
Nel fine settimana si terrà il Consiglio UE . Un passaggio importante per il futuro dell’economia europea. Il premier sta giocando in Europa una partita decisiva per il suo governo. E’ sul fattore economico e sull’efficacia delle misure anticrisi che si giocherà nel medio termine il futuro dell’Italia e dell’Europa. Ne parliamo, in questa intervista, con un importante economista Salvatore Biasco. Biasco è stato professore di Economia internazionale. Ha studiato a Roma e Cambridge e insegnato a Modena e Roma. Già Vice Presidente della Società Italiana degli Economisti e premio Saint-Vincent per l’Economia, è autore di libri influenti in ambito economico. Ha anche pubblicato saggi in campo politologico, abbinando sempre lo studio dei meccanismi economici a quello delle determinazioni sociali. In materia fiscale, poi, è stato Presidente, nella XIII Legislatura, della Commissione Bicamerale per la Riforma Fiscale e autore del “libro bianco” sull’imposizione sulle imprese che porta il suo nome.
Professore, stiamo vivendo mesi drammatici. Le previsioni europee, per questo anno, sulla nostro sono nere: – 11,2%. Un dato inquietante. Nell’ambito della UE siamo il paese che sarà più colpito economicamente dalla pandemia. Le chiedo: pensa che il governo sia all’altezza della situazione?
Qualche segnale ci dice anche che le cifre finali potrebbero essere meno drammatiche, ma certo la sostanza non cambia. Ci siamo trovati ad affrontare una situazione inedita, primo paese in occidente, senza grandi possibilità di manovrare la spesa pubblica. Penso che per gli interventi volti a tamponare la perdita di reddito di tante categorie di lavoratori, il governo, pur con qualche errore, abbia agito bene, ma la situazione ha rivelato la debolezza di tutto l’apparato amministrativo, che ha fatto perdere tempestività e non ha risposto come avrebbe richiesto dalla situazione Ora, però, siamo in un’altra fase e si tratta di dare rapidamente una spinta alla domanda. Non a caso, non con puri trasferimenti, ma indirizzando la spesa pubblica in modo da prefigurare un modello diverso di economia: ecologica, governata, solidale, istruita e all’avanguardia tecnologicamente, con poco spazio per la corruzione e l’evasione. Non voglio esprimere giudizi sulle capacità del governo, vedremo. Mi sembra abbastanza consapevole della situazione. Certo gli aiuti che ad esso vengono dai partiti sono scarsi; lì vige la preoccupazione di guadagnarsi il consenso in questo o quel settore e meno quella di disegnare un’Italia del futuro. L’opposizione pure non indica nulla e capitalizza le ansie che percorrono il corpo sociale.
Al di là delle singole misure, lei vede nel Governo una strategia, o per meglio dire, una visione di Paese da ricostruire? Quali Sono secondo lei le priorità per ripartire?
Non scopro nulla parlando di infrastrutture, ma occorre guardare oltre, molto più lontano per orientare l’oggi. Personalmente metterei il primo impegno nella ricostruzione della macchina amministrativa. Abbiamo la fortuna di dover reclutare oltre mezzo milione di unità e ringiovanire la PA. Occorre contestualmente identificare le diverse missioni che attengono a parti diverse del settore pubblico, rinunciando all’uniformità organizzativa, contrattuale, di organizzazione del lavoro e di struttura delle responsabilità decisionali. Da qui far partire una selezione della dirigenza e dei quadri con professionalità adeguata ai singoli obbiettivi.
Poi occorre uno Stato capace di guidare l’economia secondo criteri che una volta si sarebbero detti di “programmazione” (perché no? anche settoriale). Il tutto connesso a filiere imperniate su missioni di ricerca che chiamino a raccolta le migliori capacità industriali e organizzative, le università e i centri di ricerca, e che siano organizzate in modo tale da essere driver di sviluppo produttivo e territoriale. Penso a missioni centrate sull’informatizzazione, la mobilità territoriale, i beni culturali, la chimica verde l’efficienza energetica e poche altre. Dobbiamo ambire a che, nei settori per noi più importanti, l’Italia non sia solo un hub produttivo, ma anche i ricerca (informatica, alimentare, farmaceutica, biomedicale, ecc.). E non aver paura a sviluppare con impegno diretto dello Stato (anche in partnership) produzioni che sono deboli nella nostra matrice industriale – pur avendo le potenzialità produttive e pur facendone largo uso (penso ad alcuni beni strumentali legati ai piani di sviluppo della mobilità, dell’informatica ecc.).
Nell’emergenza del coronavirus abbiamo sancito che lo Stato può intervenire nei contratti privati (il blocco dei licenziamenti), requisire fabbriche a fini collettivi (per produrre mascherine), interferire nella libera disposizione delle proprietà (golden rule). Non arretriamo da principi di questo tipo, ma usiamoli intelligentemente per guidare uno sviluppo dall’alto in una economia mista. Userei quell’impostazione anche per determinare un incremento dei salari che non gravi sul bilancio pubblico. Credo poco a trasformazioni produttive che si sviluppino spontaneamente guidate dal mercato o che avvengano solo attraverso incentivi alla profittabilità privata. La stessa determinazione di intervento va posta nello spingere il sistema delle piccole imprese al rafforzamento finanziario e alle fusioni. Strutture pubbliche possono essere promotrici dirette di reti di imprese e di un sistema di brokeraggio tecnologico posto al servizio delle piccole e medie imprese. Spendiamo subito, se possibile partendo da programmi ambientali e di sistemazione del territorio.
Non c’è bisogno di dire che la sanità anche va ridisegnata in modo tale da renderla reale condizione per il rilancio del Paese con investimenti specifici, anche in informatica e nei settori della fornitura, tenendo un approccio capillare, capace di prevenire e di essere tarato sulle persone e diffuso nel territorio.
Non dimentichiamo, però, che negli anni del declino non sono mancate istituzioni dedicate allo sviluppo, regolazioni adeguate e talvolta nemmeno finanziamenti, ma è mancata la capacità di governarne i processi, avere una barra di riferimento, curare le necessità operative e la filiera di comando, tenere la guida e il coordinamento degli attori, risolvere le questioni in modo olistico. E’ ciò che va curato maggiormente oggi in tutti i campi.
So che lei è stato molto critico sul “piano” Colao. Perché, secondo lei, non può essere il “piano” per la rinascita dell’Italia?
Si tratta di interventi sparsi, molte volte importanti, mischiati, però, a tante altre raccomandazioni che poco hanno a che fare con la ripartenza, a indicazioni di buon senso, auspici e provvedimenti emergenziali. Difficile trovare una gerarchia di temi o una distinzione di efficacia. Forse in due mesi non si poteva fare di più, ma se si guarda il Rapporto nel suo complesso si ricava l’impressione che l’Italia possa crescere solo sburocratizzando all’eccesso, deregolamentando, riducendo le protezioni dei risparmiatori, la partecipazione dei cittadini e trovando nello Stato il finanziatore di ultima istanza di ogni iniziativa che il settore privato debba a suo merito intraprendere. Poca consapevolezza dei nodi di governance di cui parlavo nella risposta precedente. Difficile allora considerare questo Rapporto un progetto ambizioso che guardi al futuro di un Paese che voglia cambiare pagina sia riguardo al suo declino e sia alla sua inaccettabile situazione sociale.
Sarà un autunno carico di tensioni?
Quello che possiamo dire è che il Coronavirus ha messo a nudo le diseguaglianze esistenti e le ha acuite, quelle tra chi è protetto e chi no, tra chi ha accesso alla connessione e alla migliore conoscenza e chi no, tra chi ha avuto la possibilità (e chi no) di accedere alla sanità privata di fronte al blocco delle cure per malattie non legate alla pandemia, tra chi ha vissuto la quarantena in un ambiente confortevole e chi in un ambiente angusto e degradato, chi aveva sufficienti risparmi accumulati e chi no. Qui abbiamo un altro dei pilastri su cui L’Italia va ricostruita; maggiore protezione, maggiore eguaglianza, servizi pubblici efficienti e universali. Certamente gli effetti negativi della pandemia sull’organizzazione sociale sono stati gravi e continueranno oltre la sua fine. Mi aspetto, se non tensioni, una crescita del malcontento, Per quanto il sostegno al reddito possa essere mantenuto – e non ho dubbi che lo sarà – e per quanto vi sia consapevolezza dell’enorme sforzo finanziario in corso – non tutte le aspettative di sostegno saranno per forza di cose universali (raggiungeranno tutti quelli che ne avrebbero bisogno) o consentiranno il recupero del reddito perso; in più, chi ha utilizzato i propri risparmi li ha visti assottigliarsi o azzerarsi. Per questo è importante che adesso sia sveltita la ripartenza e che si creino rapidamente occasioni di lavoro.
Torniamo per un attimo congiuntura politica ed economica. Mi riferisco, cioè, al MES SANITARIO. Non trova assurdo non prendere questi fondi? Cosa fa paura?
Ovviamente fa paura il ricordo della Grecia: Ma penso che la lezione sia stata imparata dall’Europa e, in ogni caso, la condizione attuale è solo di spendere in modo razionale le risorse che ci potrebbero essere assegnate. Rimane il ricordo di quell’esperienza scellerata che conferisce alla sola parola ”Mes” una valenza emotiva, che oggi non è appropriata. Io non esiterei ad utilizzarlo dietro adeguate garanzie, anche perché è la condizione affinché la Bce possa intervenire sul mercato primario dei titoli di Stato, praticamente senza limiti. Tuttavia, va detto che quelle risorse sono un prestito a tassi di favore (non un regalo) e che, non rappresentando dotazioni trascendentali (36 miliardi), possono essere sostituite da un indebitamento diretto dell’Italia sui mercati finanziari. Qualcosa perderemmo sui tassi di interesse, ma non cifre rilevanti per cui non farei un dramma se alla fine per ragioni politiche il ricorso al Mes venisse accantonato.
Allarghiamo lo sguardo della riflessione. Soffermiamoci sull’Europa. La pandemia ha fatto sospendere i “sacri dogmi” del rigorismo. Mettendo in atto misure di sicurezza economica: il Recovery fund e Mes senza condizioni per la spesa sanitaria. Pensa che questa sospensione sarà una buona occasione per ripensare l’Europa nella sua dottrina economica? O, invece, è pessimista nel senso, cioè che i paesi “frugali” ritorneranno ad imporre i loro dogmi?
L’Europa ha fatto passi avanti impressionanti, su cui nessuno avrebbe scommesso sei mesi fa. E’ stata immediata la sospensione di regole di bilancio e aiuti di Stato. La Bce, dopo due giorni di esitazione, si è impegnata in un programma di acquisto illimitato di titoli di Stato per contenere gli spread e in più ha fornito ingente liquidità quasi gratuita alla banche per sostenere il credito. E’ stata attenuata la condizionalità sul Mes. La Merkel ha annunciato di voler superare la regola dell’unanimità nelle decisioni. Si è superato – per ora nelle intenzioni di Ursula – il tabù dei trasferimenti comunitari e dell’emissione di titoli comuni passando attraverso un allargamento del bilancio comunitario. Un programma consistente di 1500 miliardi di euro, di cui a noi toccherebbe la parte del leone. Sebbene cosa succederà del progetto Ursula sia tutto da verificare perché ancora soggetto a trattativa, i mutamenti sono di rilievo. Sarà difficile tornare alle regole precedenti. La cartina di tornasole è il bilancio comunitario, vale a dire la capacità dell’Unione di dotarsi di una significativa politica della domanda, che affianchi la politica monetaria nella funzione di spinta all’economia. Il bilancio comunitario porta con sé la definizione del finanziamento, sia in deficit (comunitario, quindi con euro bonds) sia con entrate proprie dell’Unione (Carbon tax, Tobin tax, porzioni di una tassa comune consolidata sulle multinazionale che ponga fine all’utilizzo dei paradisi fiscali). Molto altro va fatto, ma di fronte alla istituzione di un significativo bilancio comunitario diventerebbe meno impellente. Mi riferisco all’unione finanziaria e all’introduzione della golden rule. Nello stesso tempo, occorrerà porre mano a un programma comunitario per la disoccupazione e è urgente è il varo di un diritto del lavoro europeo volto a porre un argine al precariato e a rafforzare i sindacati. L’Europa è a un bivio; fermarsi vuol dire perire, dopo lo sconvolgimento e la messa a nudo dei problemi che ha portato la pandemia. Se qualche paese frugale non l’ha capito rischia di sfasciare tutto, ma cederà. Una precisazione: l’Italia è un paese frugale, da trent’anni circa con un bilancio primario positivo, surplus in conto corrente con l’estero, basso indebitamento privato e un debito pubblico in termini assoluti tenuto sotto controllo – fino allo scoppio della pandemia – dal livello di 25 anni fa. Abbiamo solo ereditato la scelleratezza degli anni ’80.
Come si sconfigge il sovranismo?
E’ qui che l’Europa ha il compito più importante. Occorre ridare speranza e futuro ai cittadini, rafforzare la cittadinanza dove si è indebolita negli ultimi trent’anni. E su tutto primeggia la creazione di opportunità di lavoro, di buon lavoro. La chiave di volta è quella che dicevo prima; domanda, domanda e domanda. Domanda vuol dire produzione (e occupazione); vuol dire più produttività; vuol dire necessità per le imprese di allargare la capacità produttiva con investimenti, vuol dire innovazione. Se gli operatori percepiscono che questa è la stella polare della politica economica le aspettative cambiano e tutto si avvita positivamente. Si crea un clima di fiducia, cambia la propensione imprenditoriale al rischio e ad allargare la capacità produttiva, anche in anticipo della domanda. Quando questo avviene, la proiezione in avanti dell’espansione dei mercati allunga gli orizzonti di pianificazione temporale, porta a decisioni di spesa più audaci e induce un accrescimento del potenziale produttivo, che crea esso stesso le premesse affinché gli incrementi di capacità di offerta siano poi riempiti da addizioni effettive di domanda interna e da nuove esportazioni, venendo così a convalidare la giustezza dello scenario assunto ed estendendolo nel tempo. E’ possibile che non si sia imparato nulla dagli episodi di crescita sostenuta del dopoguerra (paesi europei, fino agli anni ’70, Sud Est asiatico, Reagan e Clinton)?. In questo quadro si può puntare alla costruzione di un orizzonte nel quale ricominciare a prospettare un obiettivo di piena occupazione e fiducia.
Occorre uscire dall’idea che una politica dell’offerta incentrata sui mercati possa essere il criterio unico di politica economica, come lo è stato per l’Unione di stampo liberista che ha puntato tutte le carte su concorrenza, flessibilità e imbrigliamento della presenza pubblica nell’economia (con esiti che non possono che essere definiti palesemente deludenti e insufficienti). Il che non vuol dire che selezionate politiche dell’offerta (ad esempio nella ricerca e nell’istruzione, nelle reti) non possano essere efficaci (dove lo sono e mai in linea di principio), ma è così solo se è di complemento in un’economia tenuta per altre vie a buon livello dell’attività economica.
C’è una voglia di un nuovo intervento statale nell’economia. Come si può ricostruire un nuovo equilibrio tra stato e mercato?
Penso che la mia visione risulti da quanto detto in precedenza, specie quelle riferite all’Italia. Il mercato è uno strumento utile alla spinta produttiva, ma deve trovare uno Stato efficiente che guidi, indirizzi e disciplini l’azione privata. Il mercato non può essere il regolatore della società. Nel tempo si è persa la consapevolezza collettiva che una società guidata dal profitto privato produce incertezza sociale ed economica, una grave differenziazione sociale, fallimenti di mercato e instabilità economica (ma anche trasformazione), che solo col primato della politica sopra l’economia possono essere portati sotto controllo e governati nell’interesse collettivo. Si è persa anche la consapevolezza della natura cooperativa del processo di produzione, nel quale il capitale è un bene sociale, soggetto quindi a responsabilità sociale. Il che non contraddice la proprietà privata e il perseguimento del profitto individuale nell’attività produttiva, ma presuppone che alle imprese, in qualsiasi campo, sia assegnato un ruolo implicito di agenti attraverso i quali raggiungere un interesse collettivo, di occupazione, produzione, progresso tecnico, stabilità. Presuppone che vi sia un presidio/sorveglianza/ausilio/supplenza da parte dello Stato nello svolgimento di tale ruolo. Tutto questo va riconquistato nella cultura e nella pratica.
Ultima domanda : cosa ha dire Keynes oggi?
Si era smesso di insegnare Keynes nelle università di “avanguardia” o era stato ridotto a formulette inquadrate nell’economia mainstream dell’equilibrio astratto dei mercati. Keynes, se studiato effettivamente dà la migliore forma mentis per comprendere il capitalismo nelle sue linee essenziali e le forze che hanno influenza su produzione e occupazione. Mi piace vederlo in questa chiave metodologica più che come riferimento per ricette standardizzate. Nella sua visione, il capitalismo non è concepibile senza le istituzioni finanziarie in quanto il sistema è monetario di produzione, si regge su debiti e crediti e ormai ha la borsa come parte integrante del processo. In più, la finanza acquista una veste autonoma rispetto alla produzione, in una serie di scommesse che creano piramidi finanziarie. Questo autore ci induce a vedere le decisioni simultaneamente dal punto di vista reale e finanziario in condizioni di incertezza sul futuro e, quindi mutevoli e instabili al mutare delle opinioni sul futuro: il mercato è anarchico, non si auto equilibra e le crisi sono endogene alla sua dinamica e alla sua logica Se è così, il sistema è in qualche modo dominato dalla fiducia collettiva, che influenza la disposizione e il comportamento degli operatori. Questa può dipendere da fattori esogeni ma sono l’azione pubblica e l’assetto istituzionale, che -, socializzando molte variabili e fornendo gli ancoraggi necessari – consentono in ultima istanza agli operatori di affrontare con più o meno ottimismo la situazione e rendono la fiducia medesima più alta o più bassa e i modi di guardare al futuro più aperti o meno incerti, o, al contrario, più densi di insicurezze e più labili. Se il grado di fiducia è la cornice in cui si muove l’intero processo economico, ne deriva l’azione pubblica ha il compito di muoversi in una direzione tesa a rafforzare la fiducia medesima, dominare la complessità e ridurre l’incertezza. Questa è la chiave che presiede alla crescita e alla stabilizzazione. Keynes parla a un certo punto di necessità di “socializzazione dell’investimento” per tenere la piena occupazione. Non è un caso che il bersaglio culturale della rivoluzione neo liberale sia la sua opera.
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