Maggio 1970. La vittoria dei lavoratori. Una storica intervista a Carlo Donat Cattin

Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale il 20 maggio 1970, 50 anni fa, lo Statuto dei Lavoratori diventava legge dello Stato. Una legge che ha inciso profondamente sulle relazioni sindacali ed industriali. Ai contenuti dello Statuto ed alla sua approvazione parlamentare ha dato un contributo determinante il Ministro del Lavoro Carlo Donat-Cattin, che ha preso il testimone dal socialista Brodolini, prematuramente scomparso. Per ricostruire il contesto storico , e politico in cui avvenne la maturazione e l’approvazione dello Statuto pubblichiamo due contributi interessanti: un articolo di Giorgio Aimetti, che ringraziamo per la gentile concessione, giornalista e studioso della figura di Donat-Cattin, sul contributo determinante del politico democristiano all’approvazione dello statuto , il secondo contributo è una intervista a Donat-Cattin sul contratto dei metalmeccanici. In quella occasione spiega, l’allora Ministro del Lavoro, il fondamentale ruolo sociale e politico del sindacato per anche della società.

 

Lo Statuto di Carlo Donat-Cattin

 

Cinquantanni fa, Carlo Donat-Cattin riusciva a far approvare la legge 300, lo Statuto dei Lavoratori in una temperie che vedeva un fragile governo monocolore Dc sballottato in un clima politico e sociale surriscaldato dalla stagione dei contratti (ma anche dalle divisioni interne al socialismo italiano).

La ferma convinzione del ministro del Lavoro sull’opportunità del provvedimento era segnata dalla risposta che aveva dato al suo principale collaboratore del momento,  Gino Giugni che aveva avanzato più di una riserva dal punto di vista della giurisprudenza circa le modifiche che il Parlamento aveva introdotto alla legge voluta da Giacomo Brodolini.

«In questo momento si può fare tutto» aveva detto Donat-Cattin.

La frase, riportata da Emanuele Stolfi nel suo volume Da una parte sola, era in particolare la replica ai dubbi manifestati sull’introduzione dell’ormai ben noto articolo 18, ma era anche il segno di quanto la legge 300 fosse figlia dei tempi e delle lotte operaie che stavano animando il paese proprio mentre il Parlamento si dedicava alla nuova normativa che cambiava i rapporti di forza nel conflitto sociale.

Sul provvedimento approvato mezzo secolo fa si discute ancora in questi giorni. Ne ha parlato Avvenire con l’intervento di Pietro Ichino e di Tiziano Treu; qualche giorno fa ne ha parlato Paolo Guzzanti sul Riformista. C’è un clima di revisionismo diffuso, sia pure meno accanito di quello cresciuto durante la stagione di Renzi.

A cinquant’anni di distanza vale la pena di ricordare quei passaggi.

Donat-Cattin aveva preso a staffetta il progetto dello Statuto che era venuto in discussione per opera di Giacomo Brodolini dopo un paio di decenni di dibattiti, distinguo e divisioni che avevano attraversato non solo i partiti ma anche il mondo del lavoro. E da Brodolini, scomparso poco prima, Donat-Cattin aveva voluto prendere non solo il progetto di legge, ma anche la squadra di esperti dei quali il suo predecessore si era circondato. In primis Gino Giugni, socialista, che era stato l’estensore del provvedimento.

Una legge di sostegno dei sindacati e di tutela dei diritti dei lavoratori era stata auspicata già nel primo dopoguerra. Il titolo che avrebbe avuto di “Statuto dei lavoratori” era il frutto di una eredità monarchica. A battezzarlo così era stato, il 26 giugno 1920, Filippo Turati. Il suo cammino legislativo, interrotto dal fascismo e faticosamente ripreso con l’avvento della Repubblica, aveva incontrato opposizioni nella società, tra i partiti, ma anche nel mondo sindacale.

I cattolici impegnati nel mondo del lavoro avevano al loro interno posizioni differenti. Contrari erano gli esponenti della Cisl più ortodossa (a cominciare da Pastore, Storti e dal loro ispiratore Mario Romani), favorevoli, una minoranza della Cisl (in testa Donat-Cattin) e le Acli.

La discussione era quella dell’opportunità di inserire nella legislazione del paese norme che ad avviso di quanti erano contrari avrebbero dovuto essere invece frutto della dialettica sindacale.

Tanti dubbi manifestava anche buona parte del movimento extraparlamentare che era protagonista tra gli anni sessanta e settanta di lotte diventate più aspre durante l’autunno caldo.

La legge era stata un progetto a più mani. Anticipato dall’intuizione del leader socialista Turati aveva avuto un sostegno da parte cattolica, era stato rilanciato dal comunista Di Vittorio. Sarebbe stato votato, al Senato, persino dai liberali.

Donat-Cattin, sempre favorevole a una legge sindacale che sancisse, più che i limiti, i diritti del sindacato, era riuscito a condurre in porto un provvedimento che dalle lotte sociali del ’69 traeva ulteriore forza. Ma c’era voluta la sua determinazione perché fosse approvato al Senato a metà dicembre 1969, nei giorni dell’accordo contrattuale con i metalmeccanici e dell’esplosione della bomba di piazza Fontana.

La frase riferita da Stolfi era, più che una provocazione, una constatazione: di fronte alla sfida terroristica e alla sconfitta confindustriale nella vertenza dell’autunno caldo davvero si potevano conseguire risultati irripetibili, tanto più che il mondo politico intero appariva ancora commosso dalla tragica scomparsa dell’onorevole Brodolini che, ricordava il suo successore, «lavorava con il tempo scandito dall’orologio della morte». Ma c’era la difficoltà di superare l’attrito parlamentare,  la tendenza al rinvio, le sabbie mobili dei dubbi, l’inevitabile allungarsi dei tempi tecnici.

Di Donat-Cattin era nota non solo la dura determinazione, ma anche la capacità di sfruttare gli espedienti parlamentari, di conoscere i meccanismi legislativi, di mettere a frutto il suo  immenso prestigio guadagnato in quei giorni difficili presso il suo stesso partito che altrimenti avrebbe potuto insabbiare un iter che invece si voleva concludere velocemente.

Al Senato il ministro diceva: «Senza dubbio lo Statuto non è altro che una legge democratica, l’affermazione del pieno diritto dei lavoratori ad essere cittadini italiani in ogni parte del territorio nazionale ed in ogni loro funzione. È una legge che dà il valore, spesso non riconosciuto, del passaggio notevole che è intervenuto, nel pur faticoso arco quasi quindicennale della politica di centro sinistra nel nostro Paese».  Poi aggiungeva: «A posteriori, credo che questo periodo non abbia eguali nella recente storia italiana come dislocazione del potere sovrano», e concludeva: «Lo Statuto è una legge importante perché fissa alcuni principi che contano anche, anzi soprattutto, nelle fasi di riflusso».

Poi nei mesi successivi la caduta del governo Rumor rendeva ancor più complicato il cammino della legge. E ancora una volta era la determinazione del ministro a consentire di completare il suo iter parlamentare.

Lo Statuto, avrebbe detto ai deputati, rappresentava «unaffermazione dura e precisa dei diritti dei lavoratori che come cittadini partecipano alla Costituzione di una Repubblica fondata sul lavoro e vogliono che sia riconosciuta la possibilità di organizzazione e di manifestazione dei propri interessi, che essi sanno, autonomamente, inquadrare nel contesto degli interessi nazionali e che, attraverso questo strumento legislativo, vengono sostenuti senza briglia per laffermazione di queste esigenze e di questi ideali».

 

(dal sito: www.fondazionedonatcattin.it)

 

Di seguito l’intervista, tratta da RaiPlay, a Donat-Cattin. Il video è parte di una serie video, materiale d’archivio della Rai , dedicati alle lotte  sindacali che hanno portato all’approvazione della legge 300.

Ex Ilva: “Mittal resterà in Italia, ma serve un piano al più presto”.
Intervista a Giuseppe Sabella

 

(foto Ansa)

Ieri mille lavoratori di ArcelorMittal hanno scoperto di essere stati collocati in cassa integrazione senza preavviso. O meglio, la comunicazione sarebbe stata inviata loro nel corso della notte attraverso il portale interno dell’impresa. I disagi tra azienda e lavoratori si registrerebbero a Taranto e a Novi Ligure in particolare. Cosa sta succedendo alla ex Ilva? Abbiamo fatto il punto con il direttore di Think-industry4.0 Giuseppe Sabella, che dall’inizio segue le vicissitudini dell’ex ILVA.

 

Sabella, ancora una volta la cronaca ci chiede di commentare le vicende della ex Ilva. A che punto siamo? Si riuscirà mai a mettere la parola fine a questa situazione?

Facciamo un passo indietro. Com’è noto, nella prima settimana dello scorso mese di marzo, dopo 4 mesi di trattative veniva firmato l’accordo tra i commissari e i vertici dell’azienda che portava alla modifica del contratto di affitto, finalizzato alla vendita, dell’ex Ilva, con l’obiettivo di garantire la continuità aziendale del polo siderurgico. L’accordo metteva fine al contenzioso legale avviatosi a seguito della revoca dello scudo penale anche anticipando il termine dell’acquisto dei rami d’azienda – dal 23 agosto 2023 al 31 maggio 2022. Restavano però in sospeso alcune questioni, in particolare un piano industriale che definisse, anche, i livelli occupazionali; e, cosa legata al piano, dettagli e conseguenti aspetti finanziari dell’investimento pubblico che il governo si è impegnato a fare. È stato previsto che il piano industriale fosse sottoposto ai sindacati e che, entro il 30 di maggio, questi si accordino con l’impresa. Ecco, in questo senso, non mi stupisce per nulla il comportamento di Mittal che in modo unilaterale ha deciso di fermare alcuni impianti e di allargare la platea dei cassintegrati. È questo un comportamento tipico dell’azienda, in particolare di questo corso targato Morselli: quando si avvicinano scadenze come questa, mette le mani avanti, crea difficoltà alla controparte.

Questa fase della pandemia ha sicuramente causato dei rallentamenti alla definizione di questo piano industriale, anche in ragione della produzione che si è molto ridotta. A ogni modo, al 30 maggio mancano due settimane. Cosa possiamo aspettarci?

I rallentamenti cui lei allude, non a caso, hanno prodotto lo spegnimento dell’altoforno 2: dove non è arrivata la magistratura, è arrivato il covid-19. Credo tuttavia che molto difficilmente Mittal presenterà un piano industriale a governo e sindacati entro il 30 maggio. Del resto, ora la vertenza è tutta privata essendo stato ritirato il recesso; non si tratta quindi di termine perentorio. Ricordiamoci però due cose: questa volta è indispensabile che vi sia l’accordo sindacale; inoltre, dal 30 di novembre 2020, ArcelorMittal avrà facoltà di disimpegno dagli accordi, seppur pagando una penale da 500 milioni, nel caso in cui il governo venga meno agli impegni che ha preso con la multinazionale franco-indiana.

C’è chi sostiene che il futuro sia già scritto: Mittal a fine anno lascerà l’Italia. Le cose stanno davvero così?

I dubbi sulla continuità produttiva ci sono, che Mittal lasci la ex Ilva è naturalmente una possibilità. Del resto, la multinazionale franco-indiana aveva avviato un iter di recesso che quantomeno ha portato ad una exit strategy: nel caso estremo, a questo punto, vi sarà un’uscita ordinata senza pericolosi strascichi giudiziari per ambo le parti. Viste però le risorse ingenti che il governo sta mettendo in campo a sostegno dell’economia, credo che alla fine Mittal troverà conveniente proseguire il suo impegno in Italia: stiamo dando 3 miliardi ad Alitalia, che è molto meno strategica… la stessa generosità il governo l’avrà, alla fine, anche per la ex Ilva. Con tanti ringraziamenti da parte del sig. Lakshmi Mittal.

Quindi il governo manterrà gli impegni che ha preso con l’azienda?

L’accordo tra governo e azienda prevede che nel capitale di ArcelorMittal Italia, entro il 30 novembre, debbano entrare investitori pubblici e privati per dare avvio a una produzione green fatta da un forno elettrico e alimentata dalla tecnologia del pre-ridotto (gas, idrogeno e monossido di carbonio). Inoltre, il governo si è impegnato anche a convincere i creditori coinvolti (Intesa e Bpm in particolare, ma anche Cdp) a trasformare i crediti in equity. Per quanto in questo momento non mi risultino grandi passi avanti, credo che il governo farà fede ai propri impegni, anche perché non può permettersi errori che facciano scattare il disimpegno di Mittal. Non c’è nulla di irresolubile. E, in questo momento, il governo ha capacità di spesa. Tuttavia, ancora vanno definiti molti dettagli; per esempio, il valore dell’azienda è ancora da stabilire.

È quindi solo una questione di soldi? Allocando le giuste risorse si risolverebbe questa lunga vicenda?

I giusti denari per i giusti investimenti: è naturalmente fondamentale, nell’interesse nazionale, che i soldi vengano ben spesi. Senza un piano industriale ben congegnato – vedi Alitalia – la ex Ilva resterà un fondo a perdere. Anche se, industrie di questa complessità sono sempre stressate dalle intemperie dell’economia, con le quali ormai conviviamo da anni.

Cosa va definito quindi in questo nuovo piano industriale?

Come a suo tempo avevano fatto notare i sindacati, va soprattutto definito il mix produttivo tra ciclo integrale e produzione da forno elettrico; il conseguente rapporto, anche finanziario, tra Mittal e società pubblica; i livelli occupazionali e, a questo punto, i quantitativi della produzione anche in ragione dell’attuale crollo della domanda di acciaio, cosa oggi non semplice da fare. Inoltre, il sindacato denunciava anche la difficile sostenibilità del piano alla luce della sua scarsa verticalizzazione produttiva (tubi, laminati, lamiere, treni, nastri) i cui investimenti sono molto inferiori al piano sottoscritto. Insomma, le incognite sono tante, comprese quelle che riguardano i tempi dell’altoforno 5: è difficile prevedere che in due settimane vi sarà accordo a 360 gradi.

Si faceva opportunamente riferimento al crollo della domanda di acciaio. Che ne sarà della nostra siderurgia?

Da una parte, l’economia si riprenderà e quindi l’acciaio tornerà ad essere indispensabile. Per il resto, mi auguro che l’Europa prenderà qualche provvedimento sul prodotto che arriva da Cina e Turchia. L’economia mondiale è sempre più protezionistica. Lo fanno gli USA e lo fa la Cina: è ora che anche l’Unione Europea agisca seriamente a tutela delle sue produzioni e del suo mercato.

A che punto è Francesco? 
Intervista a Mariantonietta Calabrò

(foto Ansa)

 

Ha sorpreso l’opinione pubblica italiana, cattolica soprattutto, la recente nomina ad Arcivescovo di Genova di Padre Marco Tasca, ex padre generale dei frati minori conventuali.  Come si inserisce questa nomina nel più ampio „gioco“ strategico del pontificato di Papa Francesco? Lo abbiamo chiesto, in questa intervista, alla giornalista Mariantonietta Calabrò (vaticanista dell’HuffingtonPost).

 

(foto ofmconv.net)

Mariantonietta, partiamo da una notizia recente: la nomina, per molti aspetti inaspettata, di Frate minore conventuale ad Arcivescovo di Genova. Si tratta di Padre Tasca, già ministro generale dellOrdine. Insomma una nomina in puro stile bergogliano, che spiazza una tradizione consolidata. E lo spiazzamento è grande visto che si tratta di una Diocesi come quella di Genova. Ecosì?

Genova è stata dai tempi del cardinale Siri, la sede episcopale che ha avuto maggiormente a che fare con il potere italiano, un francescano, un minore conventuale, lí è un simbolo oltre che la valorizzazione di una persona. Ma, mi piace sottolinearlo, si tratta di un religioso schivo e lontano dalla ribalta mediatica.

Come sta procedendo il rinnovamento  “bergogliano” nella CEI? Una Conferenza Episcopale che ha mostrato, in alcuni esponenti , una certa resistenza al Papa. Vi sono ancora troppo incrostazioni?

Francamente non mi piace che venga usato l’aggettivo “bergogliano”. E’ un aggettivo proprio delle tifoserie, ed in particolare di quelli che sono ostili al Papa. Nè si può parlare di “incrostazioni” , come fossero sporco da ripulire, è un linguaggio da eresia catara, di qui i “puri”, di là gli sporchi. Si tratta di dinamiche che hanno a che fare con un pensiero assolutista, direi “leninista”, di cui ha fatto le spese prima Benedetto XVI e poi ( a partire dall’attacco dell’ex Nunzio Viganò nell’estate del 2018) anche Francesco. Vorrei ricordare che monsignor Viganò era “sponsorizzato” da autoproclamati fans di Bergoglio a diventare nel 2013, Segretario di Stato .Come si dice, c’è sempre uno più puro che ti epura. Se c’è una cosa che dovrebbe insegnare a tutti l’esperienza drammatica dell’epidemia che stiamo vivendo è l’umiltà davanti alla nostra fragilità. Del resto la prima riforma, ha sempre detto Francesco, è quella del cuore. E la pandemia è un fuoco che brucia tutto ciò che non è essenziale.

Parliamo sempre della Chiesa che è in Italia. Tra qualche giorno, stando al protocollo firmato con il governo, potranno riprendere, con la dovuta cautela, le celebrazioni eucaristiche. Certamente per alcuni assistere alla messa in streaming è stato un trauma (?). Per altri, però, è stata una opportunità per sperimentare  forme nuove di evangelizzazione. Insomma non tutto è  stato un male.  Ecosì?

Certamente è stata la possibilità di ascoltare la parola di Dio e quella dei pastori in un momento drammatico. Da questo punto di vista il gesto di Francesco del 27 marzo rimarrà nella storia come il gesto più potente. Il gesto del Pescatore ( non si chiama anello del Pescatore, l’anello della dignità papale che viene distrutto alla sua morte?) che assume su di sè le paure scatenate dalla tempesta , le fa proprie e le assume nella fede “rocciosa” di Pietro, come ha detto. Ma come ha detto lo stesso Francesco, che per questo sospenderà la messa in streaming da Santa Marta, la fede vive in una comunità che si raccoglie “fisicamente” per la Messa. Non mi sembra un caso che la prima messa con il popolo il cardinale Bassetti, presidente della CEI , la celebrerà per il centenario della nascita di San Giovanni Paolo II, il papa polacco, il papa del popolo polacco, non dell’opinione pubblica o del people nell’accezione inglese della parola.

Torniamo a Papa  Francesco. In questo momento di pandemia la sua persona è stata fatta oggetto di brutali critiche. Le inchieste di Report delle scorse settimane ci ha informati delle strategie comunicative infamanti contro Francesco messe in atto dai suoi nemici. Accuse allucinanti. Non sono mancate nemmeno le accuse deliranti del solito Socci (che successivamente ha chiesto scusa dimettendosi dallincarico di Direttore della Scuola di Giornalismo di Perugia). Ti chiedo: quanto è forte il fronte conservatore allintero della Chiesa?

Ripeto non lo chiamerei fronte conservatore, lo chiamerei fronte antipapale, tout court. Ricordo cosa dichiarò l’allora cardinale di Bologna, cardine Caffarra, uno dei cardinali dei Dubia, ma, secondo me, in totale buona fede: “preferirei che si dicesse che il cardinale abbia un’amante piuttosto che sia contro il Papa.”

L’opposizione antipapale è fatta di molto narcisismo intellettuale e di molta manipolazione propagandistica che viene dal di fuori della Chiesa, che ha a che fare con il Trono ( nazionale, almeno con la Lega al governo, e internazionale), esattamente come avvenne, a parti inverse, con Benedetto XVI.

SullAmazzonia Francesco ha fatto una frenata nel cammino riformatore. Pensi che ci saranno altre frenate? Oppure, invece, il cammino continuerà nel solco della Riforma?

La narrativa della frenata è speculare alla narrativa del progresso. E’ uno schema.

Sempre per parlare di critici del Papa, ha fatto discutere lattacco,  con un editoriale  di qualche giorno fa sul Corriere della    Sera, di Galli della Loggia.  In quelleditoriale il professore Galli della Loggia accusava il Papa di essere ideologico”…

C’è sempre chi sa fare il Papa meglio del Papa e gente per cui il Papa migliore è sempre quello morto (davvero o metaforicamente).

Speranze e limiti della tecnologia nella lotta al Covid-19. Intervista a Paolo Benanti  

 

Siamo  nella seconda fase della lotta al Coronavirus. Nella ripartenza del Paese,  che si spera sarà fatta con intelligenza e prudenza, è prevista, il lancio avverrà entro questo mese, l’utilizzo di un app. di tracciamento. App. che fa discutere l’opinione pubblica.

 Quali limiti invalicabili per la nostra privacy? Quali speranze può suscitare la tecnologia nella lotta al Covid-19. E quale sarà il ruolo della scienza nel mondo post-pandemia? Di tutto questo parliamo, in questa intervista, con il professor Paolo Benanti.

Paolo Benanti,  teologo,  classe 1973,  è un francescano del Terzo Ordine Regolare – TOR – e si occupa di etica, bioetica ed etica delle tecnologie. In particolare i suoi studi si focalizzano sulla gestione dell’innovazione: internet e l’impatto del Digital Age, le biotecnologie per il miglioramento umano e la biosicurezza, le neuroscienze e le neurotecnologie.

Come scrive lui stesso, “cerco di mettere a fuoco il significato etico e antropologico della tecnologia per l’Homo sapiens: siamo una specie che da 70.000 anni abita il mondo trasformandolo, la condizione umana è una condizione tecno-umana…”

Presso la Pontificia Università Gregoriana ha conseguito nel 2008 la licenza e nel 2012 il dottorato in teologia morale. La dissertazione di dottorato dal titolo “The Cyborg. Corpo e corporeità nell’epoca del postumano” ha vinto il Premio Belarmino – Vedovato.

Dal 2008 è docente presso la Pontificia Università Gregoriana, l’Istituto Teologico di Assisi e il Pontificio Collegio Leoniano ad Anagni. Oltre ai corsi istituzionali di morale sessuale e bioetica si occupa di neuroetica, etica delle tecnologie, intelligenza artificiale e postumano. Ha fatto parte della Task Force Intelligenza Artificiale per coadiuvare l’Agenzia per l’Italia digitale. E’ membro corrispondente della Pontificia accademia per la vita con particolare mandato per il mondo delle intelligenze artificiali. A fine 2018 è stato selezionato dal Ministero dello sviluppo economico come membro del gruppo di trenta esperti che a livello nazionale hanno il compito di elaborare la strategia nazionale sull’intelligenza artificiale e la strategia nazionale in materia di tecnologie basate su registri condivisi e blockchain. Tra le sue numerose pubblicazioni segnaliamo il nuovissimo EBook appena uscito per l’Editore “Castelvecchi”: Se l’uomo è solo. Speranze e limiti della tecnologia nella lotta al Covid-19.

Professore, siamo, nel nostro paese, nella “Fase 2” della lotta contro il coronavirus. Una fase,  delicatissima, che è molto importante per la ripartenza dell’Italia. Oltre alla riapertura, prudente, di alcune realtà produttive – rispettando i protocolli di sicurezza – è previsto anche l’utilizzo di un “app” (facoltativa) a sostegno della lotta contro il coronavirus. Sappiamo che si chiama “Immuni”. Servirà per evitare che il contagio si diffonda, attraverso un processo di tracciamento di un eventuale contatto con una persona contagiata. Questa tecnologia ha creato molte discussioni, ovvero su una possibile violazione della privacy, sulla raccolta dei dati e della loro gestione. Il governo ha stabilito che i dati raccolti saranno conservati fino al 31 dicembre di quest’anno .Dopo quella data verranno cancellati. Quindi , professore, non dovremmo avere più nessun dubbio circa l’utilizzo di questa applicazione?

Il tema centrale resta quello della giusta proporzionalità tra quanto consegniamo di noi come contributo al bene comune e il vantaggio che tutti ne abbiamo. E’ questo ciò che distingue un’eventuale app di tracciamento dall’essere utile oppure una minaccia della libertà. Immuni va giudicata dal reale bilanciamento che saprà fare tra questi due elementi. E qui arriva un’altra questione: quella dei dati che vengono utilizzati per il controllo dei contatti con eventuali Covid positivi, che hanno un grande valore. Ecco quindi che nel patto tra assistenza sanitaria, Stato e cittadino ci dev’essere la risposta al “quando”. Cioè, per quanto tempo verranno conservati e per cosa verranno utilizzati. Solo se il periodo previsto sarà lo stretto necessario e se verranno impiegati esclusivamente per questa finalità, allora potremo dire di mitigare gli effetti di questo sistema che di fatto è di controllo delle persone. Se ci concentriamo solo sull’app stiamo dicendo che è importante solo la vita di chi usa lo smartphone. Questo può essere uno strumento in più ma la risposta deve essere sociale, perché ognuno è una vita che ha dignità e diritti. Su questo non possiamo delegare alla tecnologia, che può essere un supporto, restando però sempre umani.

La risposta a questa pandemia dev’essere una risposta umana. Altrimenti rischiamo dei profili distopici e disumani. Ritenere il modello smartphone quello standard, significa infatti affermare che chi resta fuori, bambini, anziani, poveri, è di serie B. Se noi mettiamo l’altare della privacy contro quello della comunità stiamo creando un falso dilemma. Perché nella modalità con cui questa app funziona, il tracciamento è anonimo. Piuttosto si tratta di dati personali e non di privacy. La privacy è quel recinto all’interno del quale ognuno di noi fa quello che desidera e nessuno può entrare. Ma qui la differenza è che stiamo fornendo uno strumento flessibile ed anonimo per poter ricostruire gli ultimi 14 giorni di una vita che però prevede molti scambi e incontri.

Allarghiamo lo sguardo al nostro tempo. La pandemia, con la sua impressionante velocità di diffusione, ci ha scaraventati in un mondo, per alcuni versi, ignoto. Dovremo ripensare, in profondità, la nostra società. Ora qualche studioso ha affermato, anche, che siamo nel tempo del “post – umano”. Come si interseca questo con la costruzione del mondo “post-Covid”? 

Il movimento post-umano parte dall’assunto che una trasformazione profonda nel vivere dell’uomo è già avvenuta e che il risultato di questa trasformazione genera un cambiamento nel suo modo di essere dando inizio all’era post-umana. Da questo punto di vista il movimento post-umano, pur nella sua eterogenesi e nella sua diversità, si differenzia dai numerosi altri movimenti, come ad esempio il Cyberpunk: chi si riconosce appartenente alla corrente post-umana non guarda al futuro possibile ma alla realtà presente, riconoscendo che un cambiamento radicale nel modo di essere uomini già c’è stato. Il compito che si attribuiscono gli appartenenti al postumanesimo è, allora, quello di descrivere e analizzare la condizione post-umana. Il postumanesimo capisce se stesso e si descrive anche in relazione e contrasto con quello che viene definito umanesimo: da una prospettiva generata dalla recente filosofia continentale europea, l’umanesimo è visto non come un movimento progressista ma come una corrente reazionaria, in base al modo in cui si appella – positivamente, cioè facendovi ricorso come criterio fondativo – alla nozione di un nucleo di umanità o a una funzione essenziale comune nei termini della quale l’essere umano può essere definito e capito. Quello che il movimento post-umano contesta in maniera decisa è l’esistenza di un’idea di umano e umanità che sia immutabile. La tecnologia, più che la scienza, ha, agli occhi dei postumanisti, distrutto l’idea di una natura immutabile dell’uomo, rendendo evidente come l’essere umano sia un essere malleabile e capace di essere modificato a piacimento. È questo il punto che cambia la condizione umana in una condizione post-umana. Il mondo “post-Covid” potrebbe essere quello che sancisce per sempre l’idea di una umanità sconfitta dalle sfide della storia e che consegna alla macchina la supremazia nel decidere e nell’organizzare le relazioni umane.

Sempre per rimanere nell’ambito delle definizioni. C’è un legame tra la postmodernità e il post umanesimo?  Il postumanesimo è cesura radicale con tutto il passato?

Il movimento post-umano prende lentamente forma a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Alcuni studiosi suggeriscono di guardare al 1982 come data in cui il movimento si inizia a costituire attorno ad alcune idee chiave. Il motivo di questa scelta è legato ad un articolo pubblicato dal popolare settimanale Time che, all’epoca, suscitò numeroso scalpore nell’opinione pubblica mostrando un mutamento ormai compiutosi nella società occidentale. Il Time è un settimanale statunitense che dedica la prima copertina di ogni nuova annata alla persona più influente dell’anno appena trascorso. Al personaggio prescelto è attribuito il titolo di Man of the Year. Nel 1983 il settimanale nordamericano, proseguendo una tradizione lunga oltre cinquanta anni, indica così le qualità che contraddistinguono il vincitore del 1982 è giovane, affidabile, silenzioso, pulito e intelligente. È bravo con i numeri e insegnerà o intratterrà i bambini senza un lamento. Il Time non si riferiva però ad un essere umano ma ad un computer: nell’editoriale che accompagnava la proclamazione del vincitore, Otto Friedrich fa notare che nonostante molti uomini avessero potuto essere eletti a rappresentare il 1982 nessuno era in grado di simbolizzare l’anno appena trascorso come un elaboratore elettronico. Seguendo le lettere di risposta dei lettori che seguirono la scelta del Time ci sembra di poter indicare in questo evento un simbolo di quanto il postumanesimo avrebbe proposto da lì a poco: “questa volta, sembrava, l’umanità ha fallito nel lasciare un segno. In fatti, il riconoscimento di ‘Uomo dell’anno’ non era più applicabile, così la copertina era decorata con un nuovo titolo: ‘Macchina dell’anno’. Al centro della pagina stava la macchina vittoriosa, con il suo schermo vivo con tutte le informazioni. Una scultura logora e senza vita di una figura umana che faceva da spettatore, con il suo epitaffio formato dalle quattro parole sotto il titolo principale: ‘Il computer arriva’”.

La nostra identità umana è un impasto di tanti elementi. Com’è l’identità dell’uomo nel tempo “post – umano”?  È arrivato il tempo del “Cyborg”? 

Viene sancita l’idea di un uomo in crisi, incapace di saper gestire le macchine che lui stesso aveva creato, destinato ad essere confinato in un passato fatto di residui archeologici.

Il post-umano si configura, quindi, attorno all’idea centrale di un’umanità sconfitta dal suo stesso progresso. Le difficoltà e le trasformazioni che ha conosciuto l’Occidente industrializzato nel primo dopoguerra hanno fatto emergere una serie di dubbi sulle capacità dell’uomo di saper gestire la complessità tecnico-sociale che egli stesso andava producendo. Queste riflessioni sono il nucleo su cui si fonda il pensiero raccolto ed elaborato dai postumanisti.  Con il cyborg parliamo di un uomo che in qualche modo pensiamo migliore e che interagisca con la tecnologia non solo mediante interfacce hard (macchine, computer o simili) ma anche mediante interfacce soft (farmaci o molecole appositamente modificate). Oggi si può parlare di cyborg non per la sola inserzione di componenti meccaniche o elettroniche nel corpo ma per una serie di relazioni tra uomo e tecnologia che hanno come finalità il miglioramento delle prestazioni: l’improvement. Il cyborg si presenta quindi come una questione che tocca direttamente le finalità della tecnologia biomedica e il destino dell’uomo.

Questo tempo, tra l’altro, è caratterizzato dall’affermarsi della A.I. Ovvero dalla “intelligenza artificiale”. Una sfida affascinante ma al tempo stesso carica di incognite. . `Viviamo nella “dittatura” del “dataismo” (parafrasando il dadaismo).. Perché,  per lei, questa è nuova religione? E chi sono i sommi sacerdoti?

Oggi l’umanesimo è di fronte una sfida esistenziale e l’idea di “libero arbitrio” è in pericolo. Le conoscenze neuroscientifiche suggeriscono che i nostri sentimenti non sono una qualità spirituale unicamente umana. Piuttosto, sono meccanismi biochimici che tutti i mammiferi e uccelli utilizzano per prendere decisioni calcolando rapidamente probabilità di sopravvivenza e la riproduzione: anche i sentimenti sono capiti come algoritmi!

Se portiamo questo processo alla sua logica conclusione dovremmo dare agli algoritmi artificiali l’autorità di prendere le decisioni più importanti della nostra vita, come oggi decidiamo in forza dell’autorità che diamo ai nostri sentimenti e vissuti, come dice l’umanesimo. Nell’Europa medievale sacerdoti e genitori avevanoil potere di scegliere il partner per le persone. Nelle società umaniste diamo questa autorità ai nostri sentimenti. In una società dataista chiederò a Google di scegliere. «Hallo Gooogle», dirò, attivando il sistema di intelligenza artificiale. «Sia Giovanna che Maria mi corteggiano. Mi piacciono entrambe, ma in un modo diverso, ed è così difficile decidere. Dato tutto quello che sai dei miei dati, che cosa mi consigli di fare?».

E Google risponderà: «Beh, io ti conosco dal giorno in cui sei nato. Ho letto tutti i vostri messaggi di posta elettronica, ho registrato tutte le chiamate telefoniche, e conosco i tuoifilm preferiti, il tuo DNA e l’intera storia biometrico del tuo cuore. Ho i dati esatti su ogni appuntamento e posso mostrarti secondo per secondo i grafici dei livelli di frequenza cardiaca, pressione sanguigna e lo zucchero per ogni appuntamento che hai avuto con Giovanna e Maria. E, naturalmente, li conosco così come conosco te. Sulla base di tutte queste informazioni, sui miei algoritmi superbi e grazie a statistiche di milioni di rapporti negli ultimi decenni, ti consiglio di scegliere Giovanna: hai una probabilità dell’87% di essere più soddisfatto di lei nel lungo periodo».

Il dataismo è la religione perfetta per gli studiosi e gli intellettuali: promette di fornire un Santo Graal scientifico che ci è sfuggito da secoli: una singola teoria globale che unifica tutte le discipline scientifiche, dalla musicologia, passando attraverso l’economia, fino alla biologia.

Secondo il dataismo la Quinta sinfonia di Beethoven, una bolla speculativa in borsa e il virus dell’influenza sono solo tre modelli di flusso di dati che possono essere analizzati con gli stessi concetti e strumenti di base. Questa idea è estremamente attraente e dà a tutti gli scienziati un linguaggio comune per costruisce ponti che superino le spaccature accademiche e le fratture interdisciplinari, essendo facile esportare le scoperte dataiste oltre i confini disciplinari.

La tecnologia è sempre più questione antropologica e religiosa che non tecnica!

Per contenere  la “dittatura” dei dati e degli algoritmi c’è bisogno di un Algor -etica. Più precisamente cosa vuol dire? 

L’industria informatica ha prodotto una nuova cultura, un nuovo modo di abitare il mondo. Una delle più grandi trasformazioni attraversa il mondo del lavoro, che si disintermedia mentre appare un nuovo attore sociale, l’algoritmo, e nuove forme di potere: le piattaforme digitali. Con la sua grande capacità narrativa, Ken Loach fotografa cosa significa oggi lavorare per un algoritmo che tende a ottimizzare il nostro processo produttivo. Con la scusa di considerare le persone “imprenditori di se stessi” si introducono nuove forme di lavoro a cottimo senza tutele.

Se le macchine riescono a surrogare l’uomo in tante decisioni, dobbiamo chiederci con quali criteri può avvenire questa surrogazione. In altre parole, se la macchina commette un errore chi è responsabile? L’etica diventa il guard rail che ci permette di convivere in modo più sicuro con queste macchine sapienti. L’etica, però, è una questione di valori difficili da comunicare alle macchine, che funzionano sulla base di numeri. E allora bisogna mettere insieme algoritmi ed etica. Da qui nasce un nuovo termine, l’algoretica, la nuova disciplina che vorrebbe rendere le macchine capaci di computare princìpi tipicamente umani. Un percorso che coinvolge più discipline: non bastano più filosofia, tecnologia, informatica, serve la contaminazione

Mentre in tutto il mondo si sta ricercando un vaccino che ci liberi da questa dannazione, in questi giorni abbiamo sperimentato il coraggio umano dei nostri medici. Per loro prendersi cura dei malati di Covid-19 è stato un autentico martirio.  Nel mondo “post-Covid” avremo   sempre più bisogno di Sanità e di grandi investimenti nella ricerca scientifica biologica. Che lezione trarre da quello che è successo?

Il Covid ci ha fatto pesantemente confidare nella digitalizzazione e nei sistemi informatici. Vogliamo sempre più usare le intelligenze artificiali e i sistemi esperti per la medicina e la sanità pubblica. Già da ora dobbiamo chiederci quali saranno le conseguenze per la sanità, specie per i modelli che prevedono un sistema pubblico. Per inquadrare bene lo scenario ci serve partire dalla storia recente. Non molto tempo fa la città di Chicago ha consegnato il controllo dei suoi parchimetri a un gruppo di investitori privati. I funzionari hanno pubblicizzato l’accordo come un’innovativa “win-win situation” — un’espressione idiomatica inglese che indica un accordo da cui entrambe le parti emergono con un vantaggio. La municipalità di Chicago, in cambio di un contratto di affitto di 75 anni, ricevette una somma forfettaria che andava a colmare un vuoto di bilancio cittadino. La prospettiva storica ci fa riconoscere che quel grosso pagamento anticipato era di gran lunga inferiore ai potenziali guadagni dei contatori: era almeno di 1 miliardo di dollari troppo basso. Al momento i sistemi diagnostici dotati di AI sembrano promettere di far risparmiare soldi a una sanità pubblica sempre più in difficoltà ma è un vero risparmio? Ad oggi non è chiaro. Quello che è certo è che nel frattempo, gli sviluppatori di questi sistemi diventeranno capaci di acquisire knowledge e capacità di intelligence sulla salute e sull’evoluzione delle condizioni cliniche dei cittadini. Le scelte tecnologiche che faremo potrebbero affidare non più al medico ma alla macchina la conoscenza di come sono distribuite le patologie, come queste evolvono, che connessione tra fattori secondari e condizioni mediche, l’efficacia delle terapie, le strategie di mitigazione di epidemie e anche dati sulle abitudini sessuali degli inglesi e sulle malattie sessualmente trasmissibili. I dati raccolti possono portare a miniere di informazioni ancora inimmaginabili. Questo know-how, inoltre, potrà essere rivenduto alle sanità e alle assicurazioni sanitarie di tutto il mondo. Dopo il Covid dobbiamo chiederci se e come sarà ancora possibile una sanità pubblica.

Lei è un religioso francescano, le chiedo quale potrebbe essere  il ruolo della Chiesa nel tempo “postumano”?

Nel corso della sua storia il cristianesimo ha abitato con competenza fine tutti i domini del sapere, a favore dell’intera famiglia umana. In questo passaggio della storia, segnato da una rivoluzione tecnologica permanente, il cristianesimo non si tira indietro: è generosamente al lavoro con una dedizione che onora la sapienza del passato. Il compito della Chiesa è quello di associarsi  tutti gli uomini di buona volontà che riconoscono la necessità di lavorare uniti per stabilire principi etici, tenendo conto delle complesse sfide che abbiamo in parte delineato. Noi tutti ci auguriamo che questo modo di accompagnare lo sviluppo tecnologico, che cerca di anticipare i problemi e la ricerca di soluzioni, anziché intervenire solo a posteriori, possa essere fruttuoso dando contenuto buono, forza e sostegno a quel neonato movimento culturale che si interroga criticamente sull’intelligenza artificiale. L’obiettivo è guidare la tecnologia verso un umanesimo che salvaguardi e promuova sempre la dignità dell’essere umano

Aldo Moro, le sue idee e le nostre responsabilità.Un testo di Pierluigi Castagnetti

Oggi, 9 maggio, sono 42 anni dall’assassinio , per opera delle BR, di Aldo Moro. Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, questa bella  riflessione di Pierluigi Castagnetti (ex-segretario nazionale del PPI ed ex deputato).

 

Chi appartiene alla mia generazione ha un ricordo netto di quel 9 maggio 1978. Ricorda la tragedia di quell’assassinio, ricorda la Renaut rossa in via Caetani e ricorda l’angoscia di un paese che si è sentito improvvisamente orfano, non di un capo, ma di un leader, dalla cui intelligenza storica e abilità politica si sentiva in qualche misura protetto, rispetto alle drammatiche insidie di quella stagione.

 

Mi capita spesso di sentire qualcuno affermare “ci vorrebbe Moro”, “per fare che?”, “per tirarci fuori da questa situazione”. Non v’è dubbio che attorno alla sua figura si sia cristallizzata, e imprevedibilmente consolidata nel tempo, l’immagine di un demiurgo capace di guidare il paese nei momenti più difficili. La sua capacità di comporre e guidare era vera, ma oggettivamente non era senza limiti, come tutte le esperienze umane. Se Moro fosse ancora presente oggi (tra l’altro avrebbe più di cento anni) non riuscirebbe a fare miracoli: possiamo, semmai, immaginare che se non fosse stato ucciso quanrantadue anni fa, e non fossero immaturamente scomparse altre figure decisive di quell’epoca come Enrico Berlinguer, probabilmente il nostro sistema democratico non sarebbe giunto a questo punto di fragilità. Ma che senso ha dire questo? Le persone nascono e muoiono e le leadership appaiono e scompaiono, naturalmente. Diciamo che quella stagione era molto diversa dall’attuale e non ha senso alcun rimpianto: questo è il tempo che ci è dato e che richiede intelligenza, responsabilità e risposte nuove, a noi.

 

Personalmente preferisco ricordare che Aldo Moro, oltre che politico e statista di primo piano, era uno studioso, un ideatore e costruttore di scenari sempre nuovi e all’altezza dei tempi, al cui magistero di pensieri “duraturi” continua ad essere in parte possibile attingere anche oggi, senza immaginare che ai problemi di oggi si possano dare risposte pensate quasi cinquant’anni fa. Da questo punto di vista lo statista democristiano continua a rappresentare un vero e proprio giacimento di idee, ovviamente storicamente situate, che possono ancora suggerire riflessioni suggestive.

 

Ne voglio proporre un paio, che considero particolarmente utili per il presente.

 

La prima: “Divisi – come siamo – da diverse intuizioni politiche, da diversi orientamenti ideologici, tuttavia noi siamo membri di una comunità. La comunità del nostro Stato e vi restiamo uniti sulla base di un’elementare, semplice idea dell’uomo, la quale ci accomuna e determina un rispetto reciproco degli uni verso gli altri” (intervento all’Assemblea Costituente, 13 marzo 1947). Probabilmente anche altri alla Costituente hanno espresso concetto analogo, ma mi interessa riportarlo, perché a me sembra che questo valutazione allora largamente condivisa oggi non lo sia più.

 

E ciò rappresenta oggettivamente un certo fallimento per la nostra democrazia, un fallimento che di fatto le rende terribilmente difficile la sua vita stessa. Quando non c’è più un idem sentire degli italiani rispetto al valore della dimensione umana della vita civile, quando scompare o si attenua il riconoscimento del e nel valore delle istituzioni dello Stato, quando il valore del proprio personale interesse soverchia – sino a estinguerlo – il valore stesso del bene comune, quando si misconosce il dato della responsabilità individuale rispetto alla comunità cui si appartiene, vuol dire che qualcosa di importante si è spezzato, sino a far emergere l’angosciante interrogativo se ci si riconosca ancora nel metodo democratico.

 

La seconda: “Io credo all’emergenza, io temo l’emergenza. La temo perché so che c’è sul terreno economico sociale…C’è la crisi dell’ordine democratico, crisi latente con alcune punte acute…Io temo le punte, ma temo il dato serpeggiante del rifiuto dell’autorità, rifiuto del vincolo, della deformazione della libertà che non sappia accettare né vincoli né solidarietà…Ma immaginate cosa accadrebbe in Italia, in questo momento storico, se fosse condotta fino in fondo la logica dell’opposizione, da chiunque essa fosse condotta, da noi o da altri, se questo paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili, fosse messo ogni giorno alla prova di una opposizione condotta fino in fondo?” (discorso ai gruppi parlamentari della DC, 28 febbraio 1978).

 

Altri tempi, altro tipo di crisi, si dirà. Vero. C’era allora una grave crisi economica, l’inflazione al venti per cento, il terrorismo, una certa “solitudine” a livello internazionale, una situazione parlamentare che non sembrava in grado di esprimere maggioranze di governo, e una discussione parallela all’interno dei due maggiori partiti, la DC e il PCI, che si esprimeva più o meno negli stessi termini: “piuttosto di, andiamo all’opposizione”.

 

Non c’è più Moro, non c’è più Berlinguer.

 

Ci siamo noi e le nostre responsabilità.

 

  L’articolo è tratto dal sito: https://immagina.eu/2020/05/09/castagnetti-aldo-moro-anniversario/fbclid=IwAR3qlaeesM0cFjSWdn3muizHXjVNqDjowmyEwTROe9ufI_wiaE8rhNnfQXU

 

 

Ultima lettera, dalla prigionia, di Aldo MORO alla moglie:

 

 

Mia dolcissima Noretta,

dopo un momento di esilissimo ottimismo, dovuto forse ad un mio equivoco circa quel che mi si veniva dicendo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo. Non mi pare il caso di discutere della cosa in sé e dellincredibilità di una sanzione che cade sulla mia mitezza e la mia moderazione. Certo ho sbagliato, a fin di bene, nel definire lindirizzo della mia vita. Ma ormai non si può cambiare. Resta solo di riconoscere che tu avevi ragione. Si può solo dire che forse saremmo stati in altro modo puniti, noi e i nostri piccoli.

 

Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della D.C. con il suo assurdo ed incredibile comportamento. Essa va detto con fermezza così come si deve rifiutare eventuale medaglia che si suole dare in questo caso. È poi vero che moltissimi amici (ma non ne so i nomi) o ingannati dallidea che il parlare mi danneggiasse o preoccupati delle loro personali posizioni, non si sono mossi come avrebbero dovuto. Cento sole firme raccolte avrebbero costretto a trattare.

 

E questo è tutto per il passato. Per il futuro c’è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e di ciascuno, un amore grande grande carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi. Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi. Per carità, vivete in una unica casa, anche Emma se è possibile e fate ricorso ai buoni e cari amici, che ringrazierai tanto, per le vostre esigenze. Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani.

Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo.

 

Amore mio, sentimi sempre con te e tienimi stretto. Bacia e carezza Fida, Demi, Luca (tanto tanto Luca), Anna, Mario, il piccolo non nato, Agnese, Giovanni. Sono tanto grato per quello che hanno fatto.

 

Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta.

 

Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo.

 

La lettera si interrompe così, senza firma. Successivamente fu consegnato alla famiglia questo breve frammento:

 

Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibilmente lordine di esecuzione. Noretta dolcissima, sono nelle mani di Dio e tue. Prega per me, ricordami soavemente. Carezza i piccoli dolcissimi, tutti. Che Iddio vi aiuti tutti. Un bacio di amore a tutti. Aldo”.