RECOVERY FUND: LA GRANDE OCCASIONE PER L’ITALIA DI DIVENTARE UN PAESE PIÙ MODERNO E PIÙ VERDE. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Buone notizie in arrivo da Bruxelles. La Commissione propone un Recovery Fund da 750 miliardi. risorse che si aggiungono agli strumenti comuni già varati. Una svolta importante – come dice il commissario Ue Paolo Gentiloni – per fronteggiare una crisi senza precedenti. Il Recovery Fund, ribattezzato “Next generation Eu”, sarà agganciato al prossimo bilancio Ue 2021-2027 che varrà 1.100 miliardi. Per l’Italia si tratta di 172,7 miliardi di aiuti, 82 a fondo perduto. Ne parliamo con il direttore di Think-industry 4.0 Giuseppe Sabella, anche per approfondire le implicazioni di questo ingente sostegno all’economia italiana ed europea.

Sabella, il Recovery Fund è indubbiamente una svolta importante per il futuro dell’Unione europea: mai la Commissione si è impegnata in un’emissione di questa scala. Cosa significa innanzitutto a livello europeo questa decisione?

Non c’è dubbio che si tratti di un evento decisivo per il futuro dell’Unione. Per la prima volta si sposta la politica comunitaria dall’austerity agli investimenti, e lo si fa in modo sostanzioso: è, finalmente, la nascita dell’Unione del lavoro. Il Recovery Fund, infatti, servirà essenzialmente per rilanciare l’industria europea, e quindi il lavoro. C’è da dire anche che vi sono stati membri ancora contrari – Olanda in particolare ma anche Svezia, Danimarca e Austria – ma, per quanto la proposta dovrà ottenere il via libera del Consiglio e del Parlamento europeo, si tratta ormai di una scelta irreversibile. Tanto che, non meno di una settimana fa, Angela Merkel ha parlato di fine dello stato nazione.

Su cosa si fondano in particolare le parole della cancelliera tedesca “lo Stato nazionale non ha futuro, la Germania starà bene solo se l’Europa starà bene” ?

Intanto, Angela Merkel sa bene che il nuovo corso della globalizzazione sarà meno multilaterale e più regionale, in primis per il rallentamento del commercio mondiale – fatto degli ultimi tre anni in particolare e accelerato dalla pandemia – e, in secondo luogo, dalla guerra commerciale Usa-Cina. In ultimo, fattore forse più interessante, il back reshoring delle produzioni e la riconfigurazione delle supply chain – le catene globali del valore – sta portando gli stati a invertire le scelte che hanno connotato gli ultimi 30 anni, basati sull’idea malsana che la Cina fosse la grande fabbrica del mondo e che, per questo, la manifattura andasse delocalizzata, in Cina come del resto in India e nei Paesi dell’est. La crescita del dragone è stata tale e così imprevista che oggi la Cina è la più grande potenza economica mondiale. Non solo hanno massimizzato i vantaggi delle nostre delocalizzazioni ma i loro investimenti nel digitale l’hanno resa l’economia più avanzata del mondo. Ora, con i mercati americano e cinese che sanno essere rigogliosi per le rispettive produzioni, anche quello europeo deve trovare la giusta coesione, cosa che passa da un lato per un crescente protezionismo a favore dei prodotti europei – che risponda ai dazi americani e cinesi – e dall’altra a un rafforzamento della propria capacità produttiva, anche in termini di innovazione. Angela Merkel, in sintesi, sa molto bene che il principale paese produttore, la Germania appunto, starà bene se il mercato europeo sarà pronto ad accogliere i suoi prodotti. Ecco perché è importante, per citare le sue parole, che “l’Europa starà bene”.

La necessità di rilanciare l’industria passa anche dall’innovazione della produzione. Non a caso, già qualche mese prima dell’epidemia, Ursula Von Der Leyen parlava del Green New Deal. È questa la strada dell’innovazione?

Si, è questa. L’Europa ha la grande occasione di diventare non solo l’epicentro dell’innovazione industriale ed energetica – e quindi, cosa che già sta avvenendo, di rendere il suo mercato interno sempre più legato al prodotto green – ma anche di lanciare una sfida per un nuovo multilateralismo mondiale fondato in particolare sulla lotta ai cambiamenti climatici. L’industria, dentro la crisi ambientale, sarà naturalmente decisiva per ristabilire il nuovo equilibrio. Sono tutti elementi che ci dicono quale grande occasione ha davanti il nostro Paese: da una parte, infatti, beneficeremo del fondo in ragione di ciò che ci spetta, dall’altra, lo stesso rilancio dell’industria tedesca è fattore molto importante per l’Italia che non solo resta la seconda potenza manifatturiera d’Europa, ma anche molto integrata proprio con la grande piattaforma teutonica.

Cosa può comportare, in termini di cambiamento di modello produttivo, il green new deal?

Tra i suoi obiettivi fondamentali il green new deal prevede il contenimento delle emissioni in linea con l’agenda 2030, ovvero -55% di co2 entro il 2030 e 0 entro il 2050 (carbon neutrality). Naturalmente, ogni stato membro dovrà fare la sua parte. E, anche il nostro, la sta facendo seppur vi è ancora molto da fare. Per raggiungere questi obiettivi, da una parte è indispensabile l’impegno del sistema Paese e, in particolare, degli enti locali: i modelli urbani espansivi vanno rivisti con una nuova definizione del processo edilizio – la normativa urbanistica vigente è del 1942 – con tecnologie per impianti che ci mettano in condizione di avvicinarci all’obiettivo del 2050, tenendo presente che le città e i centri più urbanizzati sono i luoghi di maggior concentrazione sociale. Dall’altra parte, va ridato slancio alla trasformazione della mobilità, dell’energia e dell’economia circolare. Le energie rinnovabili giocano un ruolo strategico verso lo sviluppo sostenibile. E l’industria della mobilità sarà ancora centrale, per quanto meno di ieri perché le persone si sposteranno meno. Il trasporto pubblico va decarbonizzato completamente spostandolo verso l’elettrico e il biometano. Quest’ultimo è ormai combustibile fondamentale per i mezzi pesanti, va utilizzato anche in città.

A che punto siamo attualmente in Europa e in Italia circa gli obiettivi di transizione energetica?

È parte degli obiettivi europei raggiungere il 30% di utilizzo di energia derivata da fonti rinnovabili entro il 2030. Nel contenitore UE vi sono molteplici situazioni differenti: dagli stati virtuosi come Svezia 53.8%, Finlandia 38.7%, Lettonia 37.2%, Austria 33.5%, a stati molto meno competitivi come Lussemburgo 5.4%, Malta e Olanda 6%. In Italia più del 18% del consumo totale di energia del paese proviene da rinnovabili con un 8% costituito dal fotovoltaico. Oggi tutti i comuni italiani hanno piani energetici che coinvolgono una forma almeno di energia rinnovabile: bio-energia, eolico, geotermico. Attualmente, la forma di produzione dominante ed in espansione è stata l’idroelettrico, ma nel prossimo futuro il solare potrebbe divenire la chiave energetica della penisola. L’Italia è un Paese che, come si vede, sta facendo la sua parte. Non possiamo perdere l’occasione di essere un Paese più moderno, cosa che passa da una modernizzazione che riguarda anche il digitale e il sistema delle infrastrutture. Innovare significa, appunto, investire verso il nuovo, ovvero nella direzione del digitale e del sostenibile. E ciò ha ricadute su produttività, creazione di valore aggiunto e occupazione, in particolare di qualità che vuol dire soprattutto occupazione giovanile.

Saremo capaci di cogliere questa occasione?

L’Italia deve urgentemente darsi una prospettiva di crescita reale, che sappia rilanciare un Paese depresso dalla contrazione dell’economia cui la pandemia ha soltanto dato l’ultimo colpo. Sono anni che non cresciamo. Servono idee chiare e una task forse di dirigenti che sappiano governare questa transizione. Le risorse ci sono, non possiamo sbagliare. Tra tre anni i grandi Paesi – Germania, UK, Francia, USA, la Cina lo vedremo – avranno fatto passi importanti. Se non li facciamo anche noi, rischiamo di trovarci primi nella classifica dei paesi emergenti, ma di lasciare il gruppo di quelli avanzati.

Perché ha dubbi sulla Cina?

Non è da escludere che emergano fragilità che potrebbero portare la Cina finanche ad una crisi interna: vedremo intanto cosa ne sarà del caso di Hong Kong. E cosa succederà al termine di questa pandemia. Le stesse proiezioni della Via della seta non sono più così ispirate. In sintesi, mi pare che qualche variabile vi sia.

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