Tra virus ed elezioni, l’autunno sarà “caldo” per la politica italiana? Intervista a Fabio Martini

FABIO MARTINI

I prossimi mesi saranno decisivi per l’Italia. Le sfide della “ripartenza” sono tante, la politica sarà all’altezza? Ne parliamo, in questa intervista, con con Fabio Martini inviato e cronista parlamentare del quotidiano “La Stampa”.

Fabio Martini, come era facilmente prevedibile, la fase tre (quella della convivenza con il virus) si è avviata in maniera un poco caotica. Anche la “fase tre” della politica (quella della progettazione e della ripartenza) non pare all’altezza. Siamo agli inizi, certo, ma l’impressione è che questi benedetti “stati generali”, come il piano Colao, siano capitoli di un libro ancora tutto da scrivere. E rischiamo grosso con l’Europa, la nostra unica ancora di salvezza. Insomma c’è una idea di Paese?
«Un’idea di Paese è esattamente quello che in questo momento servirebbe al governo per poter uscire in piedi dalla crisi sanitaria ed economica. Si può immaginare che qualche idea per il Paese, il presidente del Consiglio l’abbia cercata, e magari trovata, nella consultazione delle parti sociali a Villa Pamphili. Una consultazione viziata da due dubbi: il suo carattere neo-corporativo e la piegatura auto-promozionale dell’operazione. Questo sospetto sul fatto di procedere per annunci&eventi ha trovato puntuale conferma in conclusione degli Stati generali: Conte ha annunciato che si starebbe studiando la riduzione dell’Iva. Un annuncio per rilanciare su un nuovo miraggio l’attenzione dell’opinione pubblica? Di sicuro all’ annuncio è seguita una correzione. Al Paese,  per ripartire da 20 anni di stallo, lo sanno tutti, servirebbe una scossa capace di incidere sui vizi atavici del sistema. Soltanto un gravissimo infarto sociale ed economico può fare cadere questo governo, che dunque proseguirà il suo cammino ma per la natura delle forze che lo compongono, questo esecutivo sembra più adatto ad una navigazione sotto costa che ad una sfida nel mare aperto delle sfide capaci di far rinascere un popolo».

Veniamo alla politica . La maggioranza, per ora, regge. Anche grazie alla “rendita di posizione” (non ci sono alternative) e all’equilibrismo di Conte. L’impressione è che in autunno, qualcuno dice anche a settembre , i rischi saranno alti per la maggioranza. Questo non solo per l’esplosione del malcontento, ma anche per le elezioni regionali. Le elezioni regionali saranno il detonatore? È un calcolo sbagliato? È solo uno spauracchio?
«Effettivamente le elezioni Regionali  di settembre – che pure chiamano in causa un campione elettorale limitato – potrebbero contribuire – più che a buttar giù il governo – a ridisegnare gli schieramenti politici. Nessuno ragiona attorno ad una questione: in Emilia il Pd ha già vinto a febbraio con una coalizione di centro-sinistra, facendo a meno dei grillini e se per caso dovesse riconquistare Campania e Toscana con lo stesso assetto, si dimostrerebbe vincente il modello dell’autosufficienza. Dell’orgoglio Pd. Dando argomenti importanti a chi, in quel partito, tende ad allentare la presa dai Cinque stelle e da una personalità capace ma di inafferrabile identità politica come Conte. E ancora: in Liguria e nelle Marche Pd e Cinque stelle si coalizzeranno? Questa eventuale alleanza porterà vittorie o sconfitte? Ultimo dato: se in Veneto il Governatore Zaia dovesse vincere con una percentuale “fuori misura”, di fatto si conquisterebbe un posto in prima fila per la futura leadership del centrodestra, insidiando seriamente Matteo Salvini. Se gli elettori premieranno il centrosinistra a vocazione indipendente e maggioritaria e Zaia dovesse svettare, le prossime elezioni regionali potrebbero configurarsi come un Big bang sulla politica italiana».

Focalizziamoci sui principali attori della scena politica. Incominciamo dal PD. Ha fatto scalpore l’uscita di Gori contro Zingaretti. Uscita stoppata dai maggiorenti del Partito. Cosa cova sotto le ceneri del PD? A qualche osservatore è apparsa una uscita, quella di Gori, in stile “renziano”. È così?
«Nel senso del primo Renzi? Assolutamente sì. Nei sei mesi più felici della sua storia politica, Renzi prima vince le Primarie del Pd e poi conquista palazzo Chigi (con l’appoggio implicito ma decisivo dei bersaniani e di D’Alema) sulla linea del rinnovamento della linea politica, della vocazione maggioritaria, dell’orgoglio Pd. Poi si inebria e inizia il declino, ma in quei sei mesi il suo è un modello di successo, non solo per sé stesso e per il partito, ma anche per il Paese. Giorgio Gori ha semplicemente detto quel che a voce bassa, sostiene il 95 per cento del gruppo dirigente del partito e anche molti elettori: un Pd passivo non aiuta il Paese ad uscire dalla crisi e, vivacchiando, fa male a sé stesso e alla prospettiva dei progressisti. La leadership pacifista di Zingaretti ha letteralmente salvato il Pd, perché Renzi – dopo aver perso il congresso – era pronto a mandarlo in frantumi. Ma questa è un’altra stagione. Al Pd – questo dicono sottovoce in tanti e Gori a voce alta – non serve una leadership agnostica, ma una leadership  – se non progettuale – almeno convincente e trascinante dal punto di vista delle cose (serie e non di manutenzione) da fare. Non domattina, ma con un orizzonte che guardi ai prossimi 12-24 mesi»

Vedi un possibile rafforzamento nel PD di Stefano Bonaccini? Ovvero di una figura dotata di un riformismo pragmatico?
«Da presidente della Regione Emilia-Romagna Bonaccini ha dimostrato due cose: cultura e prassi di governo, ma anche capacità di presa e di recupero elettorale su un territorio che era diventato molto accidentato, come dimostrano le poderose percentuali (che i media disattenti non hanno notato) che il centro-destra ha conquistato nelle province di confine, Ferrara e Piacenza. Bonaccini è interessato a giocarsi la partita. In tempi e modi ancora da valutare ma il modello-Emilia è un asso che prima o poi sarà calato».

I 5stelle anche loro, parafrasando Woody Allen, non stanno tanto bene. Il ritorno di Grillo e Di Battista – Casaleggio, porta con sé antichi rancori. L’apparenza dice: che il più saggio in questo frangente è proprio Beppe Grillo. Come ti spieghi questo?
«Dopo una stagione nella quale nel Movimento nessuno stava più a sentire Grillo – esemplare il gelo nel quale calò la sua proposta di togliere il voto agli anziani – la perdurante crisi dei Cinque stelle riconsegna forza ai punti di riferimento, alle figure “carismatiche”, espressione che usiamo per farci da capire e da non prendere alla lettera. Grillo è intervenuto per stroncare chi – come Di Battista – invocava il rispetto di un impegno elementare: celebrare finalmente il primo congresso del Movimento per fare decidere alla mitica base la linea politica. Con un intervento apparentemente di buon senso ma di fatto autoritario, Grillo ha aperto la strada ad una soluzione dorotea: tutto il potere ai “capi-corrente”».
Salvini, Meloni e Berlusconi. Il centro destra è attraversato da movimenti. Ormai sappiamo che la competizione all’estrema destra sarà Salvini – Meloni. E La Meloni non concederà molto a Salvini. Insomma dobbiamo prepararci ad una destra guidata da una discendente del neo fascismo?
«Giorgia Meloni proviene dalla scuola politica che parte dal Movimento sociale e ha ereditato dai due leader di maggior peso di quella storia (Giorgio Almirante e Gianfranco Fini), la grinta contestativa e argomentativa, ma non quella gravitas, che in alcune fasi del lungo dopoguerra italiano consentì ai due segretari del Msi di “parlare” ad una platea più vasta di quella degli elettori nostalgici. Ciò premesso, si fatica ad etichettarla come neofascista ma anche ad immaginarla leader di uno schieramento: per quanto la Lega abbia perso intenzioni di voto, resta di gran lunga la forza maggioritaria del centrodestra, con oltre il 50% dei consensi interni e dunque la premiership toccherà a loro. A chi, come detto, è tutto da vedere».

È riapparso Silvio Berlusconi…. Che ruolo sta giocando….?
«Se Berlusconi non fosse… Berlusconi, lo avrebbero già fatto accomodare in maggioranza e forse anche al governo. Ma su Berlusconi pesa, nell’immaginario grillino, una pregiudiziale etica della quale si possono comprendere le ragioni. E dunque il Cavaliere si è ritagliato un ruolo di saggio moderatore, in particolare nei rapporti con l’Europa, ma senza rompere con Salvini e Meloni. Anche per lui le Regionali saranno una cartina di tornasole: il Berlusconi moderato torna ad aggregare? Se le risposte fossero nette – in un senso o nell’altro – anche le conseguenze sarebbero nette».

Matteo Renzi sempre più alla ricerca della sua visibilità, alterna momenti di lontananza (con azioni di disturbo) e vicinanza dalla maggioranza. Una tattica che non porta molti voti….
«Renzi si ritrova nella spiacevole situazione per la quale qualsiasi cosa faccia o dica, viene letta sempre nella logica dell’interesse personale. Poco importa che su diverse questioni abbia visto prima degli altri o che alcuni dossier da lui indicati siano stati poi adottati dalla maggioranza: tutto questo non si tramuta in intenzioni di voto. Un caso esemplare di auto-dissipazione, alla quale hanno contribuito l’alto senso di sé e qualche “bidone” rifilato qua e là. Ma attenzione: una certa inaffidabilità – per quanto non generalizzabile – è abbastanza comune: Renzi l’ha pagata di più, forse anche perché la qualità politica del personaggio rende ancora più imperdonabili le sue leggerezze».
Una battuta sulla Presidenza della repubblica. Il grande oggetto del desiderio… È ancora troppo presto?
«Tutti i candidati – e sono tanti – sono già al lavoro e ogni giorno, senza che ce ne accorgiamo, aggiungono una tesserina al proprio mosaico. Ma è presto per azzardare scenari, perché non sappiamo assolutamente quale sarà la platea dei grandi elettori.: Poniamo che ad eleggere il successore di Mattarella sia questo Parlamento: nei giorni delle votazioni quale maggioranza sosterrà il governo? L’attuale o una di salvezza nazionale? A due maggioranze diverse equivalgono, in linea di massima, due diversi Presidenti. E se invece la legislatura si chiuderà prematuramente? A quel punto avremo una maggioranza di centrodestra autosufficiente o nessuna maggioranza? Tutti scenari che portano a presidenti diversi. Una cosa possiamo però anticiparla: “voci di dentro” del Quirinale ci dicono che Mattarella non chiederà di restare per altri sette anni»

L’ultimo saluto a Giorello: “Giulio era musica”. Intervista a Giuseppe Sabella

Ieri, a Milano, parenti e amici hanno dato l’ultimo saluto a Giulio Giorello. Non un funerale ma un dolce congedo che, anche nelle parole di chi ne ha ricordato frammenti di vita (la moglie Roberta Pelachin, Vittorio Sgarbi, il Rettore dell’Università di Milano Elio Franzini, etc.), ha fatto apparire quell’immagine di lui che si unisce a quella dell’epistemologo, del filosofo della scienza: Giorello è stato un filosofo della libertà. E i suoi libri testimoniano questa fortissima tensione per la libertà che negli ultimi anni si è sempre più accentuata. Non a caso, lo avevamo intervistato (leggi qui) proprio in occasione della sua ultima pubblicazione Società aperta e lavoro (Cantagalli 2019), scritta insieme al suo allievo Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0, che collabora con RaiNews.it sui temi economici e del lavoro.

E proprio a Sabella abbiamo chiesto un ricordo del professore.

Giulio è stato strappato dall’affetto di chi continuerà ad amarlo in modo molto improvviso. Come si è saputo, aveva contratto il covid e, dopo due mesi di ospedale e due tamponi negativi, sembrava averlo superato. Ma una volta dimesso, ha avuto qualche complicazione che nel giro di pochi giorni si è rivelata letale. È quindi questa una ferita, per chi è affettivamente legato a lui, che chiede tempo per guarire. Ad ogni modo, è morto con un viso disteso e bello.

Che genere di filosofo è stato Giorello?

Allievo di Ludovico Geymonat, Giorello è stato un filosofo che non solo si è dedicato agli studi epistemologici, a Karl Popper in particolare e a chi ne ha discusso le posizioni, ma che – proprio come Popper – ha creduto che il metodo scientifico fatto di congetture e confutazioni potesse essere anche il giusto metodo per la costruzione della democrazia liberale. Non a caso, nel nostro Società aperta e lavoro c’è un capitolo che si intitola dalla fabbrica dei cieli alla società aperta. Giorello aveva questa sana tensione alla vita civile. In poche parole, Giorello è stato un intellettuale, figura che manca così tanto ai nostri giorni.

Ci racconta un episodio significativo?

Ricordo un episodio quando ero studente, proprio negli anni della tesi – che mi fece fare su Geymonat – che descrive molto bene il professore. Avendo lui intuito la mia passione per la metafisica (kantiana ed hegeliana in particolare), in un colloquio che seguiva alla lettura del primo capitolo mi disse: Sabella, sa cosa dice Aristotele nell’Etica? Pensi pure Platone al bene in sé, noi vogliamo il bene di questi cittadini qui. Io naturalmente gli feci quella che secondo me resta un’obiezione valida: Professore, come si fa a volere il bene di questi cittadini qui se non si ha un’idea di bene? Ho compreso nel tempo che la sua domanda aveva un senso di verità molto profondo e che sintetizzava bene il suo pensiero: o le idee sono in grado di agire e di modificare la realtà o non sono nulla, sono astrazioni. E, contro queste astrazioni, lui ha condotto fino all’ultimo la sua battaglia. Sono convinto, oggi, che se possiamo parlare di verità, la verità è dentro questa tensione che c’è tra Platone e Aristotele, come tra Hegel e Marx, e che è una tensione al vero. E al bello.

Nel 2010, Giorello pubblicava per Longanesi Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo. È giusto quindi ricordarlo come un ateo?

Il sottotitolo di questo libro che lei cita, Del buon uso dell’ateismo, dice ancora una volta moltissimo di lui. Giulio, da uomo non solo di filosofia ma anche di scienza, riteneva che la pratica scientifica e civile dovesse prescindere da Dio e dalla religione. Era un perfetto laico, convinto che qualsiasi scelta dovesse essere libera e responsabile. Non a caso amava gli illuministi come Adam Smith, Denis Diderot, David Hume. Ma, a proposito di Dio, ricorderei anche che Giorello ha avuto un rapporto speciale col cardinal Martini e che amava Baruch Spinoza. Noi sentiamo e sappiamo di essere eterni diceva Spinoza: è arduo, soprattutto oggi, dire che il grande filosofo olandese fosse un ateo.

Lei si occupa di economia e di industria, cosa vi legava tanto da condividere pensieri, dibattiti pubblici e, anche, un libro?

L’industria è stata e continua a essere il sistema tecnico più sofisticato che abbiamo inventato e sviluppato per coniugare le risorse della terra e il lavoro dell’uomo, quello fisico come quello intellettuale. È il più grande prodotto della scienza moderna. Ma, contrariamente al tempo degli albori del sistema di fabbrica, oggi abbiamo ragione di credere che non ci sia uno schema preordinato che in qualche modo sciolga l’enigma della storia, come per esempio voleva Marx. Crediamo invece che gli individui possano di continuo cambiarne l’apparente direzione. Una vera e propria direzione della storia in sé e per sé non esiste, il suo corso è imprevedibile perché, in particolare, è imprevedibile l’evoluzione scientifica e tecnologica. Ecco, oggi siamo nel cuore della rivoluzione digitale, che è la rivoluzione dell’industria, quella che chiamiamo Industry 4.0. Questo è diventato con gli anni il mio principale oggetto di studio che a lui interessava molto perché, appunto, è prova evidente del fatto che non è l’ideologia a cambiare il mondo ma la tecnica, perché questa è il vero contenitore in cui ricade la forma più alta di conoscenza: la tecnologia e le macchine non sono infatti nient’altro che idee della scienza in marcia diceva Giorello. Scienza e tecnica si fanno luce a vicenda, il loro rapporto è circolare, vive di continui riflessi. E così è sempre stato, soprattutto nell’antichità, quando ancor prima che l’uomo fosse in grado di porsi le domande fondamentali sulla propria esistenza, già era capace di creare strumenti tecnici, persino per formarne degli altri. Ovviamente la significatività della crescita tecnico-scientifica non deve minimamente far dimenticare la riflessione etica sulla condizione umana: altrimenti, il successo tecnologico può diventare un idolo. E di idolatria, diceva Giorello, non abbiamo alcun bisogno.

Come si spiega questa popolarità del professore e, anche, l’affabilità che lo contraddistingueva?

Giulio è stata una persona amabile, perché aveva un cuore gentile e generoso. Aveva una capacità di pensare e di comunicare molto lineare. Era molto diretto ma garbato, era in grado di esprimere qualsiasi idea senza offendere nessuno, perché era rispettoso ed elegante nei modi. Ricordo sin da quando ero studente la sua insistenza sull’eresia della scienza. In questo senso, Giulio ci ha insegnato ad essere eretici. E che il progresso della conoscenza come della civiltà si fonda su questa irriverenza, a dire il vero non sempre gentile e garbata come era lui. Leggere ciò che scriveva era emozionante perché il suo modo di esprimersi era musicale. Non a caso, oltre alla birra irlandese, amava la musica. E Bach in particolare, che nel giorno del congedo ci ha accompagnato con la sua musica. Aveva un senso dell’ironia particolarmente affilato e divertente: chissà se lo spirito è santo o solo sopra i 40 gradi? ogni tanto si chiedeva sorridendo. Oggi qualche risposta concreta comincerà ad averla.

TUTTE LE SCONFITTE DELL’ITALIA IN LIBIA. INTERVISTA A MICHELA MERCURI

Quali saranno i “giochi” strategici militari nel nuovo scenario libico? Ne parliamo con la professoressa Michela Mercuri. Michela Mercuri è  docente del Corso in Terrorismo e le sue mutazioni geopolitiche alla SIOI (Società italiana per le organizzazioni internazionali di Roma), insegno Geopolitica del Medio Oriente all’Università Niccolò Cusano e Storia contemporanea dei Paesi mediterranei all’Università di Macerata . È componente dell’Osservatorio sul Fondamentalismo religioso e sul terrorismo di matrice jihadista (O.F.T.).

Professoressa, la situazione in Libia è ancora ben lontana dalla stabilizzazione. Comunque un dato emerge : Haftar esce fortemente ridimensionato dal conflitto. Colui che voleva conquistare Tripoli viene respinto dal forte intervento turco a fianco del governo di accordo nazionale (quello di Tripoli). Domanda adesso che faranno Francia e Russia? Secondo una fonte giornalistica, Arab weekly, Parigi e Mosca si stanno accordando per il controllo di Sirte (e anche della base di Al-Qardabìya). L’obiettivo russo è avere basi in Cirenaica. Insomma per il Sultano Erdogan non è una passeggiata per lui la Libia…

La città di Sirte è da sempre considerata strategica sia per la sua collocazione geografica, sia per i giacimenti inesplorati che fanno gola a molte potenze straniere da tempo presenti nel teatro libico, Francia in testa. Inoltre, la base di Al-Qardabìya è da tempo negli obiettivi di Putin che ha preso parte alla guerra per procura in Libia al fianco del generale Khalifa Haftar anche per poter ottenere uno sbocco sul mare e per il posizionamento di basi militari. Per questi motivi, per Mosca e Parigi, la Turchia non deve superare questa sorta di “linea rossa”. Al-Qardabìya, poi, ha un forte valore simbolico anche per Haftar che, nel 2016, chiamò l’offensiva militare contro le forze di Misurata battaglia di “Al-Qardabìya 2”. Nonostante tutto, un accordo tra Turchia e Russia sembrava nell’aria: oAnkara avrebbe lasciato al Cremlino la base aerea di al-Jufra, in cui sono già “piazzati” caccia russi, e magari altri “assets”, e la partita forse si sarebbe chiusa. Tuttavia la Francia per non rimanere esclusa dai giochi ha intensificato notevolmente la propria attività su Sirte, con numerosi sorvoli effettuati con caccia Rafale sui cieli della città, rimescolando le carte. Per non indispettire gli Usa, per ora più vicini alle forze dell’ovest, il Presidente Macron ha telefonato a Trump denunciando il comportamento “inaccettabile” della Turchia, tentando di mettere i bastoni tra le ruote a Erdogan che credeva oramai chiusa la partita libica con un accordo turco-russo. Il futuro, dunque, appare ancora incerto. Molto dipenderà dai futuri negoziati, che inevitabilmente vedranno la “questione Sirte” al centro del dibattito, e da quanto e come gli Usa decideranno di esporsi in favore della Turchia. L’ipotesi più plausibile, al momento, è quella di un congelamento delle posizioni, con la Turchia nell’ovest e la Russia e (molto parzialmente) la Francia nell’est. La domanda è se questa sorta di “instabilità controllata” sarà destinata a durare. Su questo nutro dei dubbi.
Resta comunque che la presenza turca sì è rafforzata ,non solo numericamente (con 1500 uomini e 11 mila mercenari siriani) ma anche con basi logistiche e navali. Sappiamo quanto sia importante per Erdogan rafforzare la presenza navale nello scacchiere centrale del mediterraneo. E le recenti manovre navali lo hanno confermato. Quali sono queste basi?

La Libia sembra essere divenuta “l’hub” per la proiezione di potenza turca nel Mediterraneo orientale e non solo. L’impegno di Ankara al fianco del Governo di accordo nazionale (Gna) di al-Serraj non è certo stato dettato da spirito caritatevole ma da una precisa strategia: rafforzare la sua presenza nel mare nostrum in cambio del supporto al Gna. Prova ne sia Erdogan, ancor prima di intervenire in Libia, aveva già siglato con al- Serraj un accordo per una zona economica esclusiva che dalle coste della Turchia si estende a quelle della Libia per sfruttare le risorse di gas offshore in un’area che vede forti interessi di Eni, Total e alcune compagnie americane.  Ma il conto potrebbe essere più salato. Il Sultano potrebbe installare basi militari nel Paese in aree strategiche.  Una potrebbe essere collocata nell’aeroporto di al-Watiya che si trova a circa 120 km a sud-ovest di Tripoli che è stato recentemente sottratto alle forze di Haftar. Si tratterebbe di una base militare in cui collocare caccia, droni e sistemi antimissilistici. Ci sarebbe, poi, la possibilità di una infrastruttura navale nell’area di Misurata utile a controllare gli interessi turchi nel Mediterraneo orientale. Va precisato che un tale “investimento” non sarebbe stato possibile senza il supporto del Qatar, altro alleato del Gna in Libia soprattutto in chiave anti Emirati che armano il generale Haftar. Lo scorso anno Ankara ha realizzato la sua seconda base in Qatar con lo scopo di proiettare la sua influenza anche nel Golfo. Detta in altri termini le ambizioni neo-ottomane del Sultano vanno ben oltre il Mediterraneo orientale.

Gli Usa si affidano Erdogan per tutelare i loro interessi?

Nonostante le tensioni tra Washington e Ankara dopo l’uccisione del generale iraniano Soleimani o le numerose “frizioni” dovute alle diverse posizioni assunte dai due Paesi in Siria (solo per citare alcuni esempi) potremmo dire che la realpolitik tende a produrre “strange bedfellow”. Trump ed Erdogan, dopo il recente arrivo di caccia russi in Libia, sembrano aver capito che, se necessario, è meglio mettere da parte le divergenze per far fronte al nemico comune e hanno concordato di “continuare una stretta collaborazione” in Libia basata su reciproci vantaggi. Il Presidente americano ha nella Turchia sia il partner che fa il “lavoro sporco”, combattendo contro le forze di Haftar e arginando l’azione dei russi, sia un possibile mediatore capace di dialogare con Putin. La Turchia, in cambio, può ritagliarsi un maggior peso in Libia e nel Mediterraneo con il tacito consenso degli americani. D’altra parte la Turchia non è vista di buon occhio nella Nato, di cui pure fa parte, e uno “sdoganamento” da parte americana può essere sicuramente utile. Di converso, gli americani hanno basi strategiche in territorio turco. Meglio mettere da parte le divergenze, magari partendo proprio dalla Libia.

Come si stanno comportando ğli altri “attori”? Mi riferisco in particolare a Egitto, Arabia Saudita e Qatar…
Qatar, Arabia Saudita ed Egitto in Libia hanno fin qui sostenuto fronti opposti. In estrema sintesi Doha è al fianco di al-Serraj mentre Riad e Il Cairo sostengono Haftar. L’Arabia Saudita al momento sembra meno interessata al dossier libico, mentre gli Emirati arabi uniti sono rimasti gli unici veri sponsor di Haftar. Saranno probabilmente loro a cercare in ogni modo di rispondere alla “vittoria turca”, forse non in Libia ma su altri tavoli come, ad esempio, la già martoriata Siria. Nel frattempo cercano di mettere i bastoni tra le ruote ad Ankara nel Mediterraneo orientale intessendo rapporti con molti degli attori interessati al progetto del gasdotto East Med (ostacolato dalla Turchia) tra cui l’Egitto. Per quanto riguarda Il Cairo, al-Sisi sembra voler salire su un gradino più alto, passando da attore attivo del conflitto, grazie al suo sostegno ad Haftar, al ruolo di mediatore. Per questo motivo ora pare molto più vicino ad Aquila Saleh, il Presidente del Parlamento di Tobruk sostenendo la sua “iniziativa di pace” che richiedeva, tra le altre cose un immediato cessate il fuoco, il ritiro delle forze straniere e un ritorno al processo politico. La proposta è stata evidentemente restituita al mittente dal Gna e dalla Turchia. Tuttavia il ruolo egiziano potrebbe essere importante per futuri negoziati che, mi auspico, vi saranno a breve.

Qualcuno ha scritto che la Libia è un

Monumento alla inettitudine della classe politica italiana. Condivide il giudizio?

La Libia è la cartina al tornasole dell’assenza di una strategia di politica estera dell’Italia. Nel 2011 abbiamo preso parte a un intervento internazionale voluto soprattutto dalla Francia, pagando per far fuori Gheddafi, il nostro migliore alleato nel Mediterraneo. Nel tempo siamo riusciti a recuperare alcune postazioni nel Paese, grazie anche all’Eni che ha continuato a lavorare in Libia mantenendo rapporti con gli attori locali. Dal 2016, abbiamo deciso di sostenere il Gna di Serraj per tutelare i nostri interessi nell’ovest ma limitando troppo spesso la nostra “chiave di lettura” della crisi libica al tema migratorio e, dunque, senza quello sguardo strategico d’insieme che una seria politica estera richiederebbe. Quando, però, l’offensiva di Haftar per conquistare Tripoli sembrava volgere a suo favore abbiamo “strizzato l’occhiolino” al generale della Cirenaica, perdendo credibilità nell’ovest. A chiudere questa “parata di errori”, negli ultimi mesi, forse troppo presi dai problemi del Covid, abbiamo abbandonato di nuovo il dossier libico lasciando campo libero alla Turchia che ha rifornito le milizie di Tripoli e dintorni di armi e mercenari permettendo ad al- Serraj di costringere Haftar a una parziale ritirata e ora “le chiavi” dell’ovest sono in mano ad Erdogan. Eppure abbiamo ancora numerosi assets nel Paese. La nostra ambasciata a Tripoli svolge un ottimo lavoro, l’Eni continua ancora ad avere un importante peso anche tra la popolazione. Abbiamo buoni rapporti con gli attori che sostengono le diverse fazioni.  Solo per fare alcuni esempi, il gas egiziano porta il marchio di Eni, il giacimento Zhor, oggi, rappresenta da solo un terzo della produzione totale di gas del Paese. Dall’altra parte l’Italia fa affari anche con il Qatar, alleato di al-Serraj. Detta in altri termini abbiamo ancora delle buone carte per giocare la nostra partita ma non lo stiamo facendo. Possiamo definire “inettitudine” questo atteggiamento, o più semplicemente incapacità di portare avanti una chiara linea di politica estera. Qualunque definizione vogliamo utilizzare i fatti non cambiano: almeno per il momento abbiamo perso la Libia.

Quali sono i rischi che corrono ĺ’Italia e l’Europa da un rafforzamento di Putin e Erdogan in Libia?

L’Italia e l’Europa non rischiano di perdere più di quanto abbiano già perso, visto che oramai sono totalmente escluse dalla partita libica. In termini brutali potremmo dire che chi è sul terreno vince e Russia e Turchia hanno combattuto nel Paese “boots on the ground” e ora chiedono il conto ai rispettivi alleati sul terreno. Quanto sarà “salato” lo scopriremo solo quando i due si siederanno al tavolo delle trattative. In ballo ci sono basi militari, porti, affari miliardari per la ricostruzione e, più in generale, l’influenza geostrategica nel quadrante mediterraneo. Se il buongiorno si vede dal mattino, tra tutti i Paesi europei, l’Italia è la grande sconfitta. Il 18 giugno, in una lettera pubblicata nel quotidiano La Repubblica, il leader del Gna, Fayez al- Serraj, pur chiedendo all’Onu e all’Unione europea un aiuto per una soluzione politica del conflitto e ribadendo il legame con l’Italia, sottolinea più volte l’indispensabile supporto fornitogli dalla Turchia e la validità dell’accordo concluso con Ankara per la già menzionata zona economica esclusiva nel Mediterraneo orientale. Parole che pesano come un macigno sull’Europa ma soprattutto sull’Italia. Non servono altri esempi per spiegare il ruolo oramai marginale che ricopriamo nel Paese. Per il nostro governo non vi sono più scelte: se vorrà tornare a dialogare con gli attori dell’ovest dovrà necessariamente “alzare la cornetta e chiamare Ankara”: è lei che decide, probabilmente anche sulla questione migranti. E a chi eccepisce che la Turchia non sia l’interlocutore migliore con cui parlare non si può che rispondere che l’Italia ha scelto di trovarsi in questa difficile situazione.

Ma in tutta questa vicenda le tribù libiche che ruolo stanno giocando?

 

La Libia è un Paese di notevoli dimensioni fatto di realtà tribali radicate nel territorio e con un forte ascendete sulla popolazione che neppure Gheddafi riusciva a controllare del tutto, specie nella Cirenaica e nel Fezzan. Le tribù, e più in generale gli attori locali come le municipalità, sono player indispensabili che potrebbero avere un ruolo aggregativo o disgregativo nei futuri assetti libici. In Tripolitania, ad esempio, dopo la sconfitta di Haftar è venuto a mancare “il nemico comune” e ora le forze che si erano strumentalmente unite contro di lui potrebbero rispolverare ambizioni egemoniche capaci di portare a scontri interni. Prima dell’avanzata dell’esercito di Haftar, per esempio, c’erano vistose crepe tra al-Serraj e i gruppi di Misurata, la potente città-Stato che con le sue milizie ha battuto lo Stato islamico a Sirte nel 2016 e da lì ha sempre ambito a un ruolo di primo piano nel Paese. I misuratini sono fin qui stati preziosi alleati del Gna nel respingere l’offensiva militare di Haftar, ma ora potrebbero chiedere il conto. Discorso simile può essere fatto per le altre milizie libiche, unite dalla causa comune di “salvare Tripoli” ma che ora potrebbero ingaggiare una guerra intestina. Di questo anche Turchia e Russia dovranno tenere conto quando decideranno come far valere i loro interessi nel Paese. D’altra parte, gli attori locali, o per lo meno alcuni, potrebbero essere alleati della comunità internazionale per un processo di ricomposizione del Paese. Un percorso che richiede una grande conoscenza della complessa realtà territoriale libica e una notevole capacità di dialogo e mediazione che fino ad oggi nessuno si è sforzato di compiere.
Sono ancora possibili negoziati di pace?

Nonostante le evidenti difficoltà di cui abbiamo sin qui parlato, è indispensabile tentare nuovi negoziati. Questa volta, però, sarà necessario lasciare da parte le belle photo opportunity (unico risultato raggiunto nei vari vertici internazionali fin qui realizzati sulla Libia) ed essere molto più pragmatici, intavolando un dialogo inclusivo con le municipalità e con le tribù. La domanda è: chi può farlo e come? E’ evidente che Russia e Turchia saranno i protagonisti indiscussi dei futuri negoziati e che gli Usa, che per il momento hanno scelto Ankara, giocheranno la loro partita dietro le quinte. Per quanto riguarda l’Europa è oramai chiaro che nessuno Stato da solo può fare la differenza e dunque non resta che sperare che le cancellerie europee aprano gli occhi e capiscano, dopo quasi10 anni di instabilità e conflitti, che la guerra, oltre ad essere una catastrofe per la popolazione, viene sempre vinta da chi è più spregiudicato e non ha problemi nell’esporsi e combattere (e questo non è certo nelle corde dell’Europa). A volte, dunque, è più conveniente trovare una soluzione comune tra tutti gli Stati e non per spirito di unità, che in Europa fin qui non è mai esistito, ma per la pragmatica presa di coscienza che una Libia stabile può favorire l’interesse nazionale di tutti i Paesi europei. Se l’Europa ci riuscirà potrà forse ambire a un qualche ruolo nel futuro del Paese.

Navi militari all’Egitto: l’affare militare non riguarda solo il caso Regeni Intervista a Giorgio Beretta (Osservatorio OPAL)

La notizia dell’autorizzazione all’esportazione all’Egitto di due fregate multiruolo Fremm ha suscitato le proteste della famiglia Regeni che si è detta “tradita dallo Stato”. La vendita delle due navi militari solleva diverse questioni di natura geopolitica e strategica, ma soprattutto sulla politica estera dell’Italia e sull’osservanza delle norme che regolano l’esportazione di armamenti. Ne parliamo con Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (OPAL) di Brescia.

 

Può spiegarci innanzitutto in cosa consiste questo contratto? Si tratta solo delle due navi militari o c’è dell’altro?

Questo è il punto principale perché riguarda l’informazione al parlamento e ai cittadini. L’esportazione all’Egitto delle due fregate Fremm, la Spartaco Schergat e la Emilio Bianchi,  originariamente destinate alla Marina Militare italiana, è infatti, secondo diverse e autorevoli fonti di stampa nazionale ed estera, solo una parte di un più ampio affare militare in trattativa tra Roma e il Cairo. Un maxi-contratto tra i 9 e gli 11 miliardi di euro che prevede, oltre alle due Fremm, altre quattro fregate missilistiche, 20 pattugliatori, 24 caccia multiruolo Eurofighter Typhoon e altrettanti aerei addestratori M-346 più un satellite di osservazione. Negli ambienti del settore militare-industriale è stato già definito “la commessa del secolo”. Ma, al momento, non vi è stata alcuna informativa precisa al riguardo, nemmeno sull’autorizzazione all’esportazione all’Egitto delle due fregate Fremm.
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Tempesta finanziaria in Vaticano. Intervista a Carlo Marroni

(Stefano Dal Pozzolo/contrasto)

Il Vaticano è scosso, in questi giorni, dall’ennesimo scandalo finanziario.
Sono implicati monsignori di Curia, funzionari vaticani, finanzieri e
affaristi. Di cosa si tratta? Ne parliamo, in questa intervista, con Carlo
Marroni, vaticanista del quotidiano finanziario “Il Sole 24 Ore”.

Carlo Marroni, periodicamente  il Vaticano viene investito da Tempeste finanziarie. Eppure con Papa Francesco vi è stata la riforma dello IOR, la vigilanza ha cambiato governance. Anche questo ultimo episodio, di cui parleremo dopo, è stato scoperto dalle autorità Vaticane. Secondo il Vaticano l’indagine prende avvio “grazie agli anticorpi del sistema” . Domanda: ma il sistema funziona veramente?

Papa Francesco, dopo la sua elezione nel 2013, avviò subito un processo di revisione delle strutture economiche e dello Ior, sulle quali era già intervenuto nella fase finale del suo pontificato Benedetto XVI. Negli anni 2014-2016 molte cose sono cambiare, e importanti riforme sono state approvate, come la nascita della Segreteria per l’Economia, Ma il processo si è rivelato non sempre lineare, molte scelte hanno poi subito modifiche, e le persone scelte dal Papa non sempre sui sono rivelate adatte ai quei ruoli, si pensi solo allo scandalo Vatileaks-2 o la nomina del cardinale George Pell. Lo stato di confusione creatosi all’inizio poi si è stabilizzato,  ci sono stati dei cambi nelle responsabilità e la riforma è andata a regime, anche se dei cambiamenti devono ancora essere approntati, come la centralizzazione della “finanza” nell’Apsa. Comunque i controlli oggi ci sono, e nel caso dell’immobile di Londra è stata proprio la struttura di “compliance” e i livelli di responsabilità introdotti che hanno fatto scattare l’inchiesta. Lo ha detto il Papa direttamente.

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