“RECOVERY FUND: INDIETRO NON SI TORNA, ECCO PERCHÉ”. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Com’è noto, è scontro aperto tra Parlamento e Consiglio europeo sul negoziato per il bilancio Ue 2021-2027 e il piano Next Generation EU, di cui il Recovery Fund è il principale pilastro. Uno stop che fa aumentare il rischio di uno slittamento di tutto il pacchetto e su cui sempre più probabilmente il prossimo vertice europeo del 15 e 16 ottobre sarà chiamato a intervenire. Al centro della contesa c’è la richiesta del Parlamento di aumentare gli stanziamenti previsti nella proposta di bilancio su ben 15 capitoli di spesa, tra cui i programmi per digitalizzazione e lavoro. Ma anche l’obiettivo di rafforzare il legame tra rispetto delle regole dello stato di diritto ed erogazione dei fondi europei, un tema che tocca direttamente Polonia e Ungheria, Paesi sotto osservazione per le norme con cui, secondo la Commissione, sono stati messi in discussioni alcuni principi democratici fondamentali. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry4.0 ed esperto di politiche europee.

Sabella, cosa sta succedendo in Europa relativamente al rallentamento del piano Next Generation EU?

È un negoziato molto complesso, lo sappiamo dall’inizio. Al Parlamento tocca dare seguito e concretezza all’accordo politico del Consiglio ed è normale che possano esservi delle criticità e delle complicazioni. In un mondo in cui la comunicazione non avesse questo livello di pervasività, ciò non costituirebbe notizia alcuna. Ma lei sa meglio di me non è così, tanto che un simile contrattempo diventa notizia da prima pagina.

Sta dicendo quindi che la trattativa andrà avanti e si concluderà positivamente?

Si, sto dicendo questo. Non credo che il Parlamento europeo possa fermare un accordo raggiunto tra 27 capi di governo e in cui le grandi potenze sono tutte dalla stessa parte (Germania, Francia e Italia). Evidentemente, in questo momento, vi sono ragioni di merito e fisiologiche che comportano un rallentamento dei lavori parlamentari. Certo, nel frattempo la finanza pubblica di molti stati nazionali soffre – come la nostra ad esempio – ma, ahimè, non c’è niente da fare. Sottolineerei piuttosto, ancora una volta, la grande risposta che l’Unione europea sta dando all’emergenza sanitaria ed economica.

Perché, secondo lei, sul Recovery Fund non vi saranno sorprese?

Torniamo per un momento al 19 maggio 2020, quando inizia il negoziato che poi porta all’accordo di luglio. Angela Merkel dice: “Lo Stato nazione non ha futuro, la Germania starà bene solo se l’Europa starà bene”. Può la cancelliera Merkel pronunciare parole di questa pesantezza ed essere smentita dai fatti? Anche in sede di Consiglio, l’accordo è stato molto complesso, ma era chiaro che si sarebbe arrivati lì. Per due ragioni fondamentali. La prima è di natura economica: la necessità di innovare l’industria – in Germania questa esigenza è molto forte – è ciò che ha convinto i tedeschi che è il momento di investire e che, oggi, con le sole politiche di bilancio si rischia di morire sotto i colpi dell’economia cinese e americana. Investire, naturalmente, significa anche creare opportunità per il lavoro in un momento di forte contrazione che si aggiunge a un rallentamento generale in cui soffre, in particolare, l’occupazione. E se a soffrire è l’occupazione, ne risentono a loro volta mercato e consumo. Nell’ottica di rivitalizzare domanda e mercato interno – visto che l’export cala e probabilmente calerà sempre più – oggi non resta che questa strada.

E la seconda ragione a cui alludeva?

La seconda ragione è di natura politica: questa è la grande occasione per far crescere l’integrazione dell’Unione europea. Ed è condizione necessaria per tornare a essere competitivi nei confronti di USA e Cina. Non dimentichiamoci che negli ultimi anni, mentre rallentava il commercio mondiale, USA e Cina continuavano a produrre ricchezza. Dal 2017, invece, Europa e Germania in particolare – che ne è l’epicentro produttivo – interrompevano la loro crescita. Ciò da una parte in ragione del rallentamento degli scambi, dall’altra in conseguenza del calo di competitività dell’industria europea. Ed è questo fattore che ha portato già la Commissione Juncker a condividere il piano Green New Deal che trova oggi sbocco nel Recovery Fund. Non può essere quindi un intoppo di natura parlamentare a fermare questa grande macchina che è in corsa da quasi 3 anni e che è destinata a cambiare l’Unione europea.

In questo momento in Europa vi è una interessante crescita della produzione industriale che ci induce a sperare nella ripresa, anche se resta l’incognita di una seconda ondata pandemica e l’ombra di nuovi lockdown. Come vede, al netto di queste variabili, l’Europa nel mondo post covid?

L’Italia è proprio uno dei Paesi europei in cui la produzione industriale si sta riprendendo meglio. Come lei giustamente richiama, vi è qualche incognita per cui possiamo dire che intanto dobbiamo preoccuparci di lavorare duro per colmare il deficit tecnologico e di competitività che abbiamo nei confronti di USA e Cina. Come sappiamo, negli ultimi 5 anni l’85% degli investimenti in intelligenza artificiale è stato realizzato in aziende americane e cinesi: è ovvio che il gap in innovazione digitale generi poi questo ritardo sui mercati. Per questo, soprattutto, serve il Recovery Fund, oltre che a portare su livelli di maggior sostenibilità le nostre filiere produttive. Le due cose sono tuttavia connesse.

È previsto infatti che il 35% delle risorse del Recovery Fund siano destinate all’evoluzione sostenibile delle produzioni e alla lotta al cambiamento climatico. Perché lei dice che digitale e sostenibilità ambientale sono due aspetti connessi?

Perché il processo di digitalizzazione genera una crescente e progressiva dematerializzazione dell’economia. La digitalizzazione sta rendendo l’industria sempre più indipendente dalle materie prime. Come dice Andrew McAfee, capo ricercatore al MIT di Harvard, il progresso tecnologico ha cambiato pelle: computer, internet e tecnologie digitali ci stanno permettendo di dematerializzare produzioni e prodotti consentendoci di consumare sempre di più attingendo sempre di meno. Dematerializzare significa appunto conseguire una riduzione dell’uso di materie prime nell’economia, aumentando la produttività delle risorse naturali per unità di valore. E il digitale è il nuovo motore che rompe col paradigma dell’era industriale della macchina a vapore e dei suoi discendenti capaci di attingere dai combustibili fossili. Poi c’è tutto il capitolo delle energie alternative, del gas al posto del carbone, dell’auto elettrica e dell’economia circolare. Sono tutte voci previste nel Green Deal europeo col quale l’Europa intende tornare a competere con USA e Cina e raggiungere nel 2050 la carbon neutrality (emissioni zero).

Secondo lei, quindi, l’Europa tornerà tra i grandi del mondo?

Io penso che l’Europa oggi stia facendo un grande lavoro e stia, almeno sulla carta, rispondendo a un processo di involuzione che dura da troppo tempo, dalla crisi del 2008 a cui abbiamo risposto con le sole politiche di bilancio. Oggi, quantomeno, si stanno mettendo delle basi importanti per la ripartenza, non dimentichiamoci che in Europa vi sono ancora livelli di disoccupazione molto alti. E, come dice papa Francesco nella recente enciclica Fratelli Tutti, “in una società realmente progredita, il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale”. Abbiamo bisogno di tornare a investire dopo trent’anni in cui abbiamo fatto gli investimenti più importanti nel mondo asiatico. Questo è oggi programma comune in Europa, l’Unione ha un futuro se tornano a crescere economia e lavoro. Ecco perché il Recovery Fund è irreversibile, al di là dei contrattempi parlamentari e di quella narrazione che piace molto agli antieuropeisti.