Entrano in vigore oggi le misure del dpcm che il premier Giuseppe Conte ha presentato ieri in conferenza stampa. Le restrizioni al momento colpiscono in particolare bar, gelaterie e ristoranti oltre che palestre, piscine, cinema e teatri. E, insieme a coprifuoco, didattica a distanza e smart working, puntano a ridurre drasticamente l’incidenza dei flussi di persone sul trasporto pubblico locale. Il governo auspica che l’intervento sia sufficiente per evitare un secondo lockdown da qui a Natale. La situazione in Europa non è migliore, in Francia e Spagna in particolare si registrano trend di crescita dell’epidemia più forti di quello italiano, come del resto nel Regno Unito. Abbiamo parlato delle ricadute sull’economia con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0.
Sabella, il weekend oltre che dall’intervento del Governo è stato caratterizzato da fenomeni di disordine sociale in due città importanti come Napoli e Roma, segno della pericolosità di un altro rallentamento per la nostra economia. Da questo punto di vista, che previsioni possiamo azzardare?
È difficile fare previsioni in questo momento perché non abbiamo idea della possibile evoluzione dell’epidemia. E auguriamoci che abbiano ragione al Governo, ovvero che questa stretta adottata ci permetta di evitare un secondo lockdown. Non concordo con i toni apocalittici sul nostro Paese perché vi è chi in Europa, e non solo, sta peggio di noi. Non credo quindi che, in caso di secondo lockdown, saremo gli unici. Questo per dire che se vi sarà un problema per l’economia sarà esteso. E quindi saranno adottate misure comuni a livello europeo per esempio. Il problema nostro, tuttavia, è da una parte che il nostro tessuto produttivo, in particolare la piccola impresa, è molto fragile, quindi chi chiude oggi – magari per la seconda volta – rischia di non aprire più; dall’altra, con un debito pubblico così alto abbiamo più difficoltà nell’immediato ad attuare misure di sostegno al lavoro e all’impresa; e sono proprio i tempi con cui si interviene a fare la differenza. Napoli e Roma ci dicono, in questo senso, che dobbiamo stare molto attenti, il disordine sociale è il rischio più grande che corriamo. È vero che la salute è la cosa più importante, ma è anche vero che non c’è salute senza economia.
Pare evidente che il Governo non abbia un piano per proteggere e rilanciare la nostra economia. Perché questa politica debole e cosa auspicare adesso?
Siamo senza un indirizzo politico – e ciò è molto pericoloso – perché il governo è male allestito e frammentato al proprio interno. Intanto, non vi è una presenza capace di una visione economica di crescita e di sviluppo, Gualtieri è uomo più legato a politiche di bilancio e Patuanelli, da questo punto di vista, è giovane e poco esperto. Andrebbe scritto un piano per la resistenza e per la ripartenza, ma è un lavoro che può essere frutto soltanto di un percorso condiviso, dal Governo e dalle rappresentanze di impresa e lavoro. Non tanto per dare il contentino a Confindustria e sindacati che lamentano di non essere coinvolti nei provvedimenti adottati, ma perché, diversamente, la miglior idea rischia di restare lettera morta.
Il Presidente di Confindustria Carlo Bonomi propone un “patto per l’Italia”, qual è il suo pensiero?
Si, questa è la strada. Dico di più: dentro la Confindustria e nel sindacato ci sono le risorse e le intelligenze più preziose per costruire un piano per l’economia. Vi sono centri studi che, a differenza dei partiti, producono ancora studi e ricerche valide. Proprio in questi giorni, Bonomi ha presentato il manifesto programmatico degli industriali dal titolo suggestivo “il coraggio del futuro”. È difficile però costruire il futuro attraverso un Patto per il Paese se, però, la Confindustria continua a litigare con le controparti e a non avere un dialogo col Governo. Intendiamoci: non sto dicendo che questa situazione è colpa della Confindustria, dico che soltanto la Confindustria ha la forza di essere soggetto propulsore per ricomporre questa situazione frammentata.
Gli industriali, in questa fase difficile, sono sembrati invece più attenti al loro interesse particolare. Cosa dovevano fare secondo lei?
Dentro le organizzazioni di rappresentanza è sempre molto difficile mediare e fare emergere una linea. Ed è chiaro che, in assenza di una linea, prevale l’interesse particolare. Per questi motivi, è semplicistico dire cosa la Confindustria doveva fare… mi sarei però aspettato, nel momento in cui il contagio iniziava a diffondersi, che gli Industriali dessero un segnale inequivocabile a tutela della salute e della vita dei lavoratori. È quello che hanno fatto alcune grandi imprese: hanno chiuso subito per rendere i loro luoghi di lavoro più sicuri e predisposti per il tracciamento delle persone. Era sufficiente affermare in modo forte che le persone e il lavoro sono la risorsa più importante che abbiamo, e che quindi va tutelata. In quel momento c’è stato il primo cortocircuito forte col sindacato, ci si è messi a litigare sulle attività essenziali per arrivare a quella misura stupida sui codici ateco senza privilegiare, invece, standard di sicurezza dentro i luoghi di lavoro. È anche vero che in quella fase si era dentro il semestre bianco di Boccia e la designazione di Bonomi: resta il fatto che questo segnale non è arrivato e ne sono seguiti momenti di tensione molto forte con i sindacati.
Anche di recente, in particolare sui contratti, sono emerse tensioni forti tra Confindustria e sindacati…
Ecco, anche in questa fase mi è sembrato che non ci fosse la giusta consapevolezza tra le Parti che in questo momento di debolezza della politica non vi è altra possibilità: sono loro che devono supplire a questa mancanza. Bonomi ha più volte parlato di una rivoluzione dei contratti. Al di là del fatto che da anni, ormai, i contratti li scrivono in modo indipendente le federazioni di categoria – le confederazioni fanno sempre più fatica a scrivere le politiche contrattuali in un momento di forte cambiamento dentro i luoghi di lavoro – a me sembra che l’unica cosa da fare in questo momento sia ciò che viene proposto – ancora una volta – dai metalmeccanici, dalla Uilm in particolare: né aumenti, né licenziamenti. In un momento di contrazione così potente per l’economia, ha senso discutere di distribuzione della ricchezza quando abbiamo il problema della sopravvivenza? Inoltre, questa idea che si crea crescita dai contratti mi sembra vecchia come la macchina a vapore. L’unica leva reale per la crescita sono gli investimenti, ciò che manca in questo Paese da quasi 30 anni. E, guarda caso, sono 30 anni che non crescono i salari. Auguriamoci che il Recovery Fund sia occasione per rilanciare davvero la nostra industria.
In questo senso, come potremmo sfruttare al meglio il Recovery Fund?
Prima di tutto, dobbiamo resistere e superare questo autunno difficilissimo, sia sul piano economico che su quello sociale. Nel frattempo, auspichiamo che rapidamente Commissione e Parlamento europeo mettano a punto il Recovery Fund e che si avvii questo processo di sostegno fondamentale agli stati membri. Ciò va nella direzione, anche, di rilanciare le filiere produttive, sia da un punto di vista della loro innovazione tecnologica sia da un punto di vista della loro maggior sostenibilità ambientale. L’Italia è secondo Paese manifatturiero d’Europa e potentemente integrata con la grande piattaforma produttiva tedesca. Questo ci dice che abbiamo una grande opportunità di rilanciare la nostra economia ma che ognuno deve fare la sua parte: la formazione delle persone, le loro competenze, l’innovazione digitale, i nuovi modelli organizzativi, la produzione sostenibile, i nuovi approvvigionamenti energetici… sono tutte voci che costituiscono il Green New Deal europeo che dobbiamo mettere a sistema – in Italia vi sono numerose pratiche avanzate – e che possono essere le fondamenta per il “Patto per l’Italia” di cui parla Bonomi. Bisogna governare non solo la crisi ma, anche e soprattutto, l’innovazione del nostro sistema produttivo e la transizione ecologica ed energetica. Il Recovery Fund serve a questo e le economie avanzate sono concentrate su questi obiettivi. Se non lo fa anche l’Italia, si ritroverà staccata. Con pesanti conseguenze sul piano sociale. Inutile dire che non ce lo possiamo permettere.