Il grande bivio di Giorgia Meloni. Intervista a Fabio Martini

Giorgia Meloni (Ansa)

Nel centrodestra si sta imponendo la figura di Giorgia
Meloni. Sarà lei la leader della coalizione? Ne parliamo
con Fabio Martini inviato e cronista parlamentare del
quotidiano “La Stampa”.

Fabio Martini, sempre più Giorgia Meloni sta facendo
parlare di sé. Sicuramente un dato è certo, almeno
stando ai sondaggi: il suo partito è in crescita (supera
abbondantemente il 13%, e insidia da vicino il
Movimento 5stelle). Domanda: a parte il tradizionale
voto di destra (cui anche la Lega beneficia) sembra di
capire che l’espansione di questo partito stia
avvenendo grazie a quella parțe di società arrabbiata
che ha votato per i 5stelle e la lega, senza dimenticare
il voto borghese di forza Italia (mettendo, in questo
ambito, il voto cattolico tradizionalista). È così?

Fabio Martini (AUGUSTO CASASOLI/A3/CONTRASTO)

Oramai viviamo in una sondocrazia, con sondaggi più o meno attendibili che misurano qualsiasi evento, e quindi da una decina di mesi sappiamo che è in atto un’escalation di intenzioni di voto
a favore dei Fratelli d’Italia. Nessuno ci ha spiegato ancora e in modo analitico le ragioni di questo boom, ma se guardiano ai numeri reali e non virtuali, capiremo qualcosa in più. Nelle elezioni Politiche del 2018 la Lega di Salvini raccoglie il 17,3% dei consensi, Fratelli d’Italia di Meloni il 4,3%. Totale: 21,6%, percentuale che a leggerla oggi ci stupisce per le sue dimensioni circoscritte. Ma un anno dopo, al culmine di scelte politiche ben mirate e di un’efficace presenza sui media vecchi e nuovi,
Salvini raddoppia la percentuale (34,3%) strappando voti ai Cinque stelle, mentre Meloni resta sostanzialmente al palo (più 2,1%). Passano tre mesi, Salvini calcola male le sue mosse, gli altri fanno un nuovo governo e dall’autunno inizia l’escalation di Meloni. Tutta ai danni della Lega, tutta dentro il perimetro del centrodestra e intercettando in gran parte quel voto di protesta indistinto che era passato dai Cinque stelle alla Lega.

In questi ultimi mesi la leader di Fratelli d’Italia ha cercato
di crearsi un profilo “repubblicano” (diciamo così), cercando
di distanziarsi dall’altro sovranista che è Matteo Salvini. Per
esempio questo è avvenuto sul Recovery Fund. Però
nell’ultimo dibattito parlamentare, sulla proroga dello “stato
d’emergenza”, i toni del suo intervento sono stati assai
virulenti. A me sembra che  il suo profilo “repubblicano” sia
più forma che sostanza. Qual è il tuo pensiero?
Un intervento assai significativo perché ha segnato l’immagine
di Giorgia Meloni: per le argomentazioni («deriva liberticida,
siete pazzi irresponsabili»), assai più hard di quelle usate dagli
altri esponenti del centrodestra, ma anche per il linguaggio del
corpo: viso trasfigurato e decibel alti. Un’immagine “tosta” che
propone il bivio assai importante che riguarderà Meloni nei
prossimi mesi: concentrarsi sul voto di “pancia”, continuando ad
erodere la Lega, oppure rafforzare il profilo di “destra
repubblicana”, bipartisan sulle questioni di interesse nazionale?
In altre parole: leader di un partito-coalizione o di un partito
nella coalizione? O per capirsi ancora meglio: leader di un
partito o leader della coalizione? L’ultima Meloni fa pensare ad
una scelta più concentrata sul successo dei Fratelli d’Italia ma la
politica italiana è molto mobile e un ulteriore incremento dei
consensi per il suo partito, potrebbe indurre Meloni a riprendere
il progetto avviato e non concluso da Gianfranco Fini: una destra
nazionale potenzialmente capace di parlare al Paese e non solo
ad una fetta di elettorato.

Sul piano dei rapporti internazionali Giorgia Meloni, per
esempio nei potentissimi  circoli ultraconservatori americani
ed europei,  offre maggiore “affidabilità” caratteriale
di  Matteo Salvini. Ma questa “affidabilità” è sufficiente per
proporsi come leader di una destra moderna?
In alcuni circoli internazionali, oltre all’affidabilità caratteriale, è
richiesta soprattutto l’affidabilità atlantica. Che Matteo Salvini
non ha garantito. Nel momento della sua ascesa, si è appoggiato
a circoli che puntano a destabilizzare l’Europa e in particolare a
Vladimir Putin, rispetto al quale la Lega non è stata in grado di
mantenere le promesse, che erano quelle di un’azione politica
volta ad allentare le sanzioni. Meloni si è collegata invece ai
circoli della destra conservatrice americana (quella che guardò
con simpatia a Fini) ed europea. L’ancoramento atlantico
sicuramente può aiutare l’ascesa di Giorgia Meloni.

E sempre per rimanere in ambito internazionale il partito
della  Meloni fa parte del Gruppo dei “Conservatori e
Riformisti Europei”, un gruppo euroscettico e
antifederalista. Anche qui siamo lontani dall’idea di una
destra europea sognata da Gianfranco Fini, per cui il suo si
al “recovery fund” sembra più dettato dall’interesse
nazionalistico che dallo spirito di condivisione europeistico.
Cosa ne pensi?
Dopo il risveglio dell’Europa, i sovranisti – per dirla con
Romano Prodi – hanno preso una bella “botta”. Meloni, che è
sempre stata border line, ci resterà. Ma certo siamo lontani anni
luce dalla scelta fatta da Gianfranco Fini, che rappresentò l’Italia
– assieme a Giuliano Amato – nella Convenzione chiamata a
scrivere la Costituzione europea.

Tutti sanno che Giorgia Meloni viene dal Msi, quanto di quel
partito è rimasto nella cultura politica di Giorgia Meloni?
Quando l’Msi per la prima volta si presenta alle elezioni
politiche col simbolo di Alleanza nazionale, Giorgia Meloni
aveva 17 anni. Ma sicuramente An, il partito nel quale lei è
cresciuta, aveva le sue radici nell’Msi.  Un partito che, dal 1946
al 1995 ebbe leader forti e dialettica interna vivacissima: quella
vivacità oggi si è spenta, comanda Giorgia. An e Msi erano
partiti stimolati da intellettuali non conformisti: diradati. I tratti
principali della cultura politica missina sono quasi tutti
scomparsi e perciò assenti in Giorgia Meloni. Il nostalgismo:
assente. Il presidenzialismo: assente. La rivendicazione delle
mani pulite come conseguenza dell’emarginazione politica:
assente. Meloni però ha ereditato da Msi e An un bene
immateriale: la scuola politica. Quel dna che le consente quasi
sempre di restare nell’ambito del “politicamente corretto”. E in
ogni caso vengono dall’Msi i “colonnelli” che, pur indotti a stare
un passo indietro, restano gli unici che tra i Fratelli d’Italia
possano vantare professionismo politico: Ignazio La Russa,
Adolfo Urso, Francesco Storace, Fabio Rampelli.

Giorgia Meloni ha una visione della politica ”muscolare” .
E  per sua natura tendente alla semplificazione (vedi il tema
dell’immigrazione), in questo non si distingue molto da
Matteo Salvini. Domanda   perché alcuni settori moderati (o
supposti tali) sono attratti da lei?
Lo dicevamo prima: avere o meno come interlocutori anche
elettori moderati è l’enigma dei prossimi mesi. Per ora non sono
gli elettori in cima ai pensieri di Giorgia Meloni.

Quanto pesa il populismo nella prassi, diciamo nell’estetica
politica di Giorgia Meloni?
Se c’è una differenza tra lei e i leader della destra del passato sta
proprio in una certa “estetica populista”: Almirante e Fini sono
stati capi che hanno espresso una forza demagogica e
contestativa, naturali per un partito rimasto ai margini per
mezzo secolo, ma entrambi accompagnavano la forza
d’urto con quella che Giovanni Sartori gravitas. Un
approccio che, per ora, sembra difettare alla leader di
Fratelli d’Italia:

Ultima domanda: come si svilupperà il rapporto, destinato a
diventare molto conflittuale, con Salvini?
Le diversità, le divergenza e i contrasti sono destinati ad
aumentare. Già oggi l’affetto reciproco è basso ma occorre dare
atto ai due di aver finora soffocato con notevole abilità questa
diffidenza.

L’Europa è un gigante incatenato? Intervista a Luciano Canfora

Il “recovery fund” basterà per far rinascere l’Europa? Ne parliamo, in questa intervista, con un grande intellettuale italiano: Luciano Canfora. Canfora è tra i maggiori storici italiani, i suoi interessi accademici e culturali spaziano dal mondo greco-romano fino al pensiero politico contemporaneo. E’ autore di numerosi saggi, l’ultimo è uscito in questi giorni: Europa gigante incatenato (Ed. Dedalo).

Professore, il suo saggio è una analisi spietata sullo stato di crisi dell’Unione Europea. La descrive come un “gigante incatenato”. Eppure dall’uscita del suo saggio, fine giugno, qualcosa si è mosso. Mi riferisco agli accordi sul “Recovery Fund”. Con i suoi limiti questo accordo fa fare un salto di qualità all’Unione Europea. Non è così professore?

Era impossibile che un qualche accordo non venisse raggiunto: sarebbe stata la fine della cosiddetta «Unione». Ed era ovvio che la Germania, con il suo enorme peso, imponesse il varo dell’accordo: la Germania conta tra le grandi potenze mondiali proprio perché capeggia l’Unione. Visto da vicino, il compromesso raggiunto presenta dei lati che l’informazione preferisce lasciare in ombra: (a) i cosiddetti “paesi frugali” hanno ottenuto che i gravami conseguenti alla progettata emissione di miliardi non li riguardino quasi per nulla; (b) solo l’ex-ministro Carlo Calenda ha avuto l’onestà di chiarire (trasmissione «in onda» su «La 7» dello scorso 20 luglio) che – rispetto agli 82 miliardi “a fondo perduto” destinati all’Italia – bisogna però calcolare che l’Italia dovrà contribuire, con 55 miliardi, al meccanismo complessivo che consentirà l’attuazione degli esborsi a fondo perduto destinati ai vari paesi; (c) per ottenere l’appoggio, non trascurabile, dell’Ungheria di Orban, ci siamo di fatto impegnati a non disturbare più quel governo sul terreno della legalità interna nonché delle “quote” di migranti; (d) comunque il successo personale conseguito dal nostro primo ministro è indiscutibile; (e) le molto generiche “riforme” richiesteci come contropartita dei futuri miliardi sono quasi impossibili da realizzare (licenziare un terzo del notoriamente pletorico pubblico impiego? rimettere mano alla normativa sulle pensioni?), (f) i parlamenti dei vari paesi dell’Unione – compreso ad es. quello olandese – avranno il diritto di esprimersi, in corso d’opera, sull’effettiva attuazione, da parte nostra, delle richieste “riforme” (così Mario Monti sul “Corriere della sera” del 22 luglio scorso, p. 28); (g) il nostro debito pubblico ammonta, ad oggi, a 2507 miliardi (= 134% del PIL).

Lei, nel suo saggio, descrive l’Europa come troppo docile (“suddita del potente alleato”) degli Usa. Sappiamo che vi sono legami storici, politici ed economici, con gli Usa. E sappiamo anche che Donald Trump non ama per nulla l’Unione europea. Anzi fa il tifo per Boris Johnson e i sovranisti. Per cui il primo a non credere all’idea di Europa e all’idea di un “patto” tra le sponde dell’Atlantico è proprio l’America di Trump. In che senso allora l”Europa deve essere meno “atlantica”?
Mi pare di aver documentato che “atlantismo” significa subalternità ad una politica (quella degli USA) contraria ai nostri interessi: e per “nostri” intendo di Francia, Germania, Italia, soprattutto. In un brillante (come sempre) intervento sul “Corriere della sera” del 28 giugno scorso (p. 12), Sergio Romano ha segnalato un episodio sintomatico (regolarmente ignorato dalla stampa): di fronte all’ipotesi Trump di ritirare 9000 militari dalle basi in Europa, il norvegese Stoltenberg, segretario generale della NATO, ha implorato che ciò non avvenga. E ha spiegato: le basi debbono rimanere in Europa «perché giovano agli USA»! Il “gigante” Europa spezzerà le “catene” solo quando farà politica estera in proprio non più ‘al servizio’. Ma ciò è difficile perché dentro la cosiddetta Unione gli USA hanno i vari baltici e polacchi come fedeli «quinte colonne».

Nel suo libro critica la politica europea di opposizione nei confronti della Russia di Vladimir Putin e afferma che questa politica non fa l’interesse europeo. Perché?
Aver messo le assurde e immotivate sanzioni alla Russia ha recato danno soprattutto all’economia dei paesi europei per i quali l’interscambio con la Russia (specie ora che gli USA ci fanno guerra con i dazi!) è vitale. Scoccare sanzioni a destra e a manca è la forma attuale dell’aggressività imperialistica (che, ovviamente, ha bisogno del coro giornalistico): ora vengono minacciate sanzioni alla Cina per i disordini ad Hong Kong (dove gli USA hanno spasmodicamente ma invano atteso che ci scappasse il morto). Semmai l’Unione europea potrebbe mettere le sanzioni agli USA per la repressione brutale – con numerosi morti – delle manifestazioni antirazziste che si susseguono, da un capo all’altro degli USA, almeno dalla fine di maggio.

Lei critica anche l’uso del termine “democratura” quando si parla della Russia. Sarà pure un termine, ovviamente, polemico però si fa fatica a vedere la Russia come una democrazia. Anzi lo stesso Putin definisce la democrazia occidentale come un modello sbagliato. Come sviluppare un rapporto di collaborazione con Putin?
E’ comico definire «democrazia» gli USA, dove diventano presidenti (o per brogli, come nel caso di Bush jr.; o per effetto di folli leggi elettorali, come nel caso di Trump) candidati che hanno ottenuto meno voti popolari dei loro avversari; dove i collegi elettorali vengono ritagliati (alla maniera dei «borghi putridi» dell’Inghilterra pre-1830) in funzione della penalizzazione di aree nelle quali il voto nero o ispanico cambierebbe gli equilibri. I retori che straripano nei giornali e in TV ci annoiano con l’ossessiva formula «le grandi democrazie (occidentali)», tra le quali ficcano pure l’India, dove si vota per svariate settimane, i risultati sono manipolati senza pudore e sussistono le caste (ora più che mai, dopo il collasso del partito del congresso). Tra le tante retoriche possibili, quella che finge di credere che esistano le «grandi democrazie occidentali» è la più comica: basterebbe ricordarsi delle modalità con cui Macron (votato da ¼ dei francesi) è diventato presidente. Certo, da ultimo, viene definita sempre meno come «baluardo della democrazia occidentale» la Turchia, dove il bavaglio alle opposizioni e il genocidio curdo sono veri macigni. Comunque alla Turchia noi «europei» non mettiamo sanzioni ma versiamo miliardi di euro perché trattenga i migranti nei suoi Lager. E in Libia paghiamo il «governo di Tripoli» nei cui Lager vigono la tortura e lo stupro. Viva «la democrazia occidentale!».

Sono giustamente dure le sue critiche nei confronti di Donald Trump. In questi mesi negli Usa qualcosa si sta muovendo. Forse, stando ai sondaggi, siamo alla fine dell’era Trump. Ma basterà all’America cambiare Presidente per cambiare nel profondo?
Ovviamente no. Il povero Obama si è quasi rotto le ossa nel tentativo di riformare le storture di un sistema nel quale una forza decisiva è il «suprematismo bianco»: infatti si tratta di una «grande democrazia occidentale», se non erro.
Torniamo all’Europa. Bisogna dire che non c’è solo il virus del coronavirus, c’è anche quello del sovranismo. E purtroppo non è debellato. Come sconfiggerlo?
«Sovranismo» è un termine privo di senso, ma comodo per cercare una antitesi al vuoto «europeismo». In realtà, nell’ambito dei 27 paesi dell’Unione europea, i governi (Polonia, Ungheria, Austria, Olanda) o i partiti (Lega, Alternative für Deutschland, Front National) che definiamo con quel termine non mirano affatto all’isolamento nazionalistico bensì ad una Unione europea con frontiere blindate (come la «Fortezza Europa» attuata da Hitler). E poiché non l’hanno (ancora) ottenuta si smarcano dagli impegni e obblighi collettivi. E, come arma di ricatto, alcuni di loro praticano il rapporto preferenziale con gli USA, sapendo che questo li mette a riparo da ogni procedura ‘punitiva’ (o, come si dice, «di infrazione»).

Lei propone una idea di Europa aperta, continentale e mediterranea. La sinistra, quella che dovrebbe incarnare quei valori, boccheggia. L’unico leader capace di reggere alla sfida è Papa Francesco. Per lei può essere un aiuto al cambiamento europeo?
Per quanto l’etica cristiana della fratellanza non faccia più presa nelle «grandi democrazie occidentali» (dove il modello vincente è Briatore: ricchezza e consumi) resta il fatto che alcune minoranze vengono ancora mobilitate dalle organizzazioni di base (o addirittura di volontariato) della chiesa cattolica. E ciò avviene grazie all’impulso dall’alto impresso da un pontefice che viene da un mondo oppresso (l’Argentina, dove il fascismo dei militari e dei magnati fu protetto quanto possibile dagli USA di Kissinger). Difficile dire se questo scalfirà l’egemonia culturale del «consumismo» (culto della ricchezza inutile, e dell’individualismo aggressivo, culto monoteistico del profitto etc.).

Ultima domanda: come si sta comportando il governo italiano nei confronti dell’immigrazione? 
Risponderò con le parole efficaci di Maria Elena Boschi (intervista al “Corriere della sera” 29 luglio, p. 8): «Tecnicamente il coronavirus è stato esportato dagli italiani in Africa e non da loro con i barconi. La narrazione di Minniti («i migranti portano il Covid») spesso segue il canovaccio di quella di Salvini».

“In Brasile si sta compiendo un genocidio”. Lettera di Frei Betto contro Bolsonaro

Il teologo brasiliano, Frei Betto (ANSA)

In Brasile si sta compiendo un genocidio”.  Inizia così  la lettera, che pubblichiamo sotto, scritta dal frate domenicano Frei Betto, noto scrittore e teologo della  liberazione,  che definisce un genocidio la morte di migliaia e migliaia di persone, sia per incuria, che per azione e/o omissione deliberata del governo Bolsonaro.

Frei Betto è anche consulente della FAO ed è molto impegnato nei movimenti sociali. La sua vita è un’ attività di lotta intrapresa da anni a favore degli ultimi.

LETTERA AGLI AMICI E ALLE AMICHE ALLESTERO

In Brasile è in atto un genocidio! Nel momento in cui scrivo, 16/07, il Covid-19, apparso qui nel febbraio scorso, ha già ucciso 76 mila persone. I contagi sono quasi due milioni. Domenica prossima, 19/07 arriveremo a 80 mila vittime fatali. E probabile che ora mentre leggi questo appello drammatico, siano già 100 mila.

Quando ricordo che nei vent’anni di guerra del Vietnam, sono state sacrificate 58 mila vite di soldati americani, si fa chiara la gravità di quello che avviene nel mio paese. Questo orrore causa indignazione e turbamento. E tutti sappiamo che le misure di precauzione e restrizione adottate in tanti altri paesi, avrebbero potuto evitare una mortalità così grande.

Questo genocidio non risulta dall’indifferenza del governo Bolsonaro. È intenzionale. Bolsonaro si compiace della morte altrui. Nel 1999, in qualità di deputato federale, durante un’intervista televisiva dichiarò: “attraverso le elezioni, in questo paese, non si cambierà mai niente, niente, assolutamente niente! Potrà cambiare qualcosa soltanto, purtroppo, se un giorno cominceremo una guerra civile,  per completare il lavoro che il regime militare non ha fatto: uccidere per lo meno 30 mila persone”.

Durante la votazione per impeachment della presidente Dilma Rousseff, dedicò il suo voto alle memoria del più noto torturatore dell’Esercito, il colonnello Brilhante Ustra.

È talmente attratto dalla morte, che una delle sue principali politiche di governo è la liberazione del commercio di armi e munizioni. Quando, davanti al palazzo presidenziale, gli venne chiesto come si sentisse in relazione alle vittime della pandemia, rispose: “In questi dati io non ci credo” (27/03, 92 morti); “Tutti noi un giorno dobbiamo morire” (29/03, 136 morti); “E allora? cosa vuoi che faccia?” (28/04, 5017 morti).

Perché questa politica necrofila? Fin dall’inizio dichiarava che l’importante non era salvare vite umane, ma l’economia. Da ciò deriva il suo rifiuto di decretare il lockdown, osservare le indicazioni della OMS e importare respiratori e dispositivi di protezione individuale. É stato necessario che la Corte Suprema delegasse questa responsabilità ai governatori di ogni singolo stato e ai sindaci di ogni città.

Bolsonaro non ha  rispettato neppure l’autorità dei suoi stessi ministri della salute. Dal febbraio scorso il Brasile di ministri ne ha avuti due, entrambi licenziati per rifiutarsi di adottare lo stesso atteggiamento del presidente. Ora a dirigere il ministero è il generale Pazuello, totalmente ignorante in questioni sanitarie; ha cercato di occultare i dati sulla evoluzione dei numeri delle vittime del coronavirus; si è circondato di 38 militari primi di ogni qualifica, assegnando loro importanti funzioni ministeriali; ha eliminato le conferenza stampa giornaliera attraverso la quala la popolazione avrebbe potuto ricevere importanti informazioni e consigli.

Sarebbe troppo lungo elencare in questa sede quante misure di elargizione di fondi per l’aiuto alle vittime e alle famiglie di bassa rendita (più di 100 mila brasiliani) sono state negate.

Le ragioni delle intenzioni criminali del governo Bolsonaro sono evidenti. Lasciare morire gli anziani per risparmiare sui fondi della Previdenza Sociale. Lasciare morire i portatori di malattie pregresse, per risparmiare i fondi del SUS, il sistema nazionale di salute. Lasciare morire i poveri, per risparmiare i fondi del “Bolsa Família” e degli altri programmi sociali destinati a 52,5 milioni di brasiliani che vivono sotto la soglia della povertà, e ai 13,5 milioni che si trovano in situazione di miseria estrema (sono dati del governo federale).

E ancora insoddisfatto di queste misure mortali, nel progetto di legge sanzionato il 3/07, il presidente ha vetato l’articolo che obbligava l’uso di mascherine negli stabilimenti commerciali, nei templi religiosi e nelle scuole. Ha vetato altresì l’imposizione di sanzioni e multe a chi non rispetti le regole; ha vietato l’obbligo del governo di distribuire mascherine alla popolazione più povera e vulnerabile, principale vittima del Covid-19, e ai carcerati (750 mila). Questo tipo di veto non annulla però le leggi locali che prevedono l’obbligatorietà dell’uso della mascherina.

Il giorno 8/07, Bolsonaro ha abrogato alcuni articoli di legge, già approvati al Senato, che obbligavano il governo a fornire acqua potabile, materiale di igiene e pulizia, installazione di internet e la distribuzione di ceste alimentari, sementi e utensili per la coltivazione della terra ai villaggi indigeni. Il veto presidenziale si è esteso anche ai fondi di emergenza destinati alla salute di quelle popolazioni, e parimenti alla facilitazione dell’accesso all’ausilio di emergenza di 600 reais (circa 100 euro) per tre mesi.

Ha vietato inoltre l’obbligo del governo di garantire assistenza ospedaliera, l’uso dei macchinari di respirazione e di ossigenazione sanguigna ai popoli indigeni e agli abitanti delle comunità afro-brasiliane “Quilombos”.

Gli indigeni e gli abitanti dei “Quilombos” sono stati decimati dalla crescente devastazione socio-ambientale, soprattutto in Amazzonia.

Per favore, divulgate al massimo questo crimine contro l’umanità. È necessario che le denunce di quello che accade in Brasile arrivino ai mass-media dei vostri paesi, ai social, al Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu, al Tribunale Internazionale dell’ Aia, così come alle banche e alle imprese che raggruppano gli investitori, tanto desiderati dal governo Bolsonaro.

Molto prima che The Economist lo facesse, nelle mie reti digitali chiamo il presidente con il soprannome di BolsoNero ( In portoghese Nero” è il nome dellimperatore Nerone, ndt ) che mentre Roma brucia suona la lira e fa pubblicità alla Clorochina, una medicina senza alcuna prova scientifica di efficacia contro il nuovo coronavirus.(1) Ma i suoi fabbricanti sono alleati politici del presidente…

Ringrazio il vostro solidale interesse nel divulgare questa lettera. Solamente la pressione proveniente dall’estero sarà capace di fermare il genocidio che martirizza il nostro “querido e maravilhoso” Brasil.

 

Fraternalmente

Frei Betto

 

Dal sito: https://www.pressenza.com/it/2020/07/lettera-di-frei-betto-agli-amici-allestero/

Ripartenza verde, come il nuovo “whatever it takes” della BCE. Intervista a Giuseppe Sabella

Ripartenza verde: industria e globalizzazione ai tempi del covid è il nuovo lavoro di Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0 che spesso intervistiamo su RaiNews.it a commento delle vicende economiche. Pubblicato da Rubbettino Editore e nelle librerie da pochi giorni, il libro ha come tema centrale l’industria e la transizione ecologico-energetica nel quadro della nuova globalizzazione e del ruolo nuovo che Sabella ritiene avere l’Unione Europea. Lo abbiamo intervistato per capirne di più.

Sabella, per cominciare la nostra conversazione, vuole spiegare l’aforisma che ha messo nell’introduzione: “l’industria ha preceduto la filosofia”. Sembra una tesi da sinistra hegeliana… Eppure la contemplazione del mondo, post-pandemia, è quanto mai necessaria per entrare in profondità con quello che è successo…

Iniziamo col dire che questo libro, in linea con quanto sta avvenendo nelle stanze del potere mondiale più lungimirante, celebra il primato dell’economia reale sulla finanza. La ricchezza delle nazioni – per scomodare il grande Adam Smith – non può che essere l’ingegno delle persone, il lavoro, la loro capacità di produrre beni. Abbiamo creduto per molti anni, invece, che la ricchezza andasse cercata nella rendita finanziaria, nei mercati. Come possono questi prosperare se viene meno la spinta verso l’innovazione e la produzione di beni? Questo per dire che certamente c’è un po’ di enfasi dentro quell’aforisma che lei cita, ma anche molta verità. Cos’è l’industria se non il più sofisticato sistema tecnico che abbiamo inventato e sviluppato per coniugare le risorse della terra e il lavoro dell’uomo? In questo senso, l’industria ha preceduto la filosofia perché già nell’antichità, ancor prima che l’uomo fosse in grado di porsi le domande fondamentali sulla propria esistenza, già era capace di creare strumenti tecnici, persino per formarne degli altri. Ma, continua l’aforisma, “è il previsto che coglie di sorpresa l’uomo esperto”…

Mi sta quindi dicendo che è questa sorpresa, questo stupore, che porta l’uomo alla contemplazione del mondo?

Non stavo dicendo questo ma lei fa molto bene a rimarcare questo tratto. La pandemia ha fermato il mondo intero e ci ha costretto a ripensare la nostra vita. Non esiste più il mondo pre-covid, i discorsi in cui si parla di un “come prima” non hanno fondamento. Il mondo post-covid è un mondo nuovo perché oggi abbiamo piena consapevolezza che vi sono agenti – i microbi – che sono tanto piccoli quanto pericolosi. E che con loro dobbiamo convivere. Da qui una serie di abitudini e un’organizzazione sociale nuova, per certi versi anche migliore. Mi riferisco in particolare allo smart working, alla riduzione della mobilità e ad un conseguente calo degli assembramenti. E anche la stessa morfologia urbana cambierà, le periferie saranno più vive e più belle, perché le persone – proprio in virtù del lavoro a distanza – andranno sempre più a cercare la qualità della vita.

E perché è il previsto a cogliere di sorpresa l’uomo esperto?

Come diceva il grande aforista colombiano Nicolás Gómez Dávila, “più che l’imprevisto, è il previsto che coglie di sorpresa l’uomo esperto”. La tecnica – e qui vengo ai suoi limiti e alle virtù della contemplazione che lei saggiamente richiama – genera in noi l’illusione di poter prevedere gli eventi. Qualcosa possiamo certamente controllare, ma la natura – ancora una volta – ci ha mostrato il suo volto felino, per certi versi anche velenoso. È un dualismo che dura da sempre quello del rapporto uomo-natura e che soltanto l’ideologia può pensare di archiviare. È, in questo senso, l’ideologia della previsione, del misurabile, della tecnica appunto. Quel grande filosofo della scienza che è stato Giulio Giorello non ha mai smesso di denunciare il pericolo della tecnica come idolo. Negli ultimi 30 anni, per esempio, il mondo occidentale aveva previsto di rilanciare la propria produzione di ricchezza delocalizzando le produzioni. Ma ciò non è andato secondo aspettative. Anzi, è successo che, in 20 anni, la Cina è cresciuta moltissimo non solo in capacità produttiva ma anche in tecnologia, tanto da essere oggi la più importante manifattura a livello mondiale e il Paese più avanti nella frontiera digitale; ed è l’economia che il mondo e gli USA, l’altra superpotenza, stanno inseguendo. Secondo le nostre previsioni, il processo di off shoring – ovvero di delocalizzazione produttiva – avrebbe dovuto fare la nostra fortuna: in questo modo, producendo a basso costo, avevamo previsto di rafforzare il nostro potere d’acquisto. Non avevamo invece fatto i conti con i cinesi e con la Cina che, invece, abbiamo fatto grande noi, perché lì abbiamo destinato la nostra manifattura, la nostra tecnologia, le nostre competenze, le nostre invenzioni, etc. Tutto questo ha arricchito chi ha investito nei Paesi a basso costo di produzione ma ha impoverito l’Occidente. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: oggi la Cina è il vero vincitore della globalizzazione, sebbene il ciclo che viene sia pieno di variabili.

Cosa ci aspetta nel futuro prossimo venturo? Le previsioni ci danno l’immagine di un momento molto difficile che, in parte, deve ancora arrivare.

Premesso che la pandemia, in particolare nei mesi di marzo e aprile, ha fatto dei danni ingenti in tutto il mondo a livello di produzione industriale – Italia meno 47,5%, Francia meno 36,3%, Germania meno 26,8%, Spagna meno 32%, UK meno 20,3% nel mese di aprile (marzo poco sopra lo zero), USA meno 16,6%, in Cina i mesi più duri sono stati quelli di gennaio-febbraio (produzione industriale meno 13,5%) – è evidente che in Italia vi è stato un lockdown più pervasivo rispetto alle altre economie avanzate e che il nostro Paese, anche in ragione delle previsioni, ha davanti a sé la sfida più importante degli ultimi 50 anni. Sapremo invertire la rotta? Al di là di noi, Cina e USA saranno quelli di prima? Gli USA stanno conoscendo serie difficoltà nella gestione del fenomeno pandemico, sia a livello sanitario che sociale. Per quanto riguarda la Cina, non sono convinto di ciò che per esempio sostengono Prodi e Forchielli, che sarà ancora l’economia più forte. Per il dragone il post-covid potrebbe essere, come per esempio sostengono Tremonti e Sapelli, l’inizio di una crisi interna importante. Insomma, le incognite non mancano. E, se devo dire dove vedo più certezze, direi Europa.

Perché questa nota di ottimismo sul Vecchio continente? Da dove origina?

L’Europa, già prima della pandemia, stava lavorando su un programma comunitario di rilancio dell’economia e delle produzioni, non solo in chiave ecologica ma anche in chiave di innovazione digitale: è questo il Green New Deal. Non è un caso che, proprio in questi giorni siano successe due cose importanti: in primis, l’Europa ha lanciato la piattaforma di cloud computing Gaia-X, proprio per iniziare a colmare il ritardo che ha sul digitale con i big di USA e Cina; è il progetto di una nuova infrastruttura europea per la gestione dei dati che sappiamo essere decisiva nell’era digitale. In secondo luogo, in un’intervista al Financial Times Christine Lagarde si è detta “pronta a esplorare ogni strada per sostenere il rilancio dell’industria europea anche nell’ottica di fronteggiare il cambiamento climatico”. In precedenza, già la Presidente Von Der Leyen aveva manifestato tutta la sua determinazione per il Green New Deal, che solo l’emergenza sanitaria ha reso meno in primo piano nei lavori della Commissione. È quindi un ottimo segnale che anche un’istituzione come la BCE trasmetta tutta la sua convinzione in tal senso. Lo potremmo definire, dopo quello di Mario Draghi, il “whatever it takes” di Christine Lagarde. Purtroppo però in questo quadro in cui l’UE da segnali importanti non solo per la sua industria ma anche per la sua integrazione, l’Italia pare reagire in modo molto parziale alla situazione. Non bastano le misure assistenziali, è fondamentale pensare anche alla ripresa, le aziende hanno bisogno di strumenti per progettare il futuro. Da questo punto di vista, il decreto rilancio è una delusione. Vi sono sì i bonus per edilizia e auto ma non vi è praticamente nulla per l’innovazione d’impresa. Deve ripartire il piano industria 4.0 in modo poderoso. Imprese e industrie vanno sempre più portate sull’orizzonte digitale, su cui l’Europa è indietro: l’85% degli investimenti in intelligenza artificiale sono stati fatti in aziende americane e cinesi. Anche per questo, e non soltanto per fronteggiare l’emergenza climatica, è nato il Green New Deal. Per l’Italia, secondo Paese manifatturiero d’Europa, è occasione fondamentale che non possiamo mancare: nel giro di tre anni, rischiamo di uscire dal gruppo dei Paesi avanzati.

A proposito di ambiente, Papa Francesco sembra essere l’unico leader mondiale in grado di trasmettere messaggi per le masse sull’importanza della cura del pianeta. Da questo punto di vista, la politica non sembra aver compreso l’emergenza climatica.

Dall’Europa mi pare stiano arrivando segnali e messaggi chiarissimi, per una volta mi sentirei di plaudire a ciò che sta facendo l’eurogruppo. L’Europa potrebbe anzi lanciare una nuova idea di multilateralismo fondata proprio sul climate change, sulla cybersecurity, sulle migrazioni. USA e Cina hanno nei confronti dell’ambiente un atteggiamento diverso: benché l’innovazione dell’industria non sia da meno, Trump in particolare sul “green” è molto freddo. Perché sa bene che l’Europa, prima degli USA, ne ha fatto una questione identitaria, anche grazie a Greta Thunberg e al suo movimento dei fridays for future. Il termine Green New Deal è oltretutto nato negli USA quando, nel 2019, il Congresso proponeva un pacchetto chiamato proprio Green New Deal che mirava a far fronte ai cambiamenti climatici oltre che alla disuguaglianza economica. Ma Trump e i repubblicani non hanno apprezzato e, da questo punto di vista, siamo stati più bravi noi europei. Una vera beffa per gli americani. Stringendo però sulla sua domanda, e quindi sul Papa, direi che il recente documento della Santa Sede In cammino per la cura della casa comune: a cinque anni dalla Laudato sì è segno che, sul problema, l’attenzione del Pontefice e della Chiesa è molto alta. Del resto l’emergenza è tale e il messaggio biblico è chiaro: “il Signore pose l’uomo nel Giardino affinché lo coltivasse e lo custodisse” (Genesi 2.15). Oggi è l’ora, in particolare, della custodia del pianeta e della cura della casa comune, come dice Papa Francesco.

Economia della crisi. Intervista a Salvatore Biasco

 

Nel fine settimana si terrà  il  Consiglio UE . Un passaggio importante per il futuro dell’economia europea. Il premier sta giocando in Europa una partita decisiva per il suo governo. E’ sul fattore economico e sull’efficacia delle misure anticrisi che si giocherà nel medio termine il futuro dell’Italia e dell’Europa. Ne parliamo, in questa intervista, con un importante economista Salvatore Biasco. Biasco è stato professore di Economia internazionale. Ha studiato a Roma e Cambridge e insegnato a Modena e Roma. Già Vice Presidente della Società Italiana degli Economisti e premio Saint-Vincent per l’Economia, è autore di libri influenti in ambito economico. Ha anche pubblicato saggi in campo politologico, abbinando sempre lo studio dei meccanismi economici a quello delle determinazioni sociali. In materia fiscale, poi, è stato Presidente, nella XIII Legislatura, della Commissione Bicamerale per la Riforma Fiscale e autore del “libro bianco” sull’imposizione sulle imprese che porta il suo nome.

Professore, stiamo vivendo mesi drammatici. Le previsioni europee, per questo anno, sulla nostro sono nere: – 11,2%. Un dato inquietante. Nell’ambito della UE siamo il paese che sarà più colpito economicamente dalla pandemia. Le chiedo: pensa che il governo sia all’altezza della situazione?

Qualche segnale ci dice anche che le cifre finali potrebbero essere meno drammatiche, ma certo la sostanza non cambia.  Ci siamo trovati ad affrontare una situazione inedita, primo paese in occidente, senza grandi possibilità di manovrare la spesa pubblica. Penso che per gli interventi volti a tamponare la perdita di reddito di tante categorie di lavoratori, il governo, pur con qualche errore, abbia agito bene, ma la situazione ha rivelato la debolezza di tutto l’apparato amministrativo, che ha fatto perdere tempestività e non ha risposto come avrebbe richiesto dalla situazione Ora, però, siamo in un’altra fase e si tratta di dare rapidamente una spinta alla domanda. Non a caso, non con puri trasferimenti, ma indirizzando la spesa pubblica in modo da prefigurare un modello diverso di economia: ecologica, governata, solidale, istruita e all’avanguardia tecnologicamente, con poco spazio per la corruzione e l’evasione. Non voglio esprimere giudizi sulle capacità del governo, vedremo. Mi sembra abbastanza consapevole della situazione.  Certo gli aiuti che ad esso vengono dai partiti sono scarsi; lì vige la preoccupazione di guadagnarsi il consenso in questo o quel settore e meno quella di disegnare un’Italia del futuro. L’opposizione pure non indica nulla e capitalizza le ansie che percorrono il corpo sociale.

Al di là delle singole misure, lei vede nel Governo una strategia, o per meglio dire, una visione di Paese da ricostruire? Quali Sono secondo lei le priorità per ripartire?

Non scopro nulla parlando di infrastrutture, ma occorre guardare oltre, molto più lontano per orientare l’oggi. Personalmente metterei il primo impegno nella ricostruzione della macchina amministrativa. Abbiamo la fortuna di dover reclutare oltre mezzo milione di unità e ringiovanire la PA.  Occorre contestualmente identificare le diverse missioni che attengono a parti diverse del settore pubblico, rinunciando all’uniformità organizzativa, contrattuale, di organizzazione del lavoro e di struttura delle responsabilità decisionali. Da qui far partire una selezione della dirigenza e dei quadri con professionalità adeguata ai singoli obbiettivi.

Poi occorre uno Stato capace di guidare l’economia secondo criteri che una volta si sarebbero detti di “programmazione” (perché no? anche settoriale). Il tutto connesso a filiere imperniate su missioni di ricerca che chiamino a raccolta le migliori capacità industriali e organizzative, le università e i centri di ricerca, e che siano organizzate in modo tale da essere driver di sviluppo produttivo e territoriale.  Penso a missioni centrate sull’informatizzazione, la mobilità territoriale, i beni culturali, la chimica verde l’efficienza energetica e poche altre. Dobbiamo ambire a che, nei settori per noi più importanti, l’Italia non sia solo un hub produttivo, ma anche i ricerca (informatica, alimentare, farmaceutica, biomedicale, ecc.). E non aver paura a sviluppare con impegno diretto dello Stato (anche in partnership) produzioni che sono deboli nella nostra matrice industriale – pur avendo le potenzialità produttive e pur facendone largo uso (penso ad alcuni beni strumentali legati ai piani di sviluppo della mobilità, dell’informatica ecc.).

Nell’emergenza del coronavirus abbiamo sancito che lo Stato può intervenire nei contratti privati (il blocco dei licenziamenti), requisire fabbriche a fini collettivi (per produrre mascherine), interferire nella libera disposizione delle proprietà (golden rule). Non arretriamo da principi di questo tipo, ma usiamoli intelligentemente per guidare uno sviluppo dall’alto in una economia mista. Userei quell’impostazione anche per determinare un incremento dei salari che non gravi sul bilancio pubblico. Credo poco a trasformazioni produttive che si sviluppino spontaneamente guidate dal mercato o che avvengano solo attraverso incentivi alla profittabilità privata. La stessa determinazione di intervento va posta nello spingere il sistema delle piccole imprese al rafforzamento finanziario e alle fusioni. Strutture pubbliche possono essere promotrici dirette di reti di imprese e di un sistema di brokeraggio tecnologico posto al servizio delle piccole e medie imprese. Spendiamo subito, se possibile partendo da programmi ambientali e di sistemazione del territorio.

Non c’è bisogno di dire che la sanità anche va ridisegnata in modo tale da renderla reale condizione per il rilancio del Paese con investimenti specifici, anche in informatica e nei settori della fornitura, tenendo un approccio capillare, capace di prevenire e di essere tarato sulle persone e diffuso nel territorio.

Non dimentichiamo, però, che negli anni del declino non sono mancate istituzioni dedicate allo sviluppo, regolazioni adeguate e talvolta nemmeno finanziamenti, ma è mancata la capacità di governarne i processi, avere una barra di riferimento, curare le necessità operative e la filiera di comando, tenere la guida e il coordinamento degli attori, risolvere le questioni in modo olistico. E’ ciò che va curato maggiormente oggi in tutti i campi.

So che lei è stato molto critico sul “piano” Colao. Perché, secondo lei, non può essere il “piano” per la rinascita dell’Italia?

Si tratta di interventi sparsi, molte volte importanti, mischiati, però, a tante altre raccomandazioni che poco hanno a che fare con la ripartenza, a indicazioni di buon senso, auspici e provvedimenti emergenziali. Difficile trovare una gerarchia di temi o una distinzione di efficacia. Forse in due mesi non si poteva fare di più, ma se si guarda il Rapporto nel suo complesso si ricava l’impressione che l’Italia possa crescere solo sburocratizzando all’eccesso, deregolamentando, riducendo le protezioni dei risparmiatori, la partecipazione dei cittadini e trovando nello Stato il finanziatore di ultima istanza di ogni iniziativa che il settore privato debba a suo merito intraprendere. Poca consapevolezza dei nodi di governance di cui parlavo nella risposta precedente. Difficile allora considerare questo Rapporto un progetto ambizioso che guardi al futuro di un Paese che voglia cambiare pagina sia riguardo al suo declino e sia alla sua inaccettabile situazione sociale.

Sarà un autunno carico di tensioni?

Quello che possiamo dire è che il Coronavirus ha messo a nudo le diseguaglianze esistenti e le ha acuite, quelle tra chi è protetto e chi no, tra chi ha accesso alla connessione e alla migliore conoscenza e chi no, tra chi ha avuto la possibilità (e chi no) di accedere alla sanità privata di fronte al blocco delle cure per malattie non legate alla pandemia, tra  chi ha vissuto la quarantena in un ambiente confortevole e chi in un ambiente angusto e degradato, chi aveva sufficienti risparmi accumulati e chi no. Qui abbiamo un altro dei pilastri su cui L’Italia va ricostruita; maggiore protezione, maggiore eguaglianza, servizi pubblici efficienti e universali. Certamente gli effetti negativi della pandemia sull’organizzazione sociale sono stati gravi e continueranno oltre la sua fine. Mi aspetto, se non tensioni, una crescita del malcontento, Per quanto il sostegno al reddito possa essere mantenuto – e non ho dubbi che lo sarà – e per quanto vi sia consapevolezza dell’enorme sforzo finanziario in corso –  non tutte le aspettative di sostegno saranno per forza di cose universali (raggiungeranno tutti quelli che ne avrebbero bisogno) o consentiranno il recupero del reddito perso; in più, chi ha utilizzato i propri risparmi li ha visti assottigliarsi o azzerarsi. Per questo è importante che adesso sia sveltita la ripartenza e che si creino rapidamente occasioni di lavoro.

Torniamo per un attimo congiuntura politica ed economica. Mi riferisco, cioè, al MES SANITARIO. Non trova assurdo non prendere questi fondi? Cosa fa paura?

Ovviamente fa paura il ricordo della Grecia: Ma penso che la lezione sia stata imparata dall’Europa e, in ogni caso, la condizione attuale è solo di spendere in modo razionale le risorse che ci potrebbero essere assegnate. Rimane il ricordo di quell’esperienza scellerata che conferisce alla sola parola ”Mes” una valenza emotiva, che oggi non è appropriata. Io non esiterei ad utilizzarlo dietro adeguate garanzie, anche perché è la condizione affinché la Bce possa intervenire sul mercato primario dei titoli di Stato, praticamente senza limiti. Tuttavia, va detto che quelle risorse sono un prestito a tassi di favore (non un regalo) e che, non rappresentando dotazioni trascendentali (36 miliardi), possono essere sostituite da un indebitamento diretto dell’Italia sui mercati finanziari. Qualcosa perderemmo sui tassi di interesse, ma non cifre rilevanti per cui non farei un dramma se alla fine per ragioni politiche il ricorso al Mes venisse accantonato.

Allarghiamo lo sguardo della riflessione. Soffermiamoci sull’Europa. La pandemia ha fatto sospendere i “sacri dogmi” del rigorismo. Mettendo in atto misure di sicurezza economica: il Recovery fund e Mes senza condizioni per la spesa sanitaria. Pensa che questa sospensione sarà una buona occasione per ripensare l’Europa nella sua dottrina economica? O, invece, è pessimista nel senso, cioè che i paesi “frugali” ritorneranno ad imporre i loro dogmi?

L’Europa ha fatto passi avanti impressionanti, su cui nessuno avrebbe scommesso sei mesi fa. E’ stata immediata la sospensione di regole di bilancio e aiuti di Stato. La Bce, dopo due giorni di esitazione, si è impegnata in un programma di acquisto illimitato di titoli di Stato per contenere gli spread e in più ha fornito ingente liquidità quasi gratuita alla banche per sostenere il credito. E’ stata attenuata la condizionalità sul Mes. La Merkel ha annunciato di voler superare la regola dell’unanimità nelle decisioni. Si è superato – per ora nelle intenzioni di Ursula – il tabù dei trasferimenti comunitari e dell’emissione di titoli comuni passando attraverso un allargamento del bilancio comunitario. Un programma consistente di 1500 miliardi di euro, di cui a noi toccherebbe la parte del leone. Sebbene cosa succederà del progetto Ursula sia tutto da verificare perché ancora soggetto a trattativa, i mutamenti sono di rilievo. Sarà difficile tornare alle regole precedenti. La cartina di tornasole è il bilancio comunitario, vale a dire la capacità dell’Unione di dotarsi di una significativa politica della domanda, che affianchi la politica monetaria nella funzione di spinta all’economia. Il bilancio comunitario porta con sé la definizione del finanziamento, sia in deficit (comunitario, quindi con euro bonds) sia con entrate proprie dell’Unione (Carbon tax, Tobin tax, porzioni di una tassa comune consolidata sulle multinazionale che ponga fine all’utilizzo dei paradisi fiscali). Molto altro va fatto, ma di fronte alla istituzione di un significativo bilancio comunitario diventerebbe meno impellente. Mi riferisco all’unione finanziaria e all’introduzione della golden rule. Nello stesso tempo, occorrerà porre mano a un programma comunitario per la disoccupazione e è urgente è il varo di un diritto del lavoro europeo volto a porre un argine al precariato e a rafforzare i sindacati. L’Europa è a un bivio; fermarsi vuol dire perire, dopo lo sconvolgimento e la messa a nudo dei problemi che ha portato la pandemia. Se qualche paese frugale non l’ha capito rischia di sfasciare tutto, ma cederà. Una precisazione: l’Italia è un paese frugale, da trent’anni circa con un bilancio primario positivo, surplus in conto corrente con l’estero, basso indebitamento privato e un debito pubblico in termini assoluti tenuto sotto controllo – fino allo scoppio della pandemia – dal livello di 25 anni fa. Abbiamo solo ereditato la scelleratezza degli anni ’80.

Come si sconfigge il sovranismo?

E’ qui che l’Europa ha il compito più importante. Occorre ridare speranza e futuro ai cittadini, rafforzare la cittadinanza dove si è indebolita negli ultimi trent’anni. E su tutto primeggia la creazione di opportunità di lavoro, di buon lavoro.  La chiave di volta è quella che dicevo prima; domanda, domanda e domanda. Domanda vuol dire produzione (e occupazione); vuol dire più produttività; vuol dire necessità per le imprese di allargare la capacità produttiva con investimenti, vuol dire innovazione. Se gli operatori percepiscono che questa è la stella polare della politica economica le aspettative cambiano e tutto si avvita positivamente. Si crea un clima di fiducia, cambia la propensione imprenditoriale al rischio e ad allargare la capacità produttiva, anche in anticipo della domanda. Quando questo avviene, la proiezione in avanti dell’espansione dei mercati allunga gli orizzonti di pianificazione temporale, porta a decisioni di spesa più audaci e induce un accrescimento del potenziale produttivo, che crea esso stesso le premesse affinché gli incrementi di capacità di offerta siano poi riempiti da addizioni effettive di domanda interna e da nuove esportazioni, venendo così a convalidare la giustezza dello scenario assunto ed estendendolo nel tempo. E’ possibile che non si sia imparato nulla dagli episodi di crescita sostenuta del dopoguerra (paesi europei, fino agli anni ’70, Sud Est asiatico, Reagan e Clinton)?. In questo quadro si può puntare alla costruzione di un orizzonte nel quale ricominciare a prospettare un obiettivo di piena occupazione e fiducia.

Occorre uscire dall’idea che una politica dell’offerta incentrata sui mercati possa essere il criterio unico di politica economica, come lo è stato per l’Unione di stampo liberista che ha puntato tutte le carte su concorrenza, flessibilità e imbrigliamento della presenza pubblica nell’economia (con esiti che non possono che essere definiti palesemente deludenti e insufficienti).  Il che non vuol dire che selezionate politiche dell’offerta (ad esempio nella ricerca e nell’istruzione, nelle reti) non  possano essere efficaci (dove lo sono e mai in linea di principio), ma è così solo se è di complemento in un’economia tenuta per altre vie a buon livello dell’attività economica.

 C’è una voglia di un nuovo intervento statale nell’economia. Come si può ricostruire un nuovo equilibrio tra stato e mercato?

Penso che la mia visione risulti da quanto detto in precedenza, specie quelle riferite all’Italia. Il mercato è uno strumento utile alla spinta produttiva, ma deve trovare uno Stato efficiente che guidi, indirizzi e disciplini l’azione privata. Il mercato non può essere il regolatore della società. Nel tempo si è persa la consapevolezza collettiva che una società guidata dal profitto privato produce incertezza sociale ed economica, una grave differenziazione sociale, fallimenti di mercato e instabilità economica (ma anche trasformazione), che solo col primato della politica sopra l’economia possono essere portati sotto controllo e governati nell’interesse collettivo. Si è persa anche la consapevolezza della natura cooperativa del processo di produzione, nel quale il capitale è un bene sociale, soggetto quindi a responsabilità sociale. Il che non contraddice la proprietà privata e il perseguimento del profitto individuale nell’attività produttiva, ma presuppone che alle imprese, in qualsiasi campo, sia assegnato un ruolo implicito di agenti attraverso i quali raggiungere un interesse collettivo, di occupazione, produzione, progresso tecnico, stabilità. Presuppone che vi sia un presidio/sorveglianza/ausilio/supplenza da parte dello Stato nello svolgimento di tale ruolo. Tutto questo va riconquistato nella cultura e nella pratica.

Ultima domanda : cosa ha dire Keynes oggi?

Si era smesso di insegnare Keynes nelle università di “avanguardia” o era stato ridotto a formulette inquadrate nell’economia mainstream dell’equilibrio astratto dei mercati. Keynes, se studiato effettivamente dà la migliore forma mentis per comprendere il capitalismo nelle sue linee essenziali e le forze che hanno influenza su produzione e occupazione. Mi piace vederlo in questa chiave metodologica più che come riferimento per ricette standardizzate. Nella sua visione, il capitalismo non è concepibile senza le istituzioni finanziarie in quanto il sistema è monetario di produzione, si regge su debiti e crediti e ormai ha la borsa come parte integrante del processo.  In più, la finanza acquista una veste autonoma rispetto alla produzione, in una serie di scommesse che creano piramidi finanziarie. Questo autore ci induce a vedere le decisioni simultaneamente dal punto di vista reale e finanziario in condizioni di incertezza sul futuro e, quindi mutevoli e instabili al mutare delle opinioni sul futuro: il mercato è anarchico, non si auto equilibra e le crisi sono endogene alla sua dinamica e alla sua logica Se è così, il sistema è in qualche modo dominato dalla fiducia collettiva, che influenza la disposizione e il comportamento degli operatori. Questa può dipendere da fattori esogeni ma sono l’azione pubblica e l’assetto istituzionale, che -, socializzando molte variabili e fornendo gli ancoraggi necessari – consentono in ultima istanza agli operatori di affrontare con più o meno ottimismo la situazione e rendono la fiducia medesima più alta o più bassa e i modi di guardare al futuro più aperti o meno incerti, o, al contrario, più densi di insicurezze e più labili. Se il grado di fiducia è la cornice in cui si muove l’intero processo economico, ne deriva l’azione pubblica ha il compito di muoversi in una direzione tesa a rafforzare la fiducia medesima, dominare la complessità e ridurre l’incertezza. Questa è la chiave che presiede alla crescita e alla stabilizzazione. Keynes parla a un certo punto di necessità di “socializzazione dell’investimento” per tenere la piena occupazione. Non è un caso che il bersaglio culturale della rivoluzione neo liberale sia la sua opera.