“Un patto per l’Italia per evitare il disordine sociale”. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

 

Entrano in vigore oggi le misure del dpcm che il premier Giuseppe Conte ha presentato ieri in conferenza stampa. Le restrizioni al momento colpiscono in particolare bar, gelaterie e ristoranti oltre che palestre, piscine, cinema e teatri. E, insieme a coprifuoco, didattica a distanza e smart working, puntano a ridurre drasticamente l’incidenza dei flussi di persone sul trasporto pubblico locale. Il governo auspica che l’intervento sia sufficiente per evitare un secondo lockdown da qui a Natale. La situazione in Europa non è migliore, in Francia e Spagna in particolare si registrano trend di crescita dell’epidemia più forti di quello italiano, come del resto nel Regno Unito. Abbiamo parlato delle ricadute sull’economia con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0.

 

Sabella, il weekend oltre che dall’intervento del Governo è stato caratterizzato da fenomeni di disordine sociale in due città importanti come Napoli e Roma, segno della pericolosità di un altro rallentamento per la nostra economia. Da questo punto di vista, che previsioni possiamo azzardare?

È difficile fare previsioni in questo momento perché non abbiamo idea della possibile evoluzione dell’epidemia. E auguriamoci che abbiano ragione al Governo, ovvero che questa stretta adottata ci permetta di evitare un secondo lockdown. Non concordo con i toni apocalittici sul nostro Paese perché vi è chi in Europa, e non solo, sta peggio di noi. Non credo quindi che, in caso di secondo lockdown, saremo gli unici. Questo per dire che se vi sarà un problema per l’economia sarà esteso. E quindi saranno adottate misure comuni a livello europeo per esempio. Il problema nostro, tuttavia, è da una parte che il nostro tessuto produttivo, in particolare la piccola impresa, è molto fragile, quindi chi chiude oggi – magari per la seconda volta – rischia di non aprire più; dall’altra, con un debito pubblico così alto abbiamo più difficoltà nell’immediato ad attuare misure di sostegno al lavoro e all’impresa; e sono proprio i tempi con cui si interviene a fare la differenza. Napoli e Roma ci dicono, in questo senso, che dobbiamo stare molto attenti, il disordine sociale è il rischio più grande che corriamo. È vero che la salute è la cosa più importante, ma è anche vero che non c’è salute senza economia.

Pare evidente che il Governo non abbia un piano per proteggere e rilanciare la nostra economia. Perché questa politica debole e cosa auspicare adesso?

Siamo senza un indirizzo politico – e ciò è molto pericoloso – perché il governo è male allestito e frammentato al proprio interno. Intanto, non vi è una presenza capace di una visione economica di crescita e di sviluppo, Gualtieri è uomo più legato a politiche di bilancio e Patuanelli, da questo punto di vista, è giovane e poco esperto. Andrebbe scritto un piano per la resistenza e per la ripartenza, ma è un lavoro che può essere frutto soltanto di un percorso condiviso, dal Governo e dalle rappresentanze di impresa e lavoro. Non tanto per dare il contentino a Confindustria e sindacati che lamentano di non essere coinvolti nei provvedimenti adottati, ma perché, diversamente, la miglior idea rischia di restare lettera morta.

Il Presidente di Confindustria Carlo Bonomi propone un “patto per l’Italia”, qual è il suo pensiero?

Si, questa è la strada. Dico di più: dentro la Confindustria e nel sindacato ci sono le risorse e le intelligenze più preziose per costruire un piano per l’economia. Vi sono centri studi che, a differenza dei partiti, producono ancora studi e ricerche valide. Proprio in questi giorni, Bonomi ha presentato il manifesto programmatico degli industriali dal titolo suggestivo “il coraggio del futuro”. È difficile però costruire il futuro attraverso un Patto per il Paese se, però, la Confindustria continua a litigare con le controparti e a non avere un dialogo col Governo. Intendiamoci: non sto dicendo che questa situazione è colpa della Confindustria, dico che soltanto la Confindustria ha la forza di essere soggetto propulsore per ricomporre questa situazione frammentata.

Gli industriali, in questa fase difficile, sono sembrati invece più attenti al loro interesse particolare. Cosa dovevano fare secondo lei?

Dentro le organizzazioni di rappresentanza è sempre molto difficile mediare e fare emergere una linea. Ed è chiaro che, in assenza di una linea, prevale l’interesse particolare. Per questi motivi, è semplicistico dire cosa la Confindustria doveva fare… mi sarei però aspettato, nel momento in cui il contagio iniziava a diffondersi, che gli Industriali dessero un segnale inequivocabile a tutela della salute e della vita dei lavoratori. È quello che hanno fatto alcune grandi imprese: hanno chiuso subito per rendere i loro luoghi di lavoro più sicuri e predisposti per il tracciamento delle persone. Era sufficiente affermare in modo forte che le persone e il lavoro sono la risorsa più importante che abbiamo, e che quindi va tutelata. In quel momento c’è stato il primo cortocircuito forte col sindacato, ci si è messi a litigare sulle attività essenziali per arrivare a quella misura stupida sui codici ateco senza privilegiare, invece, standard di sicurezza dentro i luoghi di lavoro. È anche vero che in quella fase si era dentro il semestre bianco di Boccia e la designazione di Bonomi: resta il fatto che questo segnale non è arrivato e ne sono seguiti momenti di tensione molto forte con i sindacati.

Anche di recente, in particolare sui contratti, sono emerse tensioni forti tra Confindustria e sindacati…

Ecco, anche in questa fase mi è sembrato che non ci fosse la giusta consapevolezza tra le Parti che in questo momento di debolezza della politica non vi è altra possibilità: sono loro che devono supplire a questa mancanza. Bonomi ha più volte parlato di una rivoluzione dei contratti. Al di là del fatto che da anni, ormai, i contratti li scrivono in modo indipendente le federazioni di categoria – le confederazioni fanno sempre più fatica a scrivere le politiche contrattuali in un momento di forte cambiamento dentro i luoghi di lavoro – a me sembra che l’unica cosa da fare in questo momento sia ciò che viene proposto – ancora una volta – dai metalmeccanici, dalla Uilm in particolare: né aumenti, né licenziamenti. In un momento di contrazione così potente per l’economia, ha senso discutere di distribuzione della ricchezza quando abbiamo il problema della sopravvivenza? Inoltre, questa idea che si crea crescita dai contratti mi sembra vecchia come la macchina a vapore. L’unica leva reale per la crescita sono gli investimenti, ciò che manca in questo Paese da quasi 30 anni. E, guarda caso, sono 30 anni che non crescono i salari. Auguriamoci che il Recovery Fund sia occasione per rilanciare davvero la nostra industria.

In questo senso, come potremmo sfruttare al meglio il Recovery Fund?

Prima di tutto, dobbiamo resistere e superare questo autunno difficilissimo, sia sul piano economico che su quello sociale. Nel frattempo, auspichiamo che rapidamente Commissione e Parlamento europeo mettano a punto il Recovery Fund e che si avvii questo processo di sostegno fondamentale agli stati membri. Ciò va nella direzione, anche, di rilanciare le filiere produttive, sia da un punto di vista della loro innovazione tecnologica sia da un punto di vista della loro maggior sostenibilità ambientale. L’Italia è secondo Paese manifatturiero d’Europa e potentemente integrata con la grande piattaforma produttiva tedesca. Questo ci dice che abbiamo una grande opportunità di rilanciare la nostra economia ma che ognuno deve fare la sua parte: la formazione delle persone, le loro competenze, l’innovazione digitale, i nuovi modelli organizzativi, la produzione sostenibile, i nuovi approvvigionamenti energetici… sono tutte voci che costituiscono il Green New Deal europeo che dobbiamo mettere a sistema – in Italia vi sono numerose pratiche avanzate – e che possono essere le fondamenta per il “Patto per l’Italia” di cui parla Bonomi. Bisogna governare non solo la crisi ma, anche e soprattutto, l’innovazione del nostro sistema produttivo e la transizione ecologica ed energetica. Il Recovery Fund serve a questo e le economie avanzate sono concentrate su questi obiettivi. Se non lo fa anche l’Italia, si ritroverà staccata. Con pesanti conseguenze sul piano sociale. Inutile dire che non ce lo possiamo permettere.

“Un’Enciclica dalla forte carica politica contro il populismo del ‘mondo chiuso’ “. Un testo di Giorgio Tonini

Con la pubblicazione di questo testo di Giorgio Tonini, esponente di spicco del cattolicesimo democratico italiano e membro del Consiglio regionale Trentino ed ex Senatore PD, terminiamo il nostro percorso di approfondimento dell’enciclica “Fratelli tutti” di Papa Francesco.

Papa Bergoglio è un gesuita che ha deciso di chiamarsi Francesco. È come se, nell’accettare l’elezione a successore di Pietro, il papa italo-argentino si fosse posto alla confluenza di due grandi filoni spirituali, che hanno attraversato da protagonisti la storia del cattolicesimo e avesse indicato questa inedita sintesi come via per la Chiesa nel nostro tempo. Molto francescana, ma anche molto gesuita, è l’ultima enciclica di papa Bergoglio. Francescana già nel nome: “Fratelli tutti”, citazione dagli Ammonimenti del Santo di Assisi; e proprio ad Assisi Papa Francesco ha voluto firmare l’enciclica, il 4 ottobre, festa del patrono d’Italia. Ma francescano è soprattutto l’approccio ai complessi temi trattati, che vengono posti a confronto col Vangelo, per così dire, “sine glossa”, senza sofisticate mediazioni intellettuali, o sovrastrutture anche teologiche: come il poverello di Assisi, papa Francesco pone il mondo a confronto con la parola di Gesù nella sua nuda radicalità. Fino a rischiare un esito fondamentalista e integralista. Dal quale lo salva l’altra dimensione dell’enciclica: l’utilizzo del metodo gesuita del “discernimento”, che conferisce al testo una curvatura spirituale che lascia alla coscienza personale la responsabilità di tradurlo in azione sociale e politica.

Come ha scritto Luigi Accattoli, “la predicazione sociale del Papa gesuita si presenta più come una provocazione al “discernimento evangelico” che come una “dottrina sociale”… L’approccio dottrinale poteva essere riassunto nelle domande: che dice la Chiesa dei salari, delle cooperative, dello sciopero, della pace, del rapporto tra paesi poveri e ricchi, dell’ecologia? Quello esperienziale pone questioni di comportamento e di scelte innanzitutto soggettive, e poi ovviamente anche comunitarie: che può fare il cristiano in merito alla tratta, alle migrazioni, al commercio di organi, allo sfruttamento sessuale di bambini e bambine, al lavoro schiavizzato, alla prostituzione, al traffico di droghe e di armi, al terrorismo, al crimine internazionale organizzato, alle tentazioni del sovranismo, alla pena di morte? Mira di più alla conversione degli atteggiamenti che ai programmi d’azione”.

Viene alla mente il testo evangelico forse in assoluto più radicale e rivoluzionario: il Magnificat. Maria loda l’Onnipotente perché “ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato i ricchi a mani vuote”. Ma questa radicale trasformazione sociale e politica è stata resa possibile da un evento spirituale: Dio “ha spiegato la potenza del suo braccio e ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore”. È per l’appunto alle menti e ai cuori delle donne e degli uomini del nostro tempo, ai “pensieri del loro cuore”, che si rivolge Francesco col suo annuncio “sine glossa” del Vangelo di Gesù. Che così non viene ridotto ad un programma politico, ma si propone di indurre una “metànoia”, una conversione nel senso letterale di cambiamento di mentalità, capace di generare nuovo pensiero e nuova azione sul terreno sociale e politico.

La parola di Dio posta alla base dell’enciclica è la parabola del Buon Samaritano (Luca 10, 25-37), che papa Francesco ripropone integralmente e commenta in modo analitico. La famosa parabola serve a papa Bergoglio per fare i conti con la questione a suo avviso cruciale del nostro tempo: potremmo definirla la dialettica tra apertura e chiusura, il contrasto tra una visione solidale, inclusiva, dialogica della globalizzazione e una difensiva, diffidente, intollerante. Il sogno francescano di “una fraternità aperta”, contro l’incubo delle “ombre di un mondo chiuso”. Un uomo è aggredito, derubato e lasciato in terra gravemente ferito da una banda di briganti: il male esiste nel mondo perché alberga nel cuore dell’uomo. Davanti alla vittima passano uomini importanti che si voltano dall’altra parte. Il papa nota che sono uomini di religione, perché anche questo tradimento fa parte della storia umana. Finché non sopraggiunge un samaritano, un nemico, un reietto, comunque un diverso, che soccorre l’uomo caduto, lo porta in una locanda e paga per le sue cure. Un uomo qualunque, capace di un gesto disinteressato, che scavalca steccati e ignora pregiudizi, all’insegna della gratuità e della fraternità aperta e universale. Non potrebbe esserci critica più radicale al manicheismo fazioso che oppone “noi” e “gli altri”, “i nostri” ai “nemici”. Che costruisce muri, blinda confini, emargina chiunque appare diverso. E ad un modello di società materialistico, nel quale il valore delle cose è determinato esclusivamente dal prezzo, dal valore di scambio sul mercato e il senso della vita si risolve nella ricerca dell’utile individuale.

Per quanto correttamente indiretta, appare comunque evidente la forte carica politica dell’enciclica. Alla vigilia di un evento come le elezioni presidenziali negli USA, dal quale può dipendere il verso che prenderanno nei prossimi anni le vicende umane globali. La critica del trumpismo non potrebbe essere più netta e definitiva: per il suo populismo liberista, al quale Bergoglio oppone un approccio popolare e democratico, che esalta il lavoro anche come unica via d’uscita dalla povertà senza cadere in nuove dipendenze assistenzialistiche; per le chiusure in materia di immigrazione, fino agli eccessi xenofobi e razzisti, alle quali l’enciclica oppone una strategia fondata su quattro dimensioni: accogliere, proteggere, promuovere e integrare; per la sistematica delegittimazione delle istituzioni multilaterali, a cominciare dall’Onu, che invece papa Francesco difende in nome della pace e contro la guerra, a partire dal primato kantiano del diritto internazionale sui meri rapporti di forza tra potenze sovrane; per l’esaltazione della pena di morte, che invece l’enciclica condanna senza alcuna attenuante.

Saranno i prossimi mesi e forse anni a dirci se la presa di posizione così netta del papa riuscirà a ricomporre la lacerata comunità cattolica americana (e non solo) o se invece dovrà affrontare il calvario di nuove lacerazioni. Forte è infatti la componente dell’episcopato americano che si sente e si dichiara in sintonia con le posizioni del presidente Trump, che enfatizzano, in chiave neo-conservatrice, la centralità politica delle questioni che riguardano la sessualità e la procreazione, a cominciare dalla questione dell’aborto. Papa Francesco non ha modificato la posizione della Chiesa Cattolica su questi temi, ma li ha riproposti all’interno di una corretta ermeneutica evangelica, ossia alla luce del primato della carità. Non si possono quindi usare gli argomenti che riguardano la vita e la sessualità per relativizzare la cogenza della carità e della fraternità universale. Il percorso da fare è semmai quello opposto: è in forza del primato della carità che i cristiani e tutti gli uomini di buona volontà devono opporsi a quella che Bergoglio chiama “la cultura dello scarto”: una degenerazione che non risparmia nulla e nessuno, nemmeno i bambini non nati o gli anziani abbandonati. Con tenerezza e fermezza insieme, i cristiani cattolici, americani e non, insieme a tutti i credenti e a tutti gli uomini “di buona volontà”, sono chiamati dal papa a ritrovarsi attorno a questo francescano Vangelo “sine glossa”, a farne oggetto di “discernimento spirituale” e motivo di speranza per l’umanità.

Dal sito: http://www.nuovi-lavori.it/index.php/sezioni/1874-la-linea-guida-del-discernimento

“L’enciclica ci invita a combattere l’individualismo per realizzare la globalizzazione della fraternità”. Intervista a Padre Bartolomeo Sorge

Proseguiamo il nostro cammino di approfondimento dell’enciclica “Fratelli tutti”. Oggi intervistiamo padre Bartolomeo Sorge, gesuita, ex direttore di “Civiltà Cattolica” e di “Aggiornamenti Sociali”. Due prestigiose riviste della Compagnia di Gesù. Padre Sorge è stato, ed è un protagonista della Chiesa italiana. Grande studioso della Dottrina Sociale della Chiesa, ha pubblicato numerosi libri tra cui un acuto saggio, insieme alla politologa Chiara Tintori, contro il populismo.

«Fratelli tutti», tratta e attualizza il grande tema  francescano, nel senso di Francesco d’Assisi, della fraternità universale. Qual è il rapporto, al di là del nome, tra il poverello d’Assisi e il papa Francesco? Possiamo accennare brevemente  questo rapporto, prima di parlare della Enciclica?

Definirei il rapporto tra il poverello d’Assisi e papa Francesco una sorta di «affinità evangelica». La medesima scelta che entrambi hanno fatto di vivere il Vangelo sine glossa li porta a condividere la stessa mèta della fraternità universale, come l’ha vissuta Gesù. Porta entrambi a seguire e a indicare la via del dialogo per giungervi. Un dialogo, inteso come cammino fatto insieme verso una mèta comune. Quando Papa Francesco parla di «amicizia sociale» o di «ecologia integrale», invitando a ad aprirsi e a dialogare non solo con ogni essere umano, ma anche con il creato, si pone sulla stessa lunghezza d’onda di san Francesco, che chiamava fratelli il sole e il fuoco e sorelle la luna e l’acqua o predicava agli uccelli e rabboniva il lupo di Gubbio. Tra il poverello d’Assisi e Papa Bergoglio c’è una piena sintonia che è espressa non tanto dall’identità del nome Francesco, quanto dall’essere entrambi mossi dalla medesima ispirazione evangelica.

Parliamo dell’Enciclica. Si tratta di una vera e propria Summa del pensiero sociale di Papa Francesco. Quindi c’è una riproposizione, in un quadro più ampio, del suo insegnamento. Però vi sono delle novità. Quali sono secondo lei?

La vera novità è l’enciclica stessa in sé, così com’è strutturata. Essa infatti connette tra loro, quasi tasselli di un unico grande mosaico, i numerosi interventi del Papa sui temi sociali più scottanti, da lui effettuati durante i sette anni di pontificato. Basta vedere, in nota, quante sono le autocitazioni! Perciò, leggendo l’enciclica Fratelli tutti, si ha la sensazione che il Papa abbia voluto comporre e completare una trilogia con altri due interventi precedenti: l’enciclica Laudato si’ e la Dichiarazione sulla fratellanza umana, firmata ad Abu Dhabi. Infatti, tutti e tre i testi mirano insieme allo stesso fine: realizzare la fraternità universale; superare e combattere l’individualismo, per realizzare un’«ecologia integrale» o – come preferisce esprimersi il Papa – per passare dalla «globalizzazione dell’indifferenza» alla «globalizzazione della fraternità».

L’enciclica esce nel tempo di una pandemia devastante. E la interpreta non come un «castigo di Dioۘ» ma la legge come un segnale della natura all’uomo. E’ d’accordo?

Sì, è proprio così! Il volto di Dio, che Cristo rivela nel Vangelo, non è certo quello di un vendicatore o di un giustiziere, ma è quello di un padre infinitamente buono e misericordioso! La pandemia è solo un segnale – molto importante, però – che la natura invia all’uomo. Sarebbe perciò un errore imperdonabile sciupare l’occasione, che la dura prova sofferta oggi ci offre, di rivedere il nostro stile di vita personale e sociale, in modo da superare le disuguaglianze sociali e culturali che la pandemia ha messo maggiormente in luce e che pesano soprattutto sui più poveri. Non possiamo far finta di non vederlo, né voltare il capo da un’altra parte. E’ una sfida che interpella tutti indistintamente, senza eccezioni.

La pandemia, scrive il Papa, ci ha fatto sentire la comune appartenenza alla famiglia umana. «Siamo tutti nella stessa barca», afferma Francesco. Da qui appunto la proposta di un’etica della fraternità universale. Insomma tutti dovremmo sentirci dei «samaritani». È bellissima la riproposizione della figura del «buon samaritano». Quali sono le caratteristiche di questo «samaritano globale»?

Il rifarsi all’esempio del «buon samaritano» è tipico dello stile di Papa Francesco, che rifugge dal fare discorsi teorici astratti, ma preferisce la concretezza della testimonianza. Così, per dimostrare che cosa è e come si realizza la fraternità universale, sceglie di farlo ricordando la lezione che viene dalla parabola del buon samaritano.

Il Papa ne spiega le caratteristiche, soprattutto quando parla della necessità di una «migliore politica», per passare dalla ideologia dell’individualismo, oggi regnante, alla fraternità universale. Affinché la politica sia «migliore», dice in sostanza, ci vogliono «migliori politici», che si comportino come buoni samaritani. Operino, in altre parole, al servizio disinteressato del bene del popolo, con competenza e professionalità, come il samaritano del Vangelo, che versò olio e vino sulle piaghe del malcapitato e gliele fasciò. Di questi politici «buoni samaritani» abbiamo estremo bisogno.

Liberté, egalité, fraternité. È il motto della rivoluzione francese. Per alcuni filosofi laici il Papa, con questa enciclica, ha «sposato l’illuminismo».  E’ d’accordo?

Per altri «filosofi laici», invece, il Papa avrebbe «sposato il marxismo», perché ha fatto la scelta preferenziale dei poveri e continua a difenderla.

In realtà, Papa Francesco non ha sposato né l’illuminismo né il marxismo, ma solo Cristo e il suo Vangelo! Senza per questo negare che talvolta la cultura laica abbia preso coscienza di alcuni valori e di alcuni diritti umani prima della Chiesa, nonostante questa godesse della luce del Vangelo! Penso, per esempio, alla libertà di coscienza, alla libertà di stampa, all’accettazione della democrazia o alla tardiva condanna della mafia, della guerra giusta, della pena di morte… Anche se – è giusto ricordarlo – non sono mai mancate, nel popolo di Dio, voci profetiche (spesso messe a tacere) che hanno anticipato sia la cultura laica, sia il riconoscimento ufficiale della Chiesa.

Nell’enciclica c’è un duro attacco al populismo e al sovranismo (il papa si schiera radicalmente contro chi erige i muri) di ogni latitudine. Ma rimprovera anche la sinistra. Qual è il grande messaggio politico della Enciclica?

Il magistero sociale della Chiesa non si pone nell’ottica della politica politicante, della destra o della sinistra (politica con la p minuscola), ma nell’ottica della «migliore politica», presa in senso universale, culturale ed etico (Politica con la P maiuscola). Ciò spiega come mai nel capitolo V dell’enciclica, dedicato interamente alla politica, il Papa non si rivolga ai cattolici, ma ai politici in generale, di ogni tendenza e ideologia. A essi (cattolici e laici) si rivolge non in quanto appartenenti all’uno o all’altro partito (di destra o di sinistra), ma semplicemente in quanto politici. Tutti ugualmente li esorta ad aprirsi al dialogo e alla collaborazione, a ricercare la «migliore politica». Infatti, per passare dalla globalizzazione dell’indifferenza alla globalizzazione della fraternità, occorre sconfiggere l’individualismo, da cui nascono il populismo e il sovranismo. Questa non è un’utopia irrealizzabile. Che sia possibile l’abbiamo sperimentato durante la terribile pandemia. Ne hanno dato prova i numerosi cittadini che si sono offerti a soccorrere i contagiati dal Covid-19, anche esponendo la propria vita. Ne ha dato prova perfino l’Europa, in occasione del Consiglio Europeo straordinario del luglio scorso, quando, nonostante l’opposizione dei cosiddetti «Paesi frugali» e dei «Paesi di Visegrad», la solidarietà fraterna della stragrande maggioranza dei 27 Stati dell’Unione ha sconfitto il populismo e il sovranismo, varando un programma generoso di aiuti, con un’attenzione speciale verso i Paesi più provati dal Coronavirus.

 

Nella logica della fraternità, l’enciclica si schiera contro il liberismo. E propone una economia diversa. Su questo punto, il papa, non rischia di cadere nell’Utopia?

Nell’insegnamento di papa Francesco centrale è la categoria del «sogno», che è molto diverso dall’utopia. Se ricordo bene, fu Hélder Camara ad affermare che il sogno di uno solo rimane sogno, ma se sono tanti a farlo, esso diventa realtà. E’ quello che fa l’enciclica. Induce a sognare tutti insieme una economia diversa, nella quale non ci si illuda più che i meccanismi di mercato possano risolvere, da soli, ogni problema. Il mercato, certo, è indispensabile, ma non basta. Neppure basta che, insieme al mercato, intervenga lo Stato. Un tavolo con due sole gambe – mercato e Stato – non sta in piedi! Occorre la terza gamba, quella che siamo soliti chiamare «Terzo settore», cioè la partecipazione responsabile e volontaria della comunità, della società civile. Non è un’utopia, ma un sogno che l’enciclica contribuisce a rendere una realtà.

 

Con la Rerum Novarum Leone XIII indusse i cattolici ad impegnarsi per risolvere la questione sociale, quell’enciclica fu un «colpo di tuono» (metafora usata da Bernanos). Attualizzando la metafora: oggi, Fratelli tutti, può ispirare per i cattolici un nuovo programma politico? O almeno, nel pluralismo politico dei cattolici, può essere una fonte di discernimento politico?

Fratelli tutti viene a confermare la svolta che Papa Francesco ha impresso alla dottrina sociale della Chiesa. Leone XIII, con la Rerum Novarum, intendeva salvaguardare dall’insidia di pericolose ideologie, la dignità della persona e i suoi diritti inalienabili. Pio XI e Pio XII si confrontarono con le forme contrapposte di società diverse (socialismo reale e capitalismo), proponendo la «terza via» di una società cristiana. Giovanni XXIII, il Concilio e Paolo VI, ampliarono gli orizzonti della Dottrina Sociale ai confini del mondo intero, denunciando le disuguaglianze tra il Nord ricco e il Sud povero. Con Giovanni Paolo II e papa Ratzinger la questione sociale divenne soprattutto questione antropologica, perché furono messi in discussione temi etici fondamentali, quali l’inizio e la fine della vita, l’indissolubilità del matrimonio, la contraccezione, l’«utero in affitto»,… Con papa Francesco, la dottrina sociale della Chiesa amplia ulteriormente l’orizzonte: guarda non solo ai gravi problemi indotti dai processi di globalizzazione economica, giuridica e politica, ma si apre alla questione ecologica e alla tutela della «casa comune».L’enciclica Fratelli tutti lo conferma.

Ultima domanda: Una battuta su una recente intervista del Cardinale Ruini: per Ruini la Chiesa italiana è in declino. Qual è il suo pensiero?

Stimo il cardinale Ruini, al quale Giovanni Paolo II aveva praticamente affidata la Chiesa italiana, mentre lui – papa gigante! – era tutto occupato a portare il Vangelo in ogni angolo del mondo.

Ho letto l’intervista di Ruini al Corriere della Sera. Come ho già detto in altra occasione, nelle parole e nei giudizi del Cardinale, sento l’eco di una stagione della Chiesa italiana, ormai lontana e che anch’io ho vissuto, ma che oggi non esiste più, sia perché è profondamente cambiato il Paese, sia perché le acquisizioni dottrinali e pastorali del Concilio hanno profondamente cambiato il volto della Chiesa.

“Il papa critica l’ideologia del mercato non l’economia di mercato”. Intervista a Leonardo Becchetti

 

Continua il nostro approfondimento sulla enciclica “Fratelli tutti” di Papa Francesco. Dopo il contributo del teologo brasiliano Leonardo Boff, pubblicato la scorsa settimana, oggi è la volta dell’economista Leonardo Becchetti, professore di Economia Politica all’Università di Roma Tor Vergata. Con lui affrontiamo alcuni temi  economici dell’enciclica.


Professore, la nuova enciclica di Papa Francesco, può essere considerata come la “Summa” del suo pensiero sociale. Molti argomenti erano già stati trattati dal suo magistero in questi anni di pontificato. Ora vengono riproposti nell’ ottica della fraternità universale. La pandemia, infatti, ci ha fatto sentire tutti nella stessa barca. La visione del Papa è globale tocca gli ambiti della politica e dell’economia. Quali spunti innovativi ha tratto per la sua riflessione?

 

Le parti più belle dell’enciclica sono quelle che affrontano il tema della carità politica, della generatività riprendendo ed approfondendo il motto del tempo superiore allo spazio, del ruolo della società civile e del dialogo come strumento per costruire una vera fratellanza universale.

Centrale anche l’attacco ai populismi e la difesa dei diritti dei migranti. Le parole su questo punto sono veramente dure e il sottotitolo “diritti senza frontiere” molto chiaro

Sappiamo quanto l’ enciclica sia dura nei confronti del neoliberismo. Si pone contro il culto del profitto, attirando così critiche ovvero per alcuni la riflessione papale, sul piano economico  rasenta l’utopia. Qual è il suo pensiero? 

Nessuna utopia. Il papa non fa che ripetere quello che è noto ad ogni economista e scritto in ogni manuale di economia. Il profitto preso come assoluto non coincide con il benessere della società o con il bene comune. Gli studenti di primo anno lo studiano da subito approfondendo i problemi dei beni pubblici e delle esternalità negative (i cosiddetti fallimenti del mercato). Il problema è che poi c’è della pessima ideologia e rimasticatura interessata delle teorie economiche che gira. Non a caso il papa, per la seconda volta dopo l’Evangelii Gaudium, se la prende con la pseudoteoria dello sgocciolamento che giustifica la diseguaglianza dicendo che comunque i soldi dei ricchi sgocciolano a valle. Magari bastasse questo a risolvere i problemi che abbiamo. Non avremmo bisogno della politica e dei tanti interventi per ridurre le diseguaglianze che ci sforziamo di porre in atto

 Il contenuto della “Fratelli tutti”  è incompatibile con una sana economia di mercato?

Assolutamente no. In nessuna teoria economica si pensa che il mercato da solo basti. Nessuna Il papa quindi non fa che ribadirlo spiegando che ci vuole l’intervento di una politica illuminata e sottolineando anche quanto è prezioso il ruolo della società civile. Soprattutto in situazioni più critiche dove “Grazie a Dio tante aggregazioni e organizzazioni della società civile aiutano a compensare le debolezze della Comunità internazionale, la sua mancanza di coordinamento in situazioni complesse, la sua carenza di attenzione rispetto a diritti umani fondamentali e a situazioni molto critiche di alcuni gruppi.”

Nell’enciclica non c’è solo la critica al dogma neoliberista c’è anche una critica all’assistenzialismo fine a sé stesso. Questo è un punto molto interessante. È così professore?

Il concetto chiave della dottrina sociale è quello del bene comune. E il bene comune vuol dire creare le condizioni perché sia più facile la realizzazione della persona e la fioritura della vita umana. Gli studi sulla felicità ci dicono che la vita è ricca di senso quando sentiamo di essere utili. Quindi la fioritura della persona non è ricevere un obolo ma essere inserito in una trama di diritti e doveri e poter dare il proprio contributo.
Anche sulla proprietà privata legata alla destinazione universale dei beni, che il papa estende ai Paesi e ai loro territori e alle loro risorse fa  affermazioni significative. Infatti per la enciclica “ogni paese è anche dello straniero, in quanto i beni di un territorio non devono essere negati a una persona bisognosa che provenga da un altro luogo”. Siamo davvero agli antipodi delle destre sovraniste e anche di un certo cattolicesimo americano. È così professore?

 

Questa è sicuramente la parte più dura e più nuova perché è la risposta se vogliamo ad un problema nuovo come quello del sovranismo e del populismo. L’economia non è una torta a somma zero. L’accoglienza e l’incontro tra le differenze può generare più valore. E’ la storia di tanti paesi, inclusi gli Stati Uniti, che hanno tratto linfa e forza da flussi successivi di migrazioni di persone da altri paesi. I sovranisti sembrano dimenticare le lezioni della storia per interessi politici di bottega facendo leva sulle paure e sugli istinti peggiori. Per questo l’intervento del papa è quanto mai opportuno

Ultima domanda: Il papa elogia la “buona politica” necessaria per cambiare e sconfiggere le “ombre di un mondo chiuso”. In questo senso il papa elogia il protagonismo dei movimenti popolari. Vista dalla prospettiva del cattolicesimo italiano quali possono essere le prospettive che apre l’enciclica? 

Torniamo su quel bellissimo passaggio della Fratres Omnes dove si dice: Grazie a Dio tante aggregazioni e organizzazioni della società civile aiutano a compensare le debolezze della Comunità internazionale, la sua mancanza di coordinamento in situazioni complesse, la sua carenza di attenzione rispetto a diritti umani fondamentali e a situazioni molto critiche di alcuni gruppi. Così acquista un’espressione concreta il principio di sussidiarietà, che garantisce la partecipazione e l’azione delle comunità e organizzazioni di livello minore, le quali integrano in modo complementare l’azione dello Stato e dei rappresentanti delle istituzioni.”(175)

In realtà il papa per esperienza personale del suo paese ha un’idea dell’azione della società civile molto caratterizzata dall’azione dei movimenti popolari di protesta. Se posso permettermi la tradizione del nostro paese è enormemente più ricca e articolata. E parte dalla storia di tanti parroci che con i laici di buona volontà hanno costruito nelle canoniche la rete delle banche di credito cooperativo e delle casse rurali, fino al movimento cooperativo che oggi si esprime in forme sempre nuove (cooperative sociali, cooperative di comunità). La sussidiarietà è viva ed è forte ed è un gran bene che il papa vi abbia fatto appello nell’enciclica.

 

“RECOVERY FUND: INDIETRO NON SI TORNA, ECCO PERCHÉ”. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Com’è noto, è scontro aperto tra Parlamento e Consiglio europeo sul negoziato per il bilancio Ue 2021-2027 e il piano Next Generation EU, di cui il Recovery Fund è il principale pilastro. Uno stop che fa aumentare il rischio di uno slittamento di tutto il pacchetto e su cui sempre più probabilmente il prossimo vertice europeo del 15 e 16 ottobre sarà chiamato a intervenire. Al centro della contesa c’è la richiesta del Parlamento di aumentare gli stanziamenti previsti nella proposta di bilancio su ben 15 capitoli di spesa, tra cui i programmi per digitalizzazione e lavoro. Ma anche l’obiettivo di rafforzare il legame tra rispetto delle regole dello stato di diritto ed erogazione dei fondi europei, un tema che tocca direttamente Polonia e Ungheria, Paesi sotto osservazione per le norme con cui, secondo la Commissione, sono stati messi in discussioni alcuni principi democratici fondamentali. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry4.0 ed esperto di politiche europee.

Sabella, cosa sta succedendo in Europa relativamente al rallentamento del piano Next Generation EU?

È un negoziato molto complesso, lo sappiamo dall’inizio. Al Parlamento tocca dare seguito e concretezza all’accordo politico del Consiglio ed è normale che possano esservi delle criticità e delle complicazioni. In un mondo in cui la comunicazione non avesse questo livello di pervasività, ciò non costituirebbe notizia alcuna. Ma lei sa meglio di me non è così, tanto che un simile contrattempo diventa notizia da prima pagina.

Sta dicendo quindi che la trattativa andrà avanti e si concluderà positivamente?

Si, sto dicendo questo. Non credo che il Parlamento europeo possa fermare un accordo raggiunto tra 27 capi di governo e in cui le grandi potenze sono tutte dalla stessa parte (Germania, Francia e Italia). Evidentemente, in questo momento, vi sono ragioni di merito e fisiologiche che comportano un rallentamento dei lavori parlamentari. Certo, nel frattempo la finanza pubblica di molti stati nazionali soffre – come la nostra ad esempio – ma, ahimè, non c’è niente da fare. Sottolineerei piuttosto, ancora una volta, la grande risposta che l’Unione europea sta dando all’emergenza sanitaria ed economica.

Perché, secondo lei, sul Recovery Fund non vi saranno sorprese?

Torniamo per un momento al 19 maggio 2020, quando inizia il negoziato che poi porta all’accordo di luglio. Angela Merkel dice: “Lo Stato nazione non ha futuro, la Germania starà bene solo se l’Europa starà bene”. Può la cancelliera Merkel pronunciare parole di questa pesantezza ed essere smentita dai fatti? Anche in sede di Consiglio, l’accordo è stato molto complesso, ma era chiaro che si sarebbe arrivati lì. Per due ragioni fondamentali. La prima è di natura economica: la necessità di innovare l’industria – in Germania questa esigenza è molto forte – è ciò che ha convinto i tedeschi che è il momento di investire e che, oggi, con le sole politiche di bilancio si rischia di morire sotto i colpi dell’economia cinese e americana. Investire, naturalmente, significa anche creare opportunità per il lavoro in un momento di forte contrazione che si aggiunge a un rallentamento generale in cui soffre, in particolare, l’occupazione. E se a soffrire è l’occupazione, ne risentono a loro volta mercato e consumo. Nell’ottica di rivitalizzare domanda e mercato interno – visto che l’export cala e probabilmente calerà sempre più – oggi non resta che questa strada.

E la seconda ragione a cui alludeva?

La seconda ragione è di natura politica: questa è la grande occasione per far crescere l’integrazione dell’Unione europea. Ed è condizione necessaria per tornare a essere competitivi nei confronti di USA e Cina. Non dimentichiamoci che negli ultimi anni, mentre rallentava il commercio mondiale, USA e Cina continuavano a produrre ricchezza. Dal 2017, invece, Europa e Germania in particolare – che ne è l’epicentro produttivo – interrompevano la loro crescita. Ciò da una parte in ragione del rallentamento degli scambi, dall’altra in conseguenza del calo di competitività dell’industria europea. Ed è questo fattore che ha portato già la Commissione Juncker a condividere il piano Green New Deal che trova oggi sbocco nel Recovery Fund. Non può essere quindi un intoppo di natura parlamentare a fermare questa grande macchina che è in corsa da quasi 3 anni e che è destinata a cambiare l’Unione europea.

In questo momento in Europa vi è una interessante crescita della produzione industriale che ci induce a sperare nella ripresa, anche se resta l’incognita di una seconda ondata pandemica e l’ombra di nuovi lockdown. Come vede, al netto di queste variabili, l’Europa nel mondo post covid?

L’Italia è proprio uno dei Paesi europei in cui la produzione industriale si sta riprendendo meglio. Come lei giustamente richiama, vi è qualche incognita per cui possiamo dire che intanto dobbiamo preoccuparci di lavorare duro per colmare il deficit tecnologico e di competitività che abbiamo nei confronti di USA e Cina. Come sappiamo, negli ultimi 5 anni l’85% degli investimenti in intelligenza artificiale è stato realizzato in aziende americane e cinesi: è ovvio che il gap in innovazione digitale generi poi questo ritardo sui mercati. Per questo, soprattutto, serve il Recovery Fund, oltre che a portare su livelli di maggior sostenibilità le nostre filiere produttive. Le due cose sono tuttavia connesse.

È previsto infatti che il 35% delle risorse del Recovery Fund siano destinate all’evoluzione sostenibile delle produzioni e alla lotta al cambiamento climatico. Perché lei dice che digitale e sostenibilità ambientale sono due aspetti connessi?

Perché il processo di digitalizzazione genera una crescente e progressiva dematerializzazione dell’economia. La digitalizzazione sta rendendo l’industria sempre più indipendente dalle materie prime. Come dice Andrew McAfee, capo ricercatore al MIT di Harvard, il progresso tecnologico ha cambiato pelle: computer, internet e tecnologie digitali ci stanno permettendo di dematerializzare produzioni e prodotti consentendoci di consumare sempre di più attingendo sempre di meno. Dematerializzare significa appunto conseguire una riduzione dell’uso di materie prime nell’economia, aumentando la produttività delle risorse naturali per unità di valore. E il digitale è il nuovo motore che rompe col paradigma dell’era industriale della macchina a vapore e dei suoi discendenti capaci di attingere dai combustibili fossili. Poi c’è tutto il capitolo delle energie alternative, del gas al posto del carbone, dell’auto elettrica e dell’economia circolare. Sono tutte voci previste nel Green Deal europeo col quale l’Europa intende tornare a competere con USA e Cina e raggiungere nel 2050 la carbon neutrality (emissioni zero).

Secondo lei, quindi, l’Europa tornerà tra i grandi del mondo?

Io penso che l’Europa oggi stia facendo un grande lavoro e stia, almeno sulla carta, rispondendo a un processo di involuzione che dura da troppo tempo, dalla crisi del 2008 a cui abbiamo risposto con le sole politiche di bilancio. Oggi, quantomeno, si stanno mettendo delle basi importanti per la ripartenza, non dimentichiamoci che in Europa vi sono ancora livelli di disoccupazione molto alti. E, come dice papa Francesco nella recente enciclica Fratelli Tutti, “in una società realmente progredita, il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale”. Abbiamo bisogno di tornare a investire dopo trent’anni in cui abbiamo fatto gli investimenti più importanti nel mondo asiatico. Questo è oggi programma comune in Europa, l’Unione ha un futuro se tornano a crescere economia e lavoro. Ecco perché il Recovery Fund è irreversibile, al di là dei contrattempi parlamentari e di quella narrazione che piace molto agli antieuropeisti.