bellissimo romanzo dedicato alla città di Orano colpita da una epidemia. In realtà il romanzo è una metafora sul nazismo) che hanno colpito il nostro paese. Ho usato le parole di Camus perché, come gli abitanti di Orano, gli italiani sono stati sorpresi e spiazzati dall’epidemia. Ed è venuto fuori un popolo fragile. Le fughe da Milano e,  nei giorni scorsi, perfino le località di villeggiatura affollate sono emblematiche … Insomma il nostro senso civico lascia molto a desiderare?
Siamo degli individualisti, con scarso senso civico, viviamo lo Stato come altro da noi, cerchiamo sempre il sotterfugio, ammiriamo e imitiamo i furbi ma dobbiamo riconoscere che il Grande Blocco sta funzionando. Lattaccamento alla vita e lansia di poter precipitare in un sofferenza per noi o per i nostri cari sono più forti dellindividualismo italico”

 

In questo marasma anche la politica, a tutti i livelli, ha fatto la sua parte: una comunicazione, agli inizi contraddittoria, che ha fatto fatica a creare una direttrice comune. Per non dire delle opposizioni (“Conte è un criminale”). Qual è stato lerrore più grave della politica?

Premessa: in queste settimane il governo è chiamato a decisioni difficilissime, non invidiabili. Ma in questo caso lespressione la politica”, che di solito può apparire generica, è quantomai appropriata. Cosa accomuna governo e opposizione in queste settimane così difficili? Certamente, uniniziale e comune difficoltà nel mettere a fuoco il fenomeno che stava arrivando. Ma poi, una volta capito, è intervenuta una certa difficoltà ad anticipare gli avvenimenti, anziché seguirli. Oggi, senza tono accusatorio, possiamo tranquillamente dire: per spezzare la catena del contagio, il governo avrebbe potuto sigillare lItalia 15 giorni fa. Ma se andiamo a due, tre settimane fa, lopposizione non diceva affatto: chiudete tutto! Semmai diceva il contrario. Il Coronavirus è una brutta bestia ma ci ha fatto capire ancor meglio come è fatta la politica di questi anni: inadatta a sfidare limpopolarità del momento e a scommettere sulla possibilità di avere ragione sul medio-lungo periodo”.

Certo che anche la scienza, o meglio alcuni scienziati hanno favorito una certa confusione. Adesso si scoprono tutti rigoristi…

Il protagonismo di alcuni di loro ci ha restituito questa impressione, che in fin dei conti non è corretta. Gli esperti del ramo hanno sempre detto la stessa cosa: attenti che sta per arrivare una brutta epidemia, ben più seria di uninfluenza. Lo sfogo personale di alcuni medici, che hanno il merito di stare in prima linea ma che non sono studiosi, non può cambiare il senso: gli scienziati, gli esperti”, i colti” escono con una credibilità rafforzata da questa vicenda. Larroganza storica e la partigianeria di tanti sapienti nostrani per molti anni  ha gettato nel discredito la scienza in senso lato, che invece da questa vicenda potrebbe uscire rinfrancata. E in ogni caso possiamo tranquillamente svelare” larcano di questi giorni: le decisioni del governo sono ispirate e indirizzate dagli scienziati. In questo momento il Paese di fatto è guidato, sul piano sanitario, da loro: dai tecnici e dai competenti. E se, come auspicabile , i risultati  saranno confortanti è inevitabile che questo  modello di “governo” può diventare un esempio per l’Europa”.

Torniamo alla Politica. Pare che ora vi sia un atteggiamento collaborativo, durerà?
No. In Italia non è mai esistito – se non in brevi frangenti – il senso di un destino comune condiviso. Di cosa stiamo parlando? Di questo: in alcuni stagioni storiche – guerre o gravissime emergenze – di solito nelle classi dirigenti affiora una consapevolezza: se esageriamo in parole o in gesti, mettiamo a repentaglio le vite degli altri e dunque ci diamo tutti una regolata. Lopposizione non sembra disponibile a mettersi in quarantena e la maggioranza non sembra disposta a condividere le scelte fondamentali, anche se nei fatti il governo da qualche tempo rilancia puntualmente ciò che la minoranza suggerisce”.

Se la crisi, speriamo di no, dovesse prolungarsi qualcuno ipotizza scenari di un governo di emergenza nazionale. È fattibile secondo te?

Se nelle prossime settimane il Coronavirus invaderà i grandi Paesi europei, lUe sarà chiamata ad una svolta epocale e a quel punto non ci sarà un problema di governo in Italia perché la leva finanziaria sarà estesa e potente e trascinerà tutti i governi, Ma nel caso improbabile che il virus resti un fatto prevalentemente italiano, allora per affrontare una dolorosa e dura ricostruzione” potrebbe servire un governo di salute pubblica. Che però non si farà: le opposizioni preferiranno lavarsene le mani, scommettendo sul vantaggi di stare alla finestra. Un governo di unità nazionale può venire soltanto nellipotesi di un non auspicabile tracollo economico, con spread alle stelle e gente per strada a protestare per aver perso il lavoro. A quel punto Mario Draghi lo chiameranno di corsa”.

 

Per alcuni osservatori il premier, nella gestione e nella comunicazione, in una prima fase è apparso debole. Adesso viene visto come “l’anatroccolo nero” che prende su di sé il paese. La metafora è un po’ irriverente, però coglie un lato problematico del personaggio. Cosa ne pensi?

Il presidente del Consiglio può piacere o dispiacere,  qualcuno può irritarsi in una fase come questa per certe posture seduttive” (il maglioncino operativo” dei primi giorni, la Protezione civile come esibita war-room, quel suo parlare costantemente in prima persona), qualcuno non dimenticherà certe slabbrature (come linfelice notte culminata nella fuga verso il Sud) che potrebbero esser pagate care. Ma nel complesso Conte ha mostrato una tenuta” politica ed emotiva che, al di là del dividendo personale, potrebbero rivelarsi utili per la sopravvivenza di un buon numero di italiani”.

Per finire torniamo a Camus : “Ma lei sa, io mi sento più solidale coi vinti che coi santi. Non ho inclinazione, credo, per l’eroismo e per la santità. Essere un uomo, questo m’interessa”. Vedere l’opera di tanti medici un poco ci rasserena e ci rende orgogliosi della loro bravura,  ma noi come italiani usciremo più umani da questa brutta storia? 

“Una splendida citazione dalla Peste! Dopo le grandi emergenze, le psicologie dei popoli subiscono sempre scosse e modificazioni: alcune temporanee, altre permanenti e queste ultime, talora, si fissano nel Dna. Stavolta qualche traccia resterà: gli italiani potrebbero uscirne più umani perché tutti assieme e non come singoli, avranno vissuto quanto poco possa cambiare le nostre vite, quanto sia casuale il nostro destino e quanto sia prezioso preservarlo”.

“Essere sindacalisti è una vocazione”. La lezione di Pierre Carniti. Intervista a Bruno Manghi di Gianni Saporetti

Pubblichiamo, per gentile concessione, questa bella intervista a Bruno Manghi a cura di Gianni Saporetti direttore della rivista “Una città” (http://www.unacitta.it/it/home/).

 

Durante la grande industrializzazione, negli anni Sessanta, quando si forma una generazione di giovani e combattivi sindacalisti, che pensano che il sindacato debba stare in fabbrica, che la contrattazione aziendale sia decisiva, che i sindacalisti non debbano fare i deputati, che l’unità sindacale sia necessaria, Pierre Carniti è uno dei loro leader; quello spirito missionario che si accompagnava al rispetto del sapere e della sua autonomia.

Bruno Manghi, sociologo, già sindacalista Cisl, ha pubblicato Far del bene. Il piacere del dono e la generosità organizzata, Marsilio 2007.

Vorremmo parlare con te di Pierre Carniti, di cui sei stato amico fraterno…
Parlare di Pierre per me è una cosa molto personale, perché, insomma, io sono uno dei tanti a cui lui ha cambiato la vita. Io ero all’università, facevo l’assistente, stavo per fare la libera docenza, collaboravo già con il sindacato, la Fim di Milano, ma poi il fascino dell’epoca e quello di Pierre, a un certo punto mi hanno fatto lasciare baracca e burattini e iniziare un’altra vita col sindacato. Pierre era giovane, un combattente, una persona affascinante. Veniva dalla provincia di Cremona, aveva fatto il tipografo e da ragazzo, con un gruppo di amici della zona, tra cui Alquati, si occupava già della condizione contadina. Fin da giovane, lui in particolare in quel gruppo, era animato da una grande passione sociale. Il loro capostipite, che poi morì suicida, era stato Danilo Montaldi. Quel mondo padano era molto vivo. Poi le esperienze più originali sono sempre quelle giovanili.
Quindi Pierre si fece notare e un onorevole che era stato anche sottosegretario, una figura del mondo contadino bianco, Amos Zanibelli, autore della legge per le case popolari ai contadini, lo segnalò all’organizzazione. Così lui con altri venne selezionato per fare il famoso “corso lungo” del Centro studi di Firenze, un corso di studi molto severo e attento anche alla scrittura e alla cultura generale. Il grande capo era il professore Mario Romani. Con Pierre c’erano Marini e Mario Colombo, tra i tanti bravissimi che si formarono a Firenze.
La formazione era importante nella Cisl?
Sì, era obbligatoria. Nella Cisl  e nella Fim le si destinava sempre una quota di tempo. Quindi grandi sentimenti e molto approfondimento, molto studio. Mi viene in mente il libro che Pierre mi aveva prestato quando ci siamo conosciuti, e non mi ha mai regalato, di Rinaldo Rigola, il fondatore della Cgil, un operaio cieco per infortunio sul lavoro e immigrato.
Terminato il corso, poi ognuno veniva mandato in un posto d’Italia a fare qualcosa; non era previsto che uno tornasse da dove era venuto. Così lui venne mandato a Legnano dove cominciò la sua esperienza metalmeccanica.
Come avveniva l’incontro con gli operai?
Allora non c’erano permessi sindacali, l’unica cosa che si poteva fare era aspettare i lavoratori a fine turno per parlargli.  Solo nelle aziende medio-grandi, dove c’era il commissario interno, avevi la possibilità di entrare. Il commissario interno era quello che sapeva tutto della fabbrica.
Questi sono i primordi. Pierre partecipò alla stagione dei primi conflitti per i contratti, che cominciarono alla fine degli anni Cinquanta. Ma tutti gli anni Sessanta furono grandi anni di preparazione, senza i quali il ’68 e il ’69 non sarebbero esistiti. Il sindacato si faceva strada tra mille difficoltà e Pierre, di quegli anni fu un protagonista, ovviamente con delle tesi. La Fim in particolare sosteneva la tesi del salario legato alla produttività e l’idea di un sindacato che si fa prima di tutto in fabbrica. Quello è il punto di partenza che segna la differenza tra il sindacalismo industriale, praticato ovviamente anche dalla Fiom e dalla Uilm,  e il sindacalismo agrario che era il suo fratello maggiore e che era un sindacalismo delle piazze, non dei campi. D’altra parte eravamo nel pieno della grande industrializzazione.
Poi Pierre venne a Milano, cominciavano le lotte interne e lui molto presto si convinse della necessità dell’unità d’azione e trovò anche degli interlocutori. Nei primi anni Sessanta due vertenze importantissime scossero Milano, quella degli elettromeccanici e quella dei premi di produzione. Lì si fece il primo comizio unitario che, però, per sfuggire alla condanna delle confederazioni che non vedevano di buon occhio questo eccesso di unità, si svolse al Vigorelli. Il tutto fu orchestrato da Carniti e dall’allora segretario socialista della Camera del lavoro di Milano, Di Pol, che poi morì in un incidente stradale. I due cortei arrivarono al Vigorelli contemporaneamente e lì si fecero i comizi. Quella data divenne famosissima. Ma erano giovani i sindacalisti, erano giovani i lavoratori. Con in più questi commissari interni che erano più anziani e che, però, sapevano tutto. Senza di loro quel lungo periodo di vigilia non ci sarebbe stato. Quando si faceva il direttivo del sindacato con Carniti c’erano tutti questi giovani operatori, i combattenti, e poi queste persone, dai quaranta ai cinquant’anni, che per noi erano anziani e venivano a volte con il grembiule di lavoro, perché la riunione si teneva a fine turno, e che parlavano poco ma parlavano giusto.
Ma nelle confederazioni come veniva preso tutto questo?
Beh, nella Cisl si aprì uno scontro, in primo luogo, sull’incompatibilità fra lavoro sindacale e cariche politiche. Questo in nome dell’autonomia del sindacato. Intendiamoci, già con Pastore la Cisl i dirigenti se li faceva da sola, non li prendeva dai partiti o altro. Però, poi, aveva cinquantasei deputati e senatori. La Cgil ne aveva una settantina nei primi anni Sessanta. Normalmente un segretario della camera del lavoro, dell’Unione sindacale diventava deputato o senatore. Così si erano formate queste grandi pattuglie di onorevoli sindacalisti. Altrimenti una figura come Donat Cattin sarebbe stata impensabile.
Quindi c’è questa prima lotta per l’incompatibilità tra le cariche. La seconda riguarda il primato, pur tenendo fermo il contratto nazionale, della contrattazione aziendale, e il rapporto tra salario e produttività. Grandi temi che scuotono la Cisl. A un certo punto i giovinastri di cui io ero seguace tentarono l’assalto alla gestione di Storti, che, però, era un grande,  che per vent’anni fu segretario.
Ecco, Storti a quel congresso si batté con noi, agitando un tema eversivo del 68, “potere contro-potere”, aggirando in qualche misura a sinistra i giovinastri, ma di fatto aprendo una fase in cui accettava molte delle nostre tesi. E fu lungimirante, perché avrebbe anche potuto schiacciarci, ma non lo fece.
Fra gli anziani, poi, il nostro riferimento era Macario, che fu segretario generale della Fim e maestro di Carniti (e fu importante anche per me, perché fu lui a chiedermi di andare al sud, in Calabria. “Per abituarti”, disse). Macario aveva fatto la guerra. Perché lo dico? Perché leggendo le storie dei sindacalisti, che ormai si scrivono a bizzeffe, e sono molto interessanti, la grande differenza che si rivela è tra chi aveva fatto la guerra, la resistenza, era stato in un campo di prigionia o comunque aveva vissuto sotto i bombardamenti e chi, invece, era venuto dopo. Pierre in questo fu bravo, perché riuscì a tenere insieme le due storie. D’altra parte veniva da una famiglia antifascista, il papà gli aveva voluto dare un nome straniero apposta.
Tutto il resto fa parte ormai della storia: soffia il vento del nord, Carniti si afferma con il consenso di Storti, si va alle lotte, Noi galleggiammo bene, ma non è che inventammo, c’era un movimento che era impressionante. Poi c’erano gli studenti, anche se Carniti è sempre stato un difensore della primazia dei lavoratori. Lo infastidiva la superbia di questi giovani che pensavano di insegnare ai lavoratori, questo eccesso di protagonismo: uniti sì, ma prima gli operai, questa era la sua tesi. Ciò non toglie che un incontro, breve casomai (io ho scritto anche un piccolo testo su “Vita e pensiero”, su questo, “Il breve incontro”) fra operai e studenti nel ’69 ci fu. E va detto che ebbe una risultanza importante nelle fabbriche perché molti di questi giovani diventarono impiegati e tecnici e soprattuto al nord ci fu un grande movimento di operai e tecnici insieme nel sindacato. La figura dell’impiegato era fondamentale per il sindacato perché portava il sapere che gli mancava.
Poi arrivarono queste straordinarie conquiste, il ’73, con il contratto della parità normativa operai e impiegati. Nelle fabbriche c’era una mensa separata per gli impiegati, e tante altre differenze, la liquidazione e via discorrendo. Parità normativa che poi diventa inquadramento unico.
Poi arrivarono i discorsi sulla salute e il rapporto con le cliniche e i medici del lavoro, senza i quali noi di ergonomia non avremmo saputo niente. Nacque la medicina del lavoro, i corsi sulla salute, i fattori di rischio, si fecero passi in avanti decisivi. Fortunatamente il sindacalismo italiano non è stato solo un sindacalismo salariale. Poi l’organizzazione del lavoro, la lotta contro la ripetitività, la revisione dei cottimi, tutte robette molto importanti. Insomma, ci fu un tentativo, a volte riuscito e a volte no, di umanizzazione del lavoro. A un certo punto, però, quando questa spinta delle fabbriche cominciò a esaurirsi (anche se la sinistreria unita non volle accorgersene) il sindacato trasferì il suo potere, che era diventato ingentissimo, sul terreno sociale, quindi le pensioni, la riforma sanitaria, la cassa integrazione. Anche queste grandi conquiste sociali, generali, e però lì, intorno al ’78, ci rendemmo conto che una stagione era finita.
Tu hai scritto un libro che ammetteva, con grande anticipo, la fine di un ciclo…
Sì, ha avuto successo soprattutto per il titolo, “Declinare crescendo”, che scritto lì, nella seconda metà degli anni Settanta, quando eravamo sull’Everest come accreditamento, potere, popolarità, fu pure un po’ azzardato. E però c’era qualcosa, si capiva che sarebbe finita.
Ma anche altrove i cicli erano durati dieci, quindici anni, non di più. Questo Pierre lo capì e lì cominciò, negli anni Ottanta,  quell’ultima battaglia, per combattere l’inflazione, che terminerà nei primi anni Novanta con la rottura dell’unità sindacale sulla scala mobile. Poi quella sua ricerca, che durerà fino alla morte, sull’orario di lavoro per aiutare l’occupazione.
Quindi sulla scala mobile fu lui a rompere, ma sull’unità facciamo un passo indietro. Carniti ci aveva provato ed erano stati i comunisti a…
Sì, allora l’unità sindacale non l’avevano voluta i comunisti. Quello fu un momento fondamentale. L’unità sindacale era voluta dall’ala più militante della Cisl e della Uil, sicuramente, dalle categorie dell’industria che addirittura arrivarono all’auto scioglimento. Era osteggiata dalla parte più conservatrice della Cisl che temeva un inquinamento della sua originalità ma soprattutto, per rilevanza, dai comunisti prevalenti nella Cgil. I socialisti della Cgil, e lo Psiup, era tutti favorevolissimi, da Tonino Lettieri a Giuliano Cazzola, che era un fanatico dell’unità sindacale. I comunisti proprio non ce la fecero. A un certo punto, come ho detto, si tentò di procedere verso l’unità organica a pezzi, cominciando prima dai metalmeccanici, dai chimici, per poi arrivare all’unità di tutti. Ma un’unità vera, organica, tanto è vero che sia la Fim che la Uilm fecero il congresso di autoscioglimento. Ricordo sempre la frase di Trentin: “Se volete vengo, ma vengo da solo”. Era per dirci che non ce l’aveva fatta, che i comunisti non la volevano. E quindi si fece l’Flm, un modo nobilissimo per non fare l’unità sindacale. Era una federazione, con gli iscritti in comune però con ognuno che restava nel suo. Anche se molto avanzata, non era l’unità. E si fece anche la federazione Cgil, Cisl e Uil, che ebbe una funzione, ricordo l’anno del terremoto al sud, e però restava una federazione (che sarebbe utilissima oggi, dico io, meglio di niente). Però l’unità non si fece, malgrado quelli fossero anni di grandi conquiste, anni tutti proiettati in avanti.
Poi, alla fine degli anni Settanta, si capisce che questa roba è finita, cominciano le tensioni su questi temi, tensioni sempre moderate, perché allora molti dei sindacalisti che pure si scontravano anche duramente, avevano fortissimo il senso di un comune mestiere. Il rapporto tra Carniti e Lama fu umanamente molto importante, Benvenuto fu un vero amico, Trentin un uomo più difficile, ma c’era un grande rispetto. Però Lama, che era un grande leader popolare di suo, come lo era stato Di Vittorio, fu travolto, lui voleva fare l’accordo sulla contingenza ma la corrente comunista della Cgil, riunita per conto suo, disse di no a maggioranza. E lo stesso Berlinguer anni dopo disse a Pierre, incontrato attraverso Tatò: “Avete sbagliato perché l’accordo dovevate farlo con noi, cioè con il Pci”, perché si riteneva il partito dei lavoratori, quello che, alla fine dei conti, doveva avere l’ultima parola.
Poi Carniti viene messo alle strette dalla salute molto fragile, ha un infarto grave e lascia il sindacato e non poteva che lasciarlo a Marini. Anche se più moderato, si conoscevano fin da ragazzi e poi Marini era rappresentativo, era quello che poteva tenere insieme la baracca.
Cosa ha fatto grande quella stagione?
Io penso che sia una cosa che facevano tutti i sindacalisti, quella di andare a cercare i giovani, “coloro che…”. Ti racconto due piccoli episodi. In una fabbrica di Milano della elettromeccanica pesante, la Tbv, nell’intervallo si parla coi lavoratori e c’era una questione tra operai e impiegati molto complessa e un giovanissimo osa parlare, alza la mano e dà ragione a Pierre, e alla sera a fine turno si trova davanti Pierre: “Chi sei, cosa fai…”, e lo convince a fare il sindacalista.
Oppure il caso di Moretti, ferroviere, ingegnere, comunista, che ha raccontato come Lama, a Bologna, lo volle vedere, lui e la moglie, e stettero ore insieme perché Lama lo voleva convincere a fare il sindacato e lo convinse. Ecco, questo senso missionario della ricerca, che tutti loro avevano già sperimentato, perché tutti loro erano stati scelti a loro volta, questa è una cosa bellissima che allora, a prescindere se fossero comunisti, socialisti, cattolici, era molto presente e che oggi non è che sia scomparsa, ma non è più all’ordine del giorno.
Sapevano che quelle risorse umane erano decisive per riuscire, perché se tu trovavi uno trovavi tutti, ma se non trovavi quell’uno non trovavi nessuno. Il sindacato non è che parte con un’assemblea in cui tutti ti votano a favore; dentro quell’assemblea devi avere due o tre di cui ti fidi e che ti raccontano cosa è quel posto e che sono stimati dagli altri, con un altro principio decisivo dell’epoca, ma che, secondo me, vale anche oggi, che dovevano essere innanzitutto bravi lavoratori, non scansafatiche che fanno il sindacato per evitare il lavoro. Ma già il commissario interno era un bravo lavoratore, stimato nel suo reparto, nel suo ufficio. Questo binomio era poi molto americano, perché per queste persone il mito americano è stato fortissimo. Erano stati tutti negli Usa dal sindacato americano. Quando Carniti conobbe Walter Reuther, dell’Automobile workers diventò matto! Anche perché Gino Giugni, giovane docente alla scuola di Firenze della Cisl, aveva fatto leggere a tutti il libro di Pearlman sul sindacalismo. Ma veniva anche dai vecchi, da Pastore, l’idea che da una parte c’è la missione, l’idea, il messaggio, dall’altra c’è il sapere che è il sapere. Ai corsi si poteva chiamare un conservatore, un innovatore, un socialista, l’importante era che sapesse le cose e te le spiegasse. C’è un’autonomia del sapere, rispetto al messaggio, che va rispettata. Quando io ho bisogno di capire il cottimo chiamo un ingegnere dell’azienda e me lo faccio spiegare, non è che io so ideologicamente cos’è, che il cottimo è sfruttamento eccetera eccetera, no no. Questo è sempre stato un elemento molto forte nel sindacato, nella Cisl in particolare: il sapere non è dedotto da una certezza teologica. Anche se questa c’è. Ma la strada dell’emancipazione è una strada di autoformazione.
E dopo? Com’è stata la vita di Carniti?
Ma, sempre combattendo con questa salute molto precaria, è stato per un breve periodo al Senato, col Psi, per sostituire non ricordo chi, e poi è stato eletto alle elezioni europee. E questo per lui è stato un periodo appassionantissimo. Ha imparato molto, ha usato i legami sindacali per rivedere i vecchi amici. L’incontro con Delors è stato molto importante per Pierre, così come ritrovarsi con Felipe Gonzales che aveva fatto il corso al centro di studi di Firenze, che era un posto anche molto internazionale. Quindi l’Europa è stata vissuta con entusiasmo, con passione da Pierre. Poi cercò di essere protagonista in politica, nel senso che creò, d’accordo forse anche con Benvenuto, un circolo e una rivistina che si chiamava “Il bianco e il rosso” e aveva chiamato a dirigerla un filosofo nostro amico che aveva lavorato molto per la Cisl, Gigi Ruggiu (uno studioso di Aristotele! per dire come eravamo fatti) che aveva già diretto per un periodo la rivista “Progetto” della Cisl.
Ci furono tante riviste…
Ah, la mania dell’editoria è stata sempre forte. Al centro della storia di Carniti a Milano c’è “Dibattito sindacale”, su cui poi scrivevamo tutti. Quando poi era andato in confederazione aveva fatto “Progetto”, e quindi, come dicevo, “il Bianco e il Rosso”. Ma dopo un po’, anche per la sua amicizia e stima straordinaria per Gorrieri, pensò ai cristiano sociali. Senza però voler essere lui in prima linea. E lì però successe che i cristiano sociali nacquero quando il Partito popolare era già agli ultimi atti. Sì, c’erano ancora persone degnissime come Giovanni Bianchi e Martinazzoli ma di là il berlusconismo stava avanzando. A Carniti glielo disse Prodi di fronte a me: con l’arrivo dell’Ulivo non era più il momento di fare queste cose qui. Ecco, lì c’è uno sgretolamento, una parte dei cristiano sociali per ragioni non sempre nobilissime si inserisce nei Ds, Carniti sta alla finestra, non è contrario, però, insomma non è un’operazione che gli è riuscita.
D’altra parte io penso che questa sia una cosa ricorrente: nella storia del movimento sindacale è rarissimo che un grande protagonista abbia un analogo successo in politica. Il caso più clamoroso è Lama, che aveva in mano il paese e nel partito non ce l’ha fatta. Io credo che il motivo sia perché sono mestieri diversi. Probabilmente succede anche in altri ambiti. Nell’industria, per esempio non mi sembra che dei grandi tecnici siano mai diventati grandi manager. Non so, è una cosa che andrebbe studiata. Forse nel momento in cui il sindacato si autonomizza, che è un fenomeno storico molto lungo, riesce anche a produrre politica, come nel caso del laburismo inglese, ma comunque Attlee non era un sindacalista, Gordon Brown e Blair neanche. In Francia Mitterrand assolutamente non c’entrava niente col sindacato; in Germania no, Koch in Olanda sì, alcuni casi ci sono, ma in genere non succede. Ma lo stesso credo valga anche per la cooperazione. Uno dei più grandi movimenti cooperativi del mondo, che è il nostro, non mi sembra che abbia prodotto delle leadership politiche. Forse questo è il prezzo del pluralismo funzionale. Mestieri diversi. Beh, da noi ci hanno provato i magistrati e forse è meglio che non ci riprovino…
Nell’ultimo periodo della sua vita Carniti si è occupato molto della riduzione dell’orario di lavoro…
Lui era un uomo di convinzioni granitiche. Questa cosa dell’orario di lavoro, della sua riduzione, in cui io lo seguii per un breve periodo, il nesso insomma fra occupazione e orario per lui era diventato fondamentale e questa convinzione lo accompagnò fino alla fine anche se con qualche correzione. L’idea della riduzione generalizzata dell’orario di lavoro per dare lavoro ha due limiti fondamentali. Uno, che è difficile farla senza ridurre anche il salario, o comunque le aspettative salariali, e quindi i lavoratori non ne sono entusiasti e, in secondo luogo, perché la riduzione d’orario pensata con Gorz alla francese, come se ci fosse un grande demiurgo che distribuisce il lavoro nella società, uno Stato che mette ordine distribuendo il lavoro, non funziona. Infatti la caricatura di questo sono le 35 ore in Francia. Carniti lo capì e corresse l’impostazione: si può ridurre l’orario di lavoro diversamente, coi contratti di solidarietà, studiando i casi tedeschi, il caso olandese che è molto interessante. Quindi bisogna lavorare sull’orario di lavoro però non pensando che ci sia un accordo generale per cui si lavora soltanto 30 ore, che tecnicamente è possibile, ma bisogna volerlo! E chi è che comincia?
Ecco, quello fu comunque un assillo per Pierre, che poi aveva un senso della dignità, della giustizia, tremendo. Nel senso che veniva ferito dalle cose che non andavano. Ma come altri, intendiamoci. Era una generazione fatta così, insomma, Bentivogli, ma, per carità, anche la Fiom. C’era Pizzinato, un grande amico, una figura splendida, erano tutte persone integerrime con questo forte afflato etico, era gente che si sentiva offesa dalla condizione umana…
Voi della Cisl giravate il mondo…
Sì, perché noi, a differenza della Fsm comunista, avevamo la fortuna di essere in una grande centrale sindacale libera. Quindi avevamo relazioni internazionali fortissime ed erano tantissime le missioni che si facevano. Dalla Spagna dell’ultimo franchismo per vedere chi poter aiutare di quel sindacalismo,  al Brasile dove andò il mio amico Tridente che scoprì Lula, al Cile dove venni mandato e scelsi Bustos che poi, purtroppo, morì. La domanda era: cosa possiamo fare quando torna la democrazia perché ci sia un sindacato come vogliamo noi? Fu una grande avventura internazionale. Ma poi il Mozambico, la Polonia che fu l’ultima grandissima avventura, in quel caso unitaria ormai. Perché poi, a un certo punto, l’Fsm finalmente andò a quel paese, così capitò che Marini garantì perché Trentin potesse entrare nella Cisl internazionale!  La costruzione del sindacato mondiale che c’è oggi, è stata fatta da Emilio Gabaglio che Carniti, a suo tempo, aveva chiamato alla Fim e poi alla Cisl. Gabaglio fu il grande artefice di questa unificazione tra il sindacato libero, il sindacato cristiano, e tutti i residui Fsm, per cui oggi c’è un sindacato mondiale unico, che sarà debole, sarà quel che vuoi, ma che è come avere una piccola Onu.
Questo è un di più sicuramente rispetto alla Cgil.
Eh sì. Chi tentò dopo di rimettere in carreggiata l’azione internazionale della Cgil fu Claudio Sabatini, che, infatti, incontrai in Cile. Una persona intelligentissima, anche se difficile, che aveva capito l’importanza della dimensione internazionale. Anche per la contrattazione, attenzione. Noi dovevamo capire cosa facevano alla Volvo per cambiare il modo di fare l’automobile. Non è che impariamo tutto da soli. Ma poi per l’aspetto contrattuale e per quello delle libertà, perché il

sindacato può fare bene o male, ma intanto deve avere la possibilità di esistere.
Carniti può essere considerato un grande non solo del sindacalismo?
Beh, ha avuto la grande soddisfazione di essere amato e rispettato. Da tutti. Anche se non era un tipo facile, perché era uno che aveva mandato a quel paese tanta gente. Ma anche solo per il suo coraggio, era rispettato da tutti. Il coraggio, prima, di fare l’unità sindacale e poi, al tempo dello scontro sulla scala mobile, a cui seguì il referendum, anche di chiuderla. Nessuno ha fatto una cosa così! Ha continuato a riflettere sul sindacato, sulla società e sulla giustizia fino all’ultimo, fino agli ultimi suoi scritti. Nella sua ultima lettera pubblica riprende il tema dell’unità. Non ha mai smesso di studiare. E questa passione l’ha sostenuto. Prima che lui morisse la famiglia aveva deciso di lasciare un piccolo lascito per istituire un premio, che noi avevamo chiamato Astrolabio (adesso è il premio Pierre Carniti) per degli scritti di giovani laureati. Io sono uno dei lettori che deve valutarli. L’ultima volta che l’ho sentito, poco prima della fine, è stato per dirgli che era stata molto bella la premiazione di due di questi giovani, a Firenze. Lui, alla fine della telefonata, mi disse: “Bruno, è un commiato”.
Dal sito: http://www.unacitta.it/it/home/ (a cura di Gianni Saporetti)

A chi è cara e a chi no la “Querida Amazonia”? un testo di Leonardo Boff

Leonardo Boff (Ansa)

Leonardo Boff (Ansa)

Questo che pubblichiamo, in una nostra traduzione dallo spagnolo, è una analisi “teologico-strutturale” dell’ Esortazione post-sinodale “Querida Amazonia” di Papa Francesco. Un testo prezioso, scritto dal famoso teologo della liberazione,  per capire anche alcuni nodi problematici della “ecclesiologia” dell’Esortazione.  Un testo sincero, nelle sue critiche, ma leale nei confronti di Papa Francesco. 

Papa Francesco è il campione del mondo nella difesa della Madre Terra e di tutto ciò che sostiene la sopravvivenza. Ho letto con attenzione e grande entusiasmo la sua Esortazione Apostolica “Cara Amazzonia, nella quale egli considera un vero e proprio crimine quello che si sta facendo ora in Amazzonia. Contrappone quattro sogni fondamentali: quello sociale, quello culturale, quello ecologico e quello ecclesiale.

Come non restare affascinati – tra le altre – da dichiarazioni come questa, chiara espressione di un’ecologia globale e cosmica: “Noi siamo acqua, aria, terra e ambiente di vita creato da Dio. Pertanto, chiediamo che cessino gli abusi e la distruzione della Madre Terra. La Terra ha sangue e sta sanguinando, le multinazionali hanno tagliato le vene alla nostra Madre Terra”. Sono perfettamente d’accordo con questo tipo di linguaggio e di denuncia e soprattutto i primi tre sogni s’inseriscono nella scia della “Laudato Si: sobre el cuidado de la Casa Común” (Laudato Si: sulla cura della Casa Comune”).

Tre sogni e mezzo e un incubo
La prima parte del quarto sogno segue lo stile della grande bellezza dei sogni precedenti. Tuttavia, la seconda parte di questo quarto sogno sembra piuttosto un incubo. Il tono prima profetico, etico, ecologico e poetico dei primi tre è svanito. Ci sarà sotto la presenza di un’altra mano?

Oso pensare che questa parte rientri nel vecchio paradigma culturale latino, clericale e maschilista. E si nega agli indigeni il diritto divino di ricevere il corpo e il sangue di Cristo dalle mani dei suoi viri probati sposati e ordinati. Glielo si impedisce in virtù di una legge umana ecclesiastica: il celibato. Altri teologi lo hanno detto e io lo sottolineo: “non possiamo porre la questione del celibato al di sopra della celebrazione dell’Eucarestia“.

Quella parte del quarto sogno, ho la netta impressione che provenga da un’altra mano e da un altro spirito, diverso da quello a cui ci ha abituati Papa Francesco. Lo conferma chiaramente il vescovo Erwin Kräutler dell’Amazzonia, figura centrale del Sinodo panamazzonico: “molte persone, ed io stesso, troviamo questa parte molto strana, perché cambia veramente stile, come se lo scritto papale avesse subìto un intervento nella parte più controversa dell’Esortazione Apostolica”.

In questa parte non parla il pastore ma il dottore. Non colui che ha il coraggio di andare contro il sistema anti-vita, ma colui che si arrende ai timori e alle pressioni dei gruppi conservatori, forse per via del pericolo di una spaccatura all’interno della Chiesa. Il timore frena sempre e ritarda le innovazioni a causa di un’eccessiva prudenza. Mi vengono in mente le parole di Dante nella Divina Commedia: “nel pensier rinova la paura” (Inferno I, v. 4).

Per quanto riguarda il punto importante del ministero sacerdotale, l’ “autore” preferisce l’ecclesiastico tradizionale all’indigeno amazzonico. Al volto amazzonico della Chiesa preferisce, nel punto del ministero sacerdotale, il volto romano-latino occidentale. Analogamente a coloro che impongono la ricolonizzazione economica dell’America Latina, l’ “autore” ha preferito la ricolonizzazione latino-romana della Chiesa amazzonica. Contro coloro che, con la maggioranza dei voti nel sinodo Panamazzonico hanno accettato l’ordinazione dei “viri probati”, l “autore” ha scelto la minoranza che l’ha respinta.

A chi non è cara la “Cara Amazzonia?”
Sicuramente non è “cara” al presidente brasiliano Jair Messias Bolsonaro, di estrema destra, anti-amazzonico e anti-indigeno. Non è “caro” ai taglialegna, o ai “garimpeiros” dell’oro e alle aziende nazionali ed internazionali che hanno in mente le industrie minerarie, le centrali idroelettriche e lo sfruttamento delle risorse naturali dell’Amazzonia. Ma c’era da aspettarselo.

Ma quello che non ci si doveva aspettare per quanto riguarda l’inculturazione del ministero sacerdotale era la mancata accettazione del sacerdozio degli indigeni viri probati. Per questo la “Cara Amazzonia” non è “cara” nei confronti di questi indigeni sposati ai quali si nega l’ordinazione. Non è “cara” nei confronti delle donne, alle quali viene negato il ​​diaconato femminile, facendo inoltre presente, secondo me in modo infondato, il rischio del clericalismo. E non è “cara” soprattutto nei confronti di tanti teologi e vescovi, missionari e missionarie, che si trovano tra gli indigeni, come ha chiaramente detto il già citato vescovo Erwin Kräutler dal cuore dell’Amazzonia (Xingú). Tutti speravano veramente nell’approvazione dei viri probati: indigeni sposati e ordinati con un volto autenticamente amazzonico.

Non è stato così. Nei suoi scritti di ecologia ed economia Papa Francesco ha saputo dare ascolto alla scienza. Per quanto riguarda questo specifico ministero sacerdotale, sembra che l’ “autore” non si sia dato pena di consultare un esperto in materia di ministeri, il Cardinale Walter Kasper, amico e molto vicino a Papa Francesco. Nei suoi scritti ha esposto le migliori riflessioni sul ruolo/missione del sacerdote nella Chiesa sulla base del Vaticano II. La sua posizione va in una direzione molto diversa rispetto a quella rappresentata dall’ “autore” nell’Esortazione “Querida Amazonia”. Con questa visione che mantiene il regime occidentale, clericale e a favore del celibato, non si può pensare ad una Chiesa amazzonica dal volto autenticamente indigeno.

La specificità del sacerdote non è concentrare il potere, ma coordinare e presiedere la comunità.
La visione di quel testo nel quarto sogno risale al Consiglio IV Lateranense del 1215 indetto da Innocenzo III, che dice “nemo potest conficere sacramentum nisi sacerdos rite ordinatus” (“nessuno può somministrare il sacramento eucaristico se non un sacerdote ordinato secondo il rito”). L’ecclesiologia di questo sogno applica il rigore del Concilio di Trento, che nella sessione XIII dell’11 ottobre 1551, sotto il pontificato di Papa Giulio III, ha ribadito la stessa dottrina esclusivista.

Secondo la migliore ecclesiologia nata dal Concilio Vaticano II, la funzione/missione specifica del sacerdote dev’essere pensata non in modo assoluto, ma sempre all’interno del Popolo di Dio e nel contesto della comunità.
La sua unicità non è consacrare assolutamente come un mago, ma essere nella comunità principio di coesione e di unità di tutti i servizi e carismi. Non è quella di concentrarsi, ma quella di coordinare. Per il fatto di presiedere la comunità, presiede anche alla celebrazione eucaristica.

Il problema sorge quando, senza colpa, non c’è nessun sacerdote presente e la comunità, come riconosciuto dall’Esortazione, “a causa in parte all’immensa estensione territoriale, con molti luoghi di difficile accesso” (n. 85) non può averlo.

Nel testo si pone il problema con grande realismo e qui si vede la mano di Papa Francesco: “sarà possibile evitare di pensare ad un’inculturazione dal modo in cui sono strutturati e vivono i misteri ecclesiali ?” (n. 85). E aggiunge con sincerità: “è necessario far sì che la ministerialità si configuri in modo tale che sia al servizio di una maggiore frequenza della celebrazione dell’Eucarestia, anche nelle comunità più remote e nascoste” (n. 86). Questa situazione è assolutamente vera. Ma l’ “autore” non l’ha ritenuta tale e ci ha proposto la configurazione del ministero come dovrebbe essere.

È qui dove l’ecclesiologia di comunione potrebbe avrebbe aiutato molto l’ “autore” nella sua concezione di poter consacrare. Essa ha prevalso per tutto il primo millennio come la ricerca storica ha dimostrato inequivocabilmente.

Per mille anni chi presiedeva la comunità presiedeva anche all’Eucarestia
La legge fondamentale di quei tempi era: chi presiede la comunità, presieda anche all’Eucarestia. Poteva trattarsi di un vescovo, di un presbitero, di un profeta o di un confessore, anche laico, secondo Tertulliano, che era un esimio teologo laico.

Se questo è vero, perché impedire a un indigeno sposato di presiedere la sua comunità e presiedere anche alla celebrazione eucaristica?

In questa parte si realizza quello che gli ecclesiologi chiamano “cefalizzazione” della Chiesa. Tutto il potere si concentra nella “testa“, nel papa o nel clero, prescindendo completamente dalla comunità.

In questa visione riduzionista l’ “autore” ha pensato solo al sacerdote come a colui che ha il potere di consacrare in modo esclusivo e assoluto, senza connessione con la comunità. Quindi emerge una contraddizione: un sacerdote può celebrare da solo, senza la comunità, ma la comunità non può celebrare da sola senza il sacerdote.

Nel successivo millennio: può consacrare solo chi è stato consacrato nel Sacramento dell’Ordinazione.
Questo punto di vista non deriva da questioni teologiche, ma da questioni politiche: le dispute per il potere tra l’Imperium e il Sacerdotium, tra Papi e Imperatori. Chi detiene, in ultima analisi, il potere? Ciò appare chiaramente sotto Gregorio VII (1077). Con lui l’asse della comunità laica si è spostato verso l’asse del potere sacro (sacra potestas). Il potere assoluto lo possiede il Papa. Ricordiamoci del suo Dictatus Papae che, se lo si traduce bene, significa la dittatura del Papa. Tutto il potere risiede nella testa, vale a dire, nel Papa e in coloro che esso delega. I latori del potere sacro saranno solamente coloro che sono stati ordinati esclusivamente nel sacramento dell’Ordinazione, vale a dire gli appartenenti alla gerarchia ecclesiastica. La comunità dei fedeli ormai non conta più.

Padre J.Y. Congar, l’ecclesiologo più erudito e importante del XX secolo, ha denunciato questa pericolosa deviazione teologica con conseguenze dannose per tutte l’ecclesiologia successiva, che dura ancor oggi. Nell’Esortazione “Querida Amazonia” risuona ancora questo tipo di ecclesiologia del potere sottratto alla comunità.

Per questo continuano a destare perplessità le affermazioni: “È importante stabilire ciò che è specifico del sacerdote, ciò che non può essere delegato. La risposta si trova nel sacramento dell’Ordinazione sacra, che configura Cristo sacerdote … Il carattere esclusivo ricevuto con l’Ordinazione fa sì che solo lui sia abilitato a presiedere all’Eucarestia; questa è la sua funzione specifica, principale e non delegabile” (n. 87).

È qui che credo – e non sono il solo – appare una “mano esterna”, con la sua ecclesiologia del potere specifico e indelegabile di consacrare, visione sacerdotalista, arretrata e scollegata dalla comunità della fede. Con questa visione invano può realizzare un’inculturazione del ministero sacerdotale a indigeni viri probati sposati, che darebbero un volto veramente amazzonico alla Chiesa. Anche in questo caso si continua a portare avanti un cristianesimo di colonizzazione dentro al paradigma cattolico-romano, occidentale e favorevole al celibato.

Per porre fine a questo tipo di ricolonizzazione si deve tornare all’ecclesiologia del primo millennio, che stabiliva un’intima connessione tra la comunità e chi la presiedeva. Non si deve dimenticare il canone 6 del Concilio di Calcedonia (451), valido per la Chiesa orientale fino ad oggi e per quella occidentale solo fino al XII-XIII secolo. In questa, quella occidente, tutto è cambiato a causa delle dispute politiche sul potere tra i Papi e gli Imperatori. Al posto della visione comunionale del primo millennio si è imposta la visione giuridico-canonica della sacra potestas degli inizi del secondo millennio. Dice il canone 6:

“Nessuno sia ordinato in modo assoluto, né sacerdote né diacono, a meno che non gli vengano espressamente assegnati una chiesa urbana o rurale, o un martyrion o un monastero. [Per quanto riguarda] chiunque sia stato ordinato in modo assoluto, il santo Consiglio ha deciso che la sua ordinazione sarà nulla o inesistente … e non potrà esercitare le sue funzioni da nessuna parte”.
Qui appare chiaro il collegamento tra la comunità e il celebrante dell’Eucarestia. Qui si presenta un problema teologico che dev’essere preso sul serio: esiste il diritto divino di tutti i fedeli a ricevere il corpo e il sangue di Gesù (Gv 6:35) e a celebrare la sua memoria (Lc 22,19; 1 Corinzi 11:25 ).

Questo diritto divino non può essere negato per via di una legge umana che lo vincola esclusivamente ad una sola persona, il sacerdote celibe, senza il quale questo diritto divino non si può realizzare. Il divino si pone sempre e senz’alcuna eccezione sopra a quello umano. È Cristo che battezza, perdona e consacra, e non il sacerdote.

D’altra parte occorre ricordare qualcosa che ha conseguenze fondamentali: dopo il sommo sacerdozio di Cristo non ci sono più sacerdoti in se nella Chiesa. Chi porta questo nome – sacerdote – altro non è che un rappresentante del sacerdozio di Cristo. È Cristo che battezza, è Cristo che perdona, è Cristo che consacra. Il sacerdote non ha in sé il potere di consacrare, ma solo quello di rappresentare e di agire “in persona Cristi”, al posto di Cristo, ma senza sostituirlo. Il sacerdote rende Cristo-Sacerdote invisibile.
Perché in assenza del sacerdote, per ragioni che non dipendono dalla comunità, un altro cristiano laico “vir probatus” dalla comunità e sposato, non può rappresentare Cristo, renderlo visibile quando, con il battesimo, partecipa anch’egli al sacerdozio di Cristo?

Inoltre il Concilio Vaticano II, riassumendo la tradizione, dice a ragion veduta: non si costruisce nessuna comunità cristiana se essa non ha come radice e come centro la celebrazione della Santissima Eucarestia” (PO 6).

Negando l’ordinazione di viri probati indigeni si nega la possibilità di costruire la comunità cristiana. Questo diritto divino non lo si può negare in nome di una legge umana e culturale come il celibato, e per un’ecclesiologia, che – tra l’altro – considera esclusivo il potere di consacrare. Qui allora non vale l’inculturazione sviluppata in modo tanto convincente nell’Esortazione “Querida Amazonia”?. Non la s’impedisce per ragioni ecclesiologiche estranee, che finiscono per rendere impossibile il volto indigeno e amazzonico della Chiesa negando l’ordinazione dei viri probati indigeni e sposati?.

Le 24 Chiese anch’esse cattoliche senza la legge del celibato
È illuminante in questo contesto ricordare che ci sono altre 24 Chiese, anch’esse cattoliche, ma non romane, come quella copta, quella melchita, quella maronita, quella etiope, quella greca bizantina, quella armena, quella siriaca, quella caldeo e altre. In tutte queste chiese ci sono sacerdoti sposati e sacerdoti celibi. Non per questo sono meno “chiese cattoliche” rispetto a quella romana.

Per quale ragione la Chiesa cattolica romana è così inflessibile per quanto riguarda la legge del celibato, condizione per poter essere ordinati sacerdoti? Sappiamo che la legge del celibato si è formata lentamente nella Chiesa e che nella storia è sempre stata un problema, venendo violata da papi, cardinali, vescovi e presbìteri. E negli ultimi anni è venuta alla luce, nei gradini più alti della Curia vaticana, la violazione del celibato, aggravata dai reati di pedofilia, che sono anch’essi un modo per violare il significato del celibato.

Nell’Esortazione “Cara Amazzonia” il tema dell’inculturazione nelle culture indigene e amazzoniche, per le ragioni già indicate, non è stato portato alle estreme conseguenze, non si è andati fino alla radice. Com’è noto, nella cultura indigena non esiste la figura dell’indigeno celibe. Tutti vivono con la moglie. E lo stesso vale per il sacerdote indigeno.

I viri probati indigeni: ostaggi della cultura romana, latina, occidentale e fautrice del celibato
Impedire a viri probati indigeni sposati di essere sacerdoti significa non calarsi completamente nella loro cultura. In essa il sacramento eucaristico dovrebbe essere celebrato da un sacerdote indigeno sposato. Il non calarsi completamente nella loro cultura condanna gli indigeni a rimanere ostaggi per quanto riguarda il sacramento dell’Ordinazione, della cultura romana, latina, occidentale e fautrice del celibato. Questo significa non far loro giustizia, poiché hanno il diritto divino di ricevere secondo la loro cultura la presenza eucaristica del Signore.

Il supplet Ecclesia e il ministro straordinario dell’Eucarestia
Nonostante questo limite nella comprensione di che presiede all’Eucarestia, la comunità cristiana può ricorrere ad un altro espediente ecclesiologico assicurato nella tradizione, il famoso “supplet ecclesia“. Chiarisco: gli indigeni sposati che già presiedono le loro comunità possono presiedere alla celebrazione della cena del Signore al posto del sacerdote celibe assente in qualità di “supplenza della Chiesa“. Fungono da ministri straordinari dell’Eucarestia e lo fanno con l’intenzione di stare con la Chiesa (cum Ecclesia), mai contro la Chiesa (contra Ecclesiam), e di fare tutto quello che avrebbe fatto il sacerdote se fosse stato presente.

Qualsiasi situazione straordinaria richiede una soluzione straordinaria: la legittimazione del laico indigeno e sposato a presiedere alla celebrazione della cena e alla memoria del Signore. Necessità non ha legge. L’ordo caritatis (l’ordine della carità) e la richiesta della salus animarum (della salvezza delle anime) e l’oeconomia salutis (il processo storico della salvezza) supportano teologicamente tale prassi.

La stessa visione la si ritrova nel sistema giuridico-canonico della Chiesa. Il Diritto Canonico afferma esplicitamente che la legge suprema della Chiesa è sempre la “salvezza dell’anima” (canone 1752). Ciò non implicherebbe anche l’accesso senza le limitazioni imposte dalle leggi umane al sacramento dell’Ordinazione?

È ingiusto considerare le donne cristiane inferiori
Lasciamo da parte la questione del diaconato delle donne, anch’esso negato nell’Esortazione. Tale rifiuto non supera, com’era purtroppo previsto, la questione del genere e fa sì che le donne restino, per impegnate che siano nelle comunità, cristiane inferiori, di seconda categoria, come sostiene anche la cultura maschilista ancora dominante per quanto le riguarda. Sarebbe bene che nella Chiesa si rompesse con una tradizione così ingiusta. Per le donne non valgono i sette sacramenti: per esse i sacramenti sono solo sei, essendo escluse dall’Ordinazione.

Ricordiamo che San Tommaso d’Aquino, nella sua dottrina sui sacramenti, sosteneva che il battesimo è il sacramento dell’iniziazione alla vita cristiana e contemporaneamente è per tutti l’iniziazione a tutti gli altri sacramenti e quindi contiene i sette sacramenti. Secondo questa interpretazione del Dottore Angelico, per il fatto di essere donna, essa, la donna, riceve un battesimo minore perché le manca il contenuto del sacramento dell’Ordinazione.

Ma noi non vogliamo non ricordare un paradosso flagrante: una donna può generare un figlio che è Figlio di Dio. Questa stessa donna che ha dato alla luce questo figlio che è Figlio di Dio non può rappresentare suo figlio che è figlio di Dio. Solo per il fatto di esser donna. Le Scritture dicono che questa donna, Maria, “è benedetta tra tutte le donne” (Lc 1,41). Sembra tuttavia che non sia benedetta abbastanza per rappresentare il proprio Figlio che è il Figlio di Dio che si è fatto uomo.

Aggiungo anche il fatto che le donne non hanno mai tradito Gesù, come fecero Pietro e gli apostoli, che lo abbandonarono. Furono sempre fedeli e furono esse le prime testimoni del più grande fatto della fede, che è la Resurrezione. Solo per queste ragioni dovrebbero avere un posto centrale nella Chiesa, se questa non fosse stata vincolata alla cultura maschilista latino-occidentale.

Niente è più forte di un’idea quando raggiunge il suo punto di maturità
Tutto quello che ho scritto non significa mancanza di lealtà a Papa Francesco, che è incrollabile in me. Vale però il vecchio detto: Amicus Plato, sed magis amica veritas. Compete al teologo cercare nuove vie per i nuovi problemi, sempre al servizio delle comunità cristiane e della stessa Chiesa universale.

Come già si è detto: “Niente è più forte di un’idea quando arriva il momento della sua realizzazione”. Verrà questo momento per i viri probati indigeni e soprattutto per le donne all’interno della Chiesa cattolica romana.

Ma quanto tarda questo  momento …

Nonostante questi vincoli interni, l’ “Esortazione Apostolica Querida Amazonia” è, in questo momento cruciale della crisi ecologica come emergenza planetaria, la difesa più determinata e coraggiosa del Rio delle Amazzoni, presente in 9 paesi, fonte di vita per tutta l’umanità, garanzia del futuro della Terra e speranza della salvaguardia della nostra civiltà. Per questo non smetteremo di ringraziare Papa Francesco per questo servizio profetico a vantaggio di tutta l’Umanità e per tutti coloro che amano e si prendono cura di questo bello e splendido pianeta, la nostra Casa Comune, la grande e generosa Madre Terra.

(Traduzione dallo Spagnolo)

Leonardo Boff è un ecclesiologo del Brasile che ha scritto, tra gli altri, i seguenti testi di ecclesiologia: Die Kirche im Horizont der als Sakrament Welterfahrung, Padeborn 1972; Eclesiogénesis: la reinvención de la Iglesia, Record, Rio de Janeiro 2008 e Dabar, Messico 2009; Iglesia: carisma y poder, Vozes 1982; La Iglesia se hizo pueblo, Vozes 1984; Nuevas fronteras de la Iglesia, Verus 1986.

 

Stragi xenofobe e omicidi: anche in Italia troppe leggerezze sulle armi. Intervista a Giorgio Beretta

 

La strage del 20 febbraio scorso in Germania, in cui Tobias Rathien, un “lupo solitario” tedesco di 43 anni, ha ucciso nove persone e ne ha ferite quattro nel quartiere frequentato da immigrati turchi e curdi di Hanau, ha riportato all’attenzione il problema delle stragi di matrice xenofoba e razzista. Nell’intervista al giornalista Giovanni Tizian, abbiamo approfondito le questioni collegate al diffondersi, in Germania ma anche in Italia, di atti di violenza da parte di gruppi neonazifascisti che inneggiano al suprematismo razziale e al clima politico che li alimenta. Per approfondire ulteriormente il tema ne parliamo con Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa (OPAL) di Brescia.

Lei ha evidenziato una serie di elementi che accomunano le recenti stragi di stampo xenofobo e razzista. Quali sono?

E’ importante, innanzitutto, ricordare almeno le principali stragi degli ultimi anni. La strage di Hanau in Germania (9 morti), è stata preceduta da quelle di El Paso in Texas (22 morti), della moschea di Christchurch in Nuova Zelanda in Nuova Zelanda (51 morti), della sinagoga di Pittsburgh in Pennsylvania (11 morti), della moschea di Quebec City in Canada (6 morti) e da numerose altre fino alla strage del 2011 nell’isola di Utoya in Norvegia (69 morti). Quattro sono gli elementi che accomunano queste stragi. Innanzitutto la matrice: sono ispirate da odio razziale e religioso di stampo suprematista, da antisemitismo e antislamismo e da fascinazioni di tipo nazifascista. In secondo luogo, la tipologia dell’esecutore: sono compiute da singoli, solitamente “lupi solitari” che non sempre fanno parte di gruppi suprematisti e neonazisti, ma che si ispirano alle loro istanze ed intendono diffonderle. In terzo luogo, il messaggio: nella gran parte di queste stragi, l’esecutore ha messo in rete un testo o dei video per diffondere la sua ideologia, il suo credo e i suoi ideali. Al riguardo va segnalato, positivamente, che la “Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza” pubblicata qualche giorno fa, riporta per la prima volta l’elenco dei gravissimi attentati del neonazismo globalizzato. La relazione evidenzia al riguardo anche in Italia “l’emergere di insidiosi rigurgiti neonazisti, favorito da una strisciante, ma pervasiva propaganda virtuale attraverso dedicate piattaforme online, impiegate per veicolare documenti, immagini e video di stampo suprematista, razzista e xenofobo”. E’ un fenomeno, quindi, che viene giustamente attenzionato.

Diceva anche di un quarto elemento. Qual è?

Si tratta delle modalità di esecuzione. Queste stragi sono state compiute con armi regolarmente detenute e i perpetratori erano tutti dei legali detentori di armi. I primi tre elementi pongono all’attenzione il problema della diffusione dell’odio razzista anche da parte di partiti politici, delle ideologie di tipo nazifascita e suprematista, del controllo dei gruppi che le propagandano e dei loro simpatizzanti. La quarta dovrebbe porre all’attenzione il problema dell’accesso legale alle armi.

Perché la questione delle armi è così rilevante?

Per tre motivi. Innanzitutto per il tipo di obiettivo di queste stragi: l’utilizzo di armi da fuoco consente di fare una strage non solo all’aperto ma anche in luoghi chiusi, in spazi prestabiliti, in ambienti prescelti come una chiesa, una moschea, una sinagoga. In secondo luogo per l’efficacia: l’arma a fuoco, anche quella cosiddetta “comune” di non di tipo militare, permette di ammazzare un gran numero di persone in breve tempo, consente cioè al killer di compiere una vera e propria strage. La differenza si è notata, ad esempio, nell’attentato dello scorso ottobre nei pressi della sinagoga di Halle in Germania: il simpatizzate neonazista tedesco, Stephan Balliet, ha utilizzato armi che si era fabbricato artigianalmente che si sono inceppate e l’attentatore, che aveva ucciso due passanti, ha dovuto desistere. In terzo luogo per il significato, il simbolismo che veicolano le armi legalmente detenute. Compiere una strage con un’arma legalmente detenuta significa, per lo stragista, non solo differenziarsi da altri terroristi che usano armi illegali e strumenti impropri, ma ribadire di essere nella legalità e anzi contribuire a ristabilire quella legalità e quell’ordine che sente minacciato da fattori estranei alla “vera cultura”, alla “vera tradizione” della sua nazione e dell’Occidente.

L’accesso alle armi è un problema che riguarda solo gli Stati Uniti o anche l’Europa e l’Italia?

Riguarda tutti i paesi, Italia compresa. Come noto, la questione è fortemente dibattuta negli Stati Uniti dove le stragi e i mass-shooting sono stati commessi con armi legalmente detenute e dove la lobby delle armi, ed in particolare la National Rifle Association (NRA), si oppone tenacemente a politiche di controllo sull’accesso e la diffusione delle armi. Ma riguarda anche l’Europa: la direttiva europea che, dopo le stragi di Charlie Ebdo e del Bataclan, avrebbe dovuto mettere al bando i fucili d’assalto (tipo Ak-47 e  AR-15, quelli più usati nelle stragi negli Stati Uniti), di fatto ha messo al bando quasi niente. Anzi, dirò di più: in Italia è stata utilizzata per allargare le maglie sulla detenzione di armi. Nell’estate del 2018, il governo Conte, su pressione della Lega e con il consenso del M5s, ha recepito, unico in Europa, in senso estensivo la direttiva europea 853/2017: il numero di “armi sportive” (tra cui i fucili semiautomatici tipo AK-47 o AR-15) è stato raddoppiato portandolo da sei a dodici ed è stata raddoppiata anche la capacità dei caricatori acquistabili senza denuncia (da cinque a dieci colpi). Un autentico regalo ai produttori di armi che, come noto, sono molto vicini alla Lega e ai partiti di destra. Così, oggi, con una semplice licenza per il tiro sportivo, per la caccia o per mera detenzione (nulla osta), è possibile tenersi in casa tre pistole con caricatori fino a 20 colpi, dodici “armi sportive” (cioè fucili semiautomatici) con caricatori da 10 colpi e un numero illimitato di fucili da caccia. Un autentico arsenale, perfetto per fare una strage.

In Italia, però, a parte Macerata, non vi sono stati attentati di matrice xenofoba e razzista. Significa che da noi le norme sulle armi e i controlli sono efficaci?

Ha fatto bene a ricordare l’attentato di Macerata innanzitutto perché quella compiuta da Luca Traini è stata – come ha riconosciuto la Corte d’Assise di Macerata e ha confermato la Corte d’Appello di Ancona – una “strage aggravata dall’odio razziale”: la matrice xenofoba e razzista è quindi evidente ed è accertata. In secondo luogo perché, come noto, il suprematista bianco autore della strage di Christchurch, Brenton Tarrant, si è ispirato anche all’attentato di Macerata scrivendo il nome di Luca Traini su uno dei suoi caricatori. Ma soprattutto perché il militante nazifascista Luca Traini deteneva le armi legalmente. E’ vero che in Italia non siamo negli Stati Uniti dove le armi si possono acquistare al supermercato. Ma anche da noi non è affatto difficile prendere una licenza per armi. Oggi in Italia, a qualunque cittadino incensurato, esente da malattie nervose e psichiche, non alcolista o tossicomane, è infatti generalmente consentito di ottenere una licenza dopo aver superato un breve esame di maneggio delle armi. Questa facilità sommata ai controlli troppo blandi sui legali detentori di armi è all’origine di un problema spesso sottovalutato.

A cosa si riferisce?

Mi riferisco al problema degli omicidi familiari e dei femminicidi. Tutti gli studi – tra cui il rapporto Istat pubblicato ieri evidenziano una costante contrazione dagli anni novanta del numero di omicidi attribuibili sia alla criminalità organizzata di tipo mafioso sia alla criminalità comune. Diminuiscono molto meno e anzi sono sostanzialmente costanti gli omicidi di tipo familiare e i femminicidi: lo evidenzia un dettagliato rapporto diffuso l’estate scorsa dal Centro di Ricerche Economiche e Sociali Eures dal titolo “Omicidi in famiglia” (qui una mia recensione). C’è un aspetto particolarmente preoccupante. Nel 2018 quattro vittime su dieci in famiglia sono state uccise con armi da fuoco e, in almeno 42 casi (pari al 64,6%), negli omicidi familiari l’assassino risultava in possesso di un regolare porto d’armi, in 10 casi per motivi di lavoro. Il confronto con il numero di omicidi di tipo mafioso (19 nel 2018, dati Istat) e per “furti e rapine” (12 nel 2018) mette in luce un’evidenza inequivocabile: oggi in Italia le armi nelle mani dei legali detentori uccidono più dei rapinatori e della mafia. E ammazzano soprattutto le donne.

Ritiene, quindi, che l’accesso alle armi sia un problema sottovalutato in Italia?

Sì, fortemente sottovalutato e anzi volutamente e abilmente messo ai margini. Mi riferisco, innanzitutto, al tipo di informazione che viene divulgata soprattutto dai organi specializzati del settore armiero dai quali ci si aspetterebbe una sensibilizzazione adeguata circa i problemi relativi al possesso di armi in riferimento alla sicurezza pubblica. Ma c’è anche una propaganda mirata a minimizzare il problema ed anzi a legittimare la diffusione delle armi. E’ ciò che ha fatto, ad esempio, Matteo Salvini mostrandosi ripetutamente con armi in mano quando era ministro degli Interni e anche di recente: durante la visita alla fiera delle armi HIT Show di Vicenza, Salvini non ha mancato infatti di dire che “le armi ad uso sportivo e per le persone perbene non devono far paura a nessuno” (qui il video). Si tratta non solo di un’evidente sottovalutazione del problema gravissimo delle armi da fuoco negli omicidi in famiglia e nei femminicidi, ma rappresenta una pericolosa legittimazione della detenzione di armi nelle case e nelle famiglie. Le stragi di matrice razzista, il diffondersi di pulsioni xenofobe e l’espandersi di gruppi di ispirazione nazifascista dovrebbero indurre, invece, ad un’ampia revisione delle norme introducendo maggiori restrizioni sulle armi che si possono detenere e controlli più frequenti e accurati sui legali detentori di armi. L’Osservatorio Opal ha da tempo avanzato varie proposte ed alcune iniziative di legge sono depositate in Parlamento: mi auguro che vengano presto esaminate.