LO SVILUPPO SOSTENIBILE DEL PAESE NEL CONTESTO EUROPEO. UN DOCUMENTO DI KOINÉ SUI FONDI EUROPEI PER LA RICOSTRUZIONE

Si avvicina il tempo delle scelte che Governo e Parlamento devono fare sul NEXT GENERATION EU, sul MES e sul SURE. Queste misure ci possono mettere concretamente nelle condizioni di far convivere la gestione della pandemia da Covid 19 e l’avvio di un nuovo sviluppo sostenibile del Paese.

L’Europa ha già definito il campo degli interventi di quei tre strumenti e siamo molto d’accordo che non vadano considerati dei salvadanai dai quali si dà poco o tanto a tutti, senza selettività. Il compito degli Stati è appunto quello di favorire progetti privati e pubblici che alzino la qualità delle produzioni, dei servizi e del lavoro. Con questa iniziativa, vogliamo individuare concreti obiettivi, vere scelte di priorità, decisivi strumenti di gestione trasparente, efficace e rapida di queste enormi risorse e così evitare il rischio di non utilizzare al massimo questa opportunità storica.

Su questo  tema l’Associazione Koiné (che raggruppa intellettuali, sindacalisti ed economisti) ha organizzato un webinar, che si è tenuto nella giornata di ieri,che ha visto la partecipazione di esperti di rilievo. IL seminario, coordinato da Raffaele Morese (Presidente di Koiné), è stato molto partecipato. Molti sono stati gli interventi, ricordiamo quelli di : P.P. Baretta (Sottosegretario MEF), R. Prodi* (già Presidente Commissione Europea),  P. Albini (Confindustria), E. Amiconi (Fondaca), P.P. Bombardieri (UIL), E. Cipolletta (Assonime), V. Colla (Regione Emilia Romagna), S. Cofferati (Sinistra Italiana), C. De Vincenti (Merita), G. Legnini (Commissario Aree Terremotate Centro Italia), M. Messori, T. Nannicini (PD), L. Sbarra (CISL), T. Scacchetti (CGIL), G. Vacca. .

Di seguito pubblichiamo il testo con le proposte programmatiche di Koiné.

 

 Dopo il referendum sul taglio dei parlamentari e le elezioni in 7 Regioni e in molti Comuni, l’attenzione degli italiani è tutta concentrata sulla nuova emergenza sanitaria. Ma nello stesso tempo si avvicina il tempo delle scelte che Governo e Parlamento devono fare sul NEXT GENERATION EU, sul MES e sul SURE che si aggiungono ai Fondi Strutturali (35 MD non ancora spesi). Queste misure ci possono mettere concretamente nelle condizioni di far convivere la gestione della pandemia da Covid 19 e l’avvio di un nuovo sviluppo del Paese. Esso non deve essere caratterizzato dall’assistenzialismo. Ma va finalizzato sia a trasformare in meglio quantità e qualità delle produzioni, dei servizi e del lavoro, sia a ridurre sul serio il divario socio-economico tra Nord e Sud.

L’Europa ha già definito il campo degli interventi di quei tre strumenti e siamo molto d’accordo che non vadano considerati dei salvadanai dai quali si dà poco o tanto a tutti, senza selettività. Il compito degli Stati è appunto quello di definire priorità nei confini prefissati a scala europea. Questi non possono essere sottoposti a revisione periodica, a ritardi operativi ma neanche condizionati a scapito del rispetto dei diritti umani e democratici che sono a fondamento della costruzione dell’Unione europea.

Ci giochiamo il presente e il futuro dell’Italia, mettendo alla prova la sua classe dirigente politica, economica e sociale. Al di là della drammaticità pandemica, che va gestita con sempre maggiore competenza e tenacia, gli italiani ora vogliono che, con la stessa capacità, se non meglio, si guardi con lungimiranza allo sviluppo e non ci si limiti alla mera sopravvivenza dell’esistente e al sovranismo dell’autarchia.

Di conseguenza, individuiamo 4 obiettivi:

  • Rimanere agganciati all’Europa per rifondarla come entità politica sovrana, capace di federare Stati che possono mantenere la propria identità senza metterla continuamente in contrapposizione con la scelta europeista di fondo.
  • Stabilire per legge che le risorse europee relative ai tre strumenti siano destinate per i 2/3 dell’intero ammontare alle attività produttive, alle grandi infrastrutture ecosostenibili e al Mezzogiorno.
  • Favorire la compartecipazione delle aziende italiane alla creazione di campioni tecnologici europei, in grado di competere alla pari con altre potenze industriali nel mondo globalizzato.
  • Assicurare l’equilibrio tra innovazione tecnologica, tutela ambientale, efficienza organizzativa e impatto di genere, alta qualificazione degli occupati e riduzione del divario Nord/Sud.

Inoltre, proponiamo 7 scelte di priorità:

  1. a) – la ricerca di base, per consentire la compartecipazione sempre più estesa a scala europea dei nostri centri di ricerca pubblica, procedendo anche ad una razionalizzazione e unificazione degli enti esistenti, in una unica Agenzia Strategica. Senza ricerca di base, non si fanno neanche ricerche applicate pubbliche e private, per cui diventa sempre più debole il contributo che i ricercatori italiani possono dare al sistema produttivo e urbano e quindi costretti ad andare all’estero.
  2. b) – l’ecosostenibilità, per la messa in produzione dell’energia a idrogeno e per abbattere completamente le emissioni di CO2 con priorità agli impianti produttivi e strutture territoriali energivori (climatizzazione calda e fredda, mobilità sui grandi percorsi e urbana, agricoltura e zootecnia). A questo scopo, va estesa la normativa dello sgravio del costo complessivo dell’investimento del 110% ai progetti pubblici e privati, capaci di produrre effettivi risultati entro i prossimi 10 anni.
  3. c) – la digitalizzazione, con la costituzione della Rete Unica Pubblica, estesa a tutto il territorio nazionale, attraverso la quale realizzare in via prioritaria una unificazione accelerata delle piattaforme digitali della Pubblica Amministrazione centrale e periferica in modo che si accresca la trasparenza (anche per combattere meglio mafie e criminalità), si abbatta l’evasione fiscale in modo significativo e possano dialogare velocemente assicurando ai cittadini un vero sportello unico; ovviamente, va messo in campo un ampio programma di alfabetizzazione dei cittadini e dei lavoratori per familiarizzare con i nuovi linguaggi.
  4. d) – l’innovazione tecnologica, con la modulazione dei finanziamenti tecnologici e organizzativi, già impostati con Industria 4.0, in relazione agli effetti sull’occupazione diretta e indotta dei progetti presentati; qualora questi prevedessero il ricorso ai contratti di solidarietà attivi e passivi, vanno destinati contributi aggiuntivi.

e)- la riqualificazione professionale di eventuali esuberi occupazionali non riassorbibili dalle aziende, assicurando anche agli adulti in età avanzata il ricorso alla formazione professionale e in ogni caso la tutela reddituale a ciascun lavoratore fino a nuovo lavoro acquisito, con una trasformazione del SURE in un programma di medio periodo.

f)- le infrastrutture materiali che rappresentano un investimento insostituibile a tutti i livelli istituzionali, specie per quanto riguarda sia la messa in sicurezza del territorio a partire dalle aree terremotate e dal sistema delle acque, sia l’adeguamento delle strutture scolastiche per assicurare a tutti gli studenti parità di condizioni nell’apprendimento.

  1. g) – la sanità, per la quale la dotazione per l’Italia, già predefinita dalla Commissione Europea con il MES, va utilizzata appieno e redistribuita alle Regioni per investimenti strutturali in tecnologie avanzate, in ambienti adeguati, in risorse umane sempre più qualificate.

Infine, indichiamo 3 modalità di gestione delle risorse:

1 – l’istituzione di un Alto Commissariato che, per tutta la durata del NEXT GENERATION, del MES e del SURE consenta una gestione trasparente, rapida e coordinata – sulla base delle direttive del Presidente del Consiglio e del Ministro dell’economia – dei progetti presentati, accolti e validati anche dalla Commissione Europea, al fine di realizzarli nei tempi e nei modi convenuti.

2 – la costituzione di una Agenzia Nazionale o la ridefinizione della missione dell’ANPAL per la realizzazione della mobilità da posto di lavoro a posto di lavoro degli adulti esuberanti come da punto e.

3 – tutti i progetti presentati per ottenere i finanziamenti europei devono essere corredati da un parere motivato delle OO.SS. maggiormente rappresentative dei lavoratori interessati.

 

Koiné ritiene che la concretizzazione di questi 14 punti possono contribuire a caratterizzare la qualità dello sviluppo futuro del nostro Paese, a far uscire dal tatticismo la discussione pubblica, a mantenerci in sintonia con quanto si sta ipotizzando da parte degli altri Paesi europei.

09/11/2020

Pecorelli continua a far paura. Intervista a Raffaella Fanelli

Le indagini sull’omicidio di Mino Pecorelli, riaperte nel febbraio del 2019 dopo l’inchiesta giornalistica di Raffaella Fanelli, sono ancora in corso. E mentre la Procura di Roma indaga, la giornalista mette in fila nel suo libro “La Strage Continua”, edito da Ponte alle Grazie, elementi inediti che fanno emergere, attraverso fonti archivistiche, fonti giudiziarie e testimonianze esclusive, una pista nuova, mai battuta. Tanto che l’avvocato Giulio Vasaturo, legale della Federazione Nazionale della Stampa, costituita parte offesa accanto ai familiari di Mino Pecorelli, ha chiesto l’acquisizione del libro di Raffaella agli atti dell’inchiesta.
La sensazione che si avverte, in tutte le pagine de “La Strage Continua”, è quella di essere davanti all’assassino di Mino Pecorelli. Una sensazione accentuata dal fatto che quello che dovrebbe essere un saggio in realtà è un libro di inchiesta scritto come un romanzo giallo dove, a raccontare il misterioso cold case, sono due giornalisti, due voci che si incrociano in uno studio radiofonico, in tempi di coronavirus. Due personaggi reali come le indagini e i depistaggi riportati nel libro.
“L’ultimo risale a poche settimane fa – denuncia la Fanelli – Un insospettabile ha avvicinato il legale della famiglia Pecorelli nel tentativo di riportare l’inchiesta indietro di 40 anni. Su una pista battuta e archiviata nei primi anni ’90 e che indicava in William Aricò il killer del giornalista. Un killer già defunto, condannato per aver ucciso con tre colpi di pistola l’avvocato Giorgio Ambrosoli, il liquidatore delle banche di Michele Sindona. Le indagini condotte da Gherardo Colombo, all’epoca giudice istruttore, dimostrarono che le accuse arrivate ad Aricò da una relazione dei servizi americani, erano infondate: Aricò e il suo picciotto Rocco Messina non erano in Italia il 20 marzo del 1979 quando fu ucciso Mino Pecorelli. Ora c’è da chiedersi il perché arrivi questa assurda testimonianza proprio oggi che l’inchiesta è stata riaperta. Un’inchiesta che porta a personaggi ancora vivi e vegeti. A proposito di questa relazione dei servizi americani si potrebbero ricordare le minacce di Kissinger a Moro o, ancora prima, la misteriosa telefonata che bloccò il golpe Borghese fino alla strana presenza di Steve Pieczenik nel comitato di esperti chiamati a “gestire” l’emergenza scaturita proprio a seguito del sequestro dell’onorevole Aldo Moro… D’altronde anche Sindona e Aricò sono morti in strane circostanze: il primo si sarebbe suicidato bevendo un caffè al cianuro l’altro sarebbe precipitato nel vuoto nel tentativo di evadere dal Metropolitan Correctional Center di Manhattan insieme a un trafficante colombiano di cocaina. A dispetto di questo insospettabile militare che è già intervenuto in altre inchieste, resto convinta che il killer di Pecorelli non vada cercato sottoterra, men che meno all’estero – dove credo ci sia ben altro – ma in casa nostra. In un Paese che proprio in quel ventennio di stragi e omicidi avrebbe potuto costruire un presente diverso.

Chi ti ha portato sulla strada di Mino Pecorelli?  Un personaggio molto complesso…
A portarmi sulla strada di Mino Pecorelli sono state le dichiarazioni, forti e spiazzanti, di Maurizio Abbatino sul caso Moro. L’ex boss della banda della Magliana, durante una lunga intervista, mi ha parlato di una richiesta arrivata dall’onorevole Flaminio Piccoli: rintracciare il covo dove le Brigate Rosse tenevano prigioniero Aldo Moro. Un’informazione che, stando alle dichiarazioni di Abbatino, fu riportata allo stesso Piccoli pochi giorni dopo, durante un incontro sul lungotevere, nei pressi di Ponte Marconi. Difficile immaginare l’onorevole accanto ai due boss fondatori della banda, Maurizio Abbatino e Franco Giuseppucci. Difficile pensare che i due criminali avrebbero potuto, con i loro uomini, liberare Moro. Nella frenetica ricerca di riscontri, fra faldoni ricchi di documenti e informazioni ho ritrovato un verbale di interrogatorio di Vincenzo Vinciguerra, neofascista di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. Era infilato in uno dei tanti fascicoli intestati al sequestro e all’omicidio dell’onorevole Aldo Moro. In cima a quel verbale c’era il nome di Mino Pecorelli.

Cosa riportava esattamente quel verbale?
Riportava le dichiarazioni di Adriano Tilgher, fondatore con Stefano Delle Chiaie di Avanguardia Nazionale, su un presunto ricatto di Domenico Magnetta, altro avanguardista che, stando al verbale di Vinciguerra, avrebbe detenuto le armi del gruppo, inclusa la pistola usata per uccidere il giornalista Mino Pecorelli. Magnetta che è poi la persona arrestata con Massimo Carminati nel 1981 avrebbe ricattato i vertici di Avanguardia perché lo aiutassero ad uscire dal carcere. In caso contrario avrebbe tirato fuori la pistola usata per uccidere Pecorelli. Il verbale è del 27 marzo 1992 e ad interrogare Vinciguerra, all’epoca detenuto nel carcere di Parma, è il giudice Guido Salvini.   I fatti raccontati si riferiscono a dieci anni prima, al novembre del 1982. Tutti gli elementi e le date riportate da Vinciguerra in quel verbale corrispondono: Vinciguerra era detenuto nella stessa cella di Adriano Tilgher. Erano amici, camerati, si conoscevano da anni. Quindi ci sta che Tilgher parlasse del “problema Magnetta” con Vinciguerra. E’ importante dire che tutte le dichiarazioni di Vinciguerra sono state corroborate dalle indagini del giudice Guido Salvini. Che Vinciguerra non è un collaboratore di giustizia e che non ha mai cercato sconti di pena. Mai benefici. Vinciguerra non ha mai mentito.

Il titolo del libro è la chiave di lettura del tuo lavoro, lo riprenderemo alla fine. A chi ti sei ispirata?
A una copertina abbozzata e mai pubblicata rinvenuta nell’auto di Mino Pecorelli la notte del 20 marzo 1979, poche ore dopo l’omicidio. Un foglio con appunti riportati a matita e con uno strillo centrale che Pecorelli avrebbe utilizzato: “La strage continua”. Perché di stragi stava scrivendo e sulle stragi stava investigando.

Veniamo al contenuto del libro. Tu scrivi: “Per parlare di lui non si può non parlare del nostro Paese, perché la biografia del giornalista è in qualche modo la biografia dell’Italia del ventennio 1960-1980”. Un’Italia devastata dalla strategia della tensione. E fra le tante cose inedite presenti nelle tue pagine ci sono le interviste a protagonisti di quegli anni, da Franco Freda a Gianadelio Maletti. Cosa ti hanno raccontato?
A Franco Freda ho chiesto degli incontri che Giovanni Ventura ha avuto con Mino Pecorelli a fine 1978, poco prima della sua evasione e pochi mesi prima di quel 20 marzo… A Gianadelio Maletti, invece, ho chiesto di Piazza Fontana, del Golpe Borghese e di Licio Gelli. Ma ci sono anche le risposte dell’assicuratore calabrese Vincenzo Cafari, dello stesso Tilgher, di Domenico Magnetta e di Vincenzo Vinciguerra, oltre che di Antonio Ugolini, il perito che denuncia la manomissione dei reperti del caso Pecorelli. Nel libro manca la testimonianza del generale Pasquale Notarnicola che ho raccolto solo di recente.

Pasquale Notarnicola è stato direttore della prima divisione del Sismi, e ha testimoniato nel processo per la strage di Bologna …
Esattamente. Il generale non ha escluso il coinvolgimento di uomini dei servizi nell’omicidio del giornalista, e ha ricordato che poco prima di quel 20 marzo iniziarono a seguirlo. A spiarlo, a controllarlo anche telefonicamente. Tanto che andò nell’ufficio di Giuseppe Santovito minacciando denunce. La sera dell’omicidio Pecorelli, con sospetta tempestività, fu avvisato del delitto. La telefonata arrivò sull’utenza privata del generale e fu fatta da un ufficiale responsabile di “osservare i fatti del Medioriente”. Il generale Notarnicola ha dichiarato che nei mesi successivi fu sempre più emarginato e che tale restò fino alla vigilia della strage di Bologna.

Chi era Mino Pecorelli? Condividi che era un “ribelle di Palazzo” (definizione di Aldo Giannuli)?
Era un ribelle, indubbiamente. Ho scoperto tanto della sua vita parlando con i figli, Andrea e Stefano, e con Rosita Pecorelli, la sorella del giornalista. Durante la seconda guerra mondiale ha combattuto nell’armata polacca che ha contribuito alla liberazione dell’Italia dai nazifascisti. Mino Pecorelli aveva solo 17 anni quando raggiunse le truppe del generale Wladyslaw Anders e fu arruolato nella compagnia Hastoio, il plotone schierato in prima linea nella terribile battaglia di Monte Cassino. Fu decorato con la croce di ferro, la massima onorificenza polacca. Avvocato specializzato in diritto fallimentare lasciò la toga per l’ufficio stampa di Egidio Carenini, all’epoca vicesegretario amministrativo della Democrazia Cristiana. E nel partito strinse rapporti e amicizie, finché non diventò addetto stampa di Fiorentino Sullo, ministro per le Regioni nei governi Moro. Perché Pecorelli non fu mai fascista né mai comunista, ma un democristiano puro, profondamente radicato in una Dc che doveva tener conto di tante personalità, di troppi equilibri e di infiniti legami. Democristiano fu Pecorelli e democristiano fu il settimanale Op, il suo Osservatore Politico.

Pecorelli, con le sue inchieste, come abbiamo visto, ha messo a nudo i torbidi intrecci del potere. Era consapevole dei pericoli che correva la sua vita? Perché non chiese una scorta?
Era consapevole dei rischi, stando ai ricordi di chi lavorava con lui e della sorella Rosita. Eppure ha continuato a scrivere e a denunciare: nei vari archivi ho raccolto i numeri di Op, la grafica non sarà stata delle migliori ma i contenuti erano davvero inquietanti, non so quanti giornalisti oggi avrebbero il coraggio di pubblicare le sue inchieste. Forse avrebbe potuto avere una scorta, di certo avrebbe meritato quella “scorta mediatica” che oggi viene garantita ai colleghi minacciati. Ma quello scudo per Pecorelli non c’è mai stato: la sua penna è stata infangata anche da noti giornalisti e l’infamante nomea di ricattatore gli è rimasta attaccata per anni, dopo la sua morte, nonostante il Tribunale di Perugia nella sentenza di primo grado, emessa in data 24 settembre 1999, abbia messo nero su bianco che “Pecorelli le notizie le pubblicava. Mentre la forza del ricattatore è quella di minacciare la pubblicazione di una notizia per poi venderla ai diretti interessati e non al pubblico”.

Hai definito Pecorelli un democristiano, oserei dire molto anomalo. Quali erano i suoi rapporti con Giulio Andreotti?
Era un democristiano e criticava i leader della Dc. E’ stato accusato di essere un giornalista di destra. Eppure nei suoi articoli attaccava personaggi della destra. Perché in realtà era solo un giornalista. Non era nient’altro che uno scomodo giornalista.
Giulio Andreotti nel suo diario annotò: “è stato assassinato a Roma il giornalista Mino Pecorelli”. Il 25 marzo, cinque giorni dopo, invece annoterà: “Ceccherini mi informa che Barbieri dice che fanno correre la voce che esistano assegni miei a Giannettini e che Pecorelli li stava pubblicando. Un secondo caso Giuffré? Da altro giornalista ha sentito che Pecorelli e un ufficiale del Sid erano andati a suo tempo a mettere a Milano microspie nell’edificio dove abita l’ingegner Valerio: ora è in corso il processo per le bobine scomparse e qualcuno temeva che Pecorelli parlasse”.
Le bobine erano quelle del Golpe Borghese, consegnate da Antonio La Bruna al giudice Guido Salvini dodici anni dopo l’omicidio Pecorelli. Di quelle bobine che dimostravano il coinvolgimento di Avanguardia nazionale e di Licio Gelli al golpe, Pecorelli aveva le trascrizioni.

Veniamo alla sua attività di giornalista. Quando nasce OP?
Dopo un anno di lavoro presso il settimanale politico Mondo d’Oggi, il 22 ottobre 1968, Mino Pecorelli registrò presso il tribunale di Roma l’agenzia di stampa Osservatore politico Internazionale. L’agenzia diventò poi mensile e infine, nel 1978, un settimanale. L’Italia di quegli anni era l’Italia degli omicidi politici e delle inchieste insabbiate, degli scandali che scoppiavano a “orologeria” oppure, come nel caso Lockheed, degli avvertimenti che arrivavano da oltreoceano. Con il suo Op, Mino Pecorelli s’inserì in questa guerriglia sotterranea, e non per raccontare il costume degli italiani ma per denunciare la loro corruzione.

Quali sono stati i principali scoop di Pecorelli?
La prima grande esclusiva è del 19 novembre 1967. Pecorelli scrive un articolo per Nuovo Mondo d’Oggi intitolato “Dovrei uccidere Aldo Moro”, dove riporta le confessioni del tenente colonnello Roberto Podestà (paracadutista ex ufficiale del SIM, Servizio Informazioni militare) su un omicidio commissionato dal capo di un partito politico oggi scomparso, e l’omicidio era appunto quello di Aldo Moro. Un omicidio “necessario per riportare l’ordine in Italia”. Su Nuovo Mondo d’Oggi, Pecorelli scrisse fino all’ottobre del 1968, fino alla sua preannunciata inchiesta sull’università domenicana Pro Deo – diretta da padre Felix Morlion, ex agente dell’Oss, Office of strategic services, il servizio segreto americano che precede la Cia – “Affari, sesso, devozione”, questo era il titolo dell’inchiesta che Pecorelli non riuscì a pubblicare. In redazione arrivarono i carabinieri e tutto fu sequestrato. Sulle pagine di Op furono tantissimi gli scoop: nel 1977 iniziò a scrivere della “lista dei 500” evasori che avrebbero esportato capitali dall’Italia attraverso la Finbank di Michele Sindona, poi pubblicò il famoso dossier Mi.Fo.Biali denunciando un ingente traffico petrolifero con Libia e Malta, con un’altrettanta cospicua frode fiscale ai danni dello Stato italiano. L’inchiesta provocò uno scandalo che travolse i vertici della guardia di finanza, generali e petrolieri. Diffuso a puntate su Op con il titolo “Petrolio e manette”, dal dossier emersero le plateali responsabilità del comandante della Guardia di Finanza Raffaele Giudice, del petroliere Attilio Monti e del Venerabile maestro Licio Gelli. Inquietanti furono i suoi riferimenti al Noto Servizio in articoli del 1977 che ricostruivano la vicenda delle trattative segrete tra Italia e Libia per la fornitura di ingenti partite di armi da parte italiana alla Libia e la fornitura di petrolio libico all’Eni con tangenti miliardarie incrociate. Per ben tre volte, rivelando le pressioni esercitate sull’allora presidente dell’Eni, Raffaele Girotti, Pecorelli fa riferimento all’intervento di un Noto Servizio. Due parole scritte fra virgolette, quindi non generiche, ma usate per indicare il nome di un’istituzione, nota, è evidente, anche ai vertici dell’Eni. Pecorelli fu anche il primo a rivelare l’esistenza di una loggia massonica in Vaticano: furono 121 gli illustri prelati e cardinali che finirono sulle pagine di Op, con tanto di data di iniziazione e numero di matricola. Nel nutrito elenco di religiosi figuravano anche Agostino Casaroli, Ugo Poletti, Piero Vergari e Paul Marcinkus. Mino Pecorelli scrisse dello scandalo Lockheed e dello strano suicidio del colonnello Renzo Rocca. Scrisse di Roberto Calvi e del Banco Ambrosiano. Un intreccio d’inchieste e di notizie che alla fine riportavano sempre alle stesse complicità. Agli stessi interessi.

Pecorelli faceva paura per quello che aveva intuito e scoperto: il filo nero che lega gli episodi di sovversione dello stato democratico ovvero La strage continua, per citare il titolo del tuo libro, da piazza Fontana fino all’omicidio Moro. Sappiamo che quel filo arriverà fino alla strage di Bologna. Dunque i mandanti, o mandante, dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli vanno cercati nel cuore del “doppio stato” e del suo regista: la P2 e Licio Gelli. Ma di chi è la mano armata che lo uccise?
E’ una domanda che ho fatto ad Adriano Tilgher e a Domenico Magnetta. Il fondatore di Avanguardia Nazionale ha sempre detto di non sapere niente, non sapeva neanche che il padre era iscritto alla P2, non sapeva che Stefano Delle Chiaie era in Italia durante il Golpe Borghese e non ha mai sentito nominare Paolo Bellini, l’avanguardista rinviato a giudizio per aver partecipato alla strage di Bologna. Mimmo Magnetta invece la memoria non l’ha persa. Gli amici li ricorda.

Siamo alla fine della nostra conversazione. Adesso la parola passa alla Magistratura. A che punto siamo? 
La perizia sui reperti è stata affidata alla polizia scientifica di Perugia mentre è il magistrato Erminio Amelio della procura di Roma a condurre le indagini, uno dei pochi allenato ai casi irrisolti e difficili, in passato si è occupato della strage di Ustica, dell’omicidio di Massimo D’Antona, dell’omicidio di Nicola Calipari, insomma non so a che punto siamo ma di certo siamo in buone mani.

“Il liquido amniotico del filantropocapitalismo è la diseguaglianza". Intervista a Nicoletta Dentico

Con le loro fondazioni dominano il mondo. Sempre più potenti sono le
fondazioni dei moderni “filantropi”, ma sarebbe meglio definirli
“filantropicapitalisti”. I loro nomi? Sono i soliti Gates,
Tuner, Zuckeberg. Senza dimenticare i Rockefeller. Il “turbocapitalismo”
trova, così, altri spazi di dominio. Ma quali sono i nuovi ambiti in cui
esercitano il loro potere di influenza politico e sociale? Ne parliamo con
Nicoletta Dentico, giornalista d’inchiesta, autrice di un saggio, molto
documentato, appena uscito in libreria: “Ricchi e buoni? Le trame oscure del
filantrocapitalismo” (Editrice Emi, pagg. 288, Euro 20). Nicoletta Dentico, è
esperta di cooperazione internazionale e diritti umani. Ha coordinato in Italia
la Campagna per la messa al bando delle mine vincitrice del Premio Nobel
per la Pace nel 1997, e diretto in Italia Medici Senza Frontiere con un ruolo
importante nel lancio della Campagna per l’Accesso ai Farmaci Essenziali.
Cofondatrice dell’Osservatorio Italiano sulla Salute Globale (Oisg), ha
lavorato a Ginevra per Drugs for Neglected Diseases Initiative, e poi per
l’Organizzazione mondiale della sanità. Dal 2013 al 2019 è stata consigliera
di amministrazione di Banca Popolare Etica e vicepresidente della
Fondazione Finanza Etica. Dirige il programma di salute globale di Society for
International Development (Sid).

Nicoletta, è davvero molto interessante il tuo libro. È una autentica
radiografia del turbocapitalismo contemporaneo. Infatti sotto la
“filantropia” c’ è un preciso disegno economico-culturale e quindi
anche politico… È così?
Distinguerei fra filantropia tout court e filantrocapitalismo, che è la fattispecie
di strategia filantropica che il mio libro vuole illuminare. Che cos’è, il
filantrocapitalismo?  E’ un modello operativo con cui i ricchi imprenditori del
mondo industrializzato riescono a intrecciare la loro azione imprenditoriale
con la azione umanitaria, ovvero l’ideazione di “un’azione del bene” – diciamo
così – che serve in buona sostanza ad oliare gli ingranaggi delle imprese,
industrie multinazionali perlopiù, per favorire la loro progressiva penetrazione
e influenza nei luoghi delle decisioni politiche, a livello internazionale.  Nella
logica del filantrocapitalismo scompare il discrimine tra mondo profit e mondo
non profit, anzi la lotta alla povertà diventa un approccio nuovo ed efficace ad
assicurare la massimizzazione del profitto. I ricchi filantrocapitalisti sono
convinti infatti che il mercato sia la sola soluzione alle sfide del pianeta e alle
esigenze di miglioramento sociale che riguardano gran parte della
popolazione mondiale. Da vincitori della globalizzazione, in un ordine
economico che divide il mondo sempre di più tra sommersi e salvati, i ricchi
filantropi  si sono messi a gestire anche i poveri con traiettorie che quasi mai intaccano, anzi talvolta persino rafforzano, le dinamiche di ingiustizia che
governano il mondo. Ma il potere dei loro soldi ha una capacità di seduzione
senza pari, anche nei confronti della politica.

Vediamo le origini del fenomeno. Lo sappiamo che in sé la “filantropia”
esprime “amore per l’umanità”. Ma è nel contesto americano drlla fine
dell’ottocento e i primi del novecento, con Carnegie e Rockefellerr, che
la filantropia esegue la sua mutazione “genetica” : diventa “amore”
calcolato. Come si sviluppa la loro “filantropia”?
La consuetudine del “dono” come meccanismo sociale di relazioni  risale agli
albori della storia umana, come ci ha spiegato il sociologo francese Marcel
Mauss, ed è una azione sociale che investe molti ambiti della vita, da quella
affettiva e religiosa a quella economica. La nascita invece della filantropia
organizzata, delle prime fondazioni che strutturano e professionalizzano la
beneficienza risale alla prima industrializzazione in America, che coincide con
la costruzione di una nazione dalla natura profondamente oligarchica. Il
nuovo capitalismo industriale della fine dell’800 favorisce il repentino sviluppo
di  grandi fortune legate alla costruzione di ferrovie e strade, alle estrazioni
petrolifere, alla nascita dell’industria dell’acciaio. I Rockefeller e i Carnergie –
pur nella differenza delle loro storie – sono i due grandi plutocrati apripista.
Arricchitisi grazie ai loro monopoli industriali – nel settore del petrolio
(Standard Oil) e dell’acciaio (Carnegie Steel Company) rispettivamente – i
due tycoon decisero di mettere in campo una parte delle loro fortune per
compensare la immagine di imprenditori senza scrupoli, ma soprattutto  per
neutralizzare le spinte di rinnovamento sociale che premevano da parte delle
classi sociali sfruttate e poco pagate. Insomma, una forma nuova di
bipolarismo tra capitalismo sfrenato alla ricerca di profitti, e paternalistica
beneficienza con il denaro spietatamente ammassato. Il Vangelo della
Ricchezza, il libro di Carnegie del 1889 che spiega questa strategia, è un vero capolavoro in questo senso, e servirebbe anche per capire i filantropi più moderni.

Tornando al filantropocapitalismo tu affermi che alla base c’è
l’ottimismo del win-win. Cosa vuol dire?
L’ottimismo del win-win (vincono tutti, per intendersi) deriva dalla convinzione
che il metodo imprenditoriale sia il miglior veicolo del miglioramento umano.
Con le erogazioni e soprattutto gli investimenti a favore dei poveri, è possibile
per le fondazioni filantropiche far approdare le loro imprese di riferimento in
paesi comunque non ancora colonizzati e dunque promettenti, grazie a molte
facilitazioni fiscali, o addirittura con fondi pubblici quando si tratta di
programmi internazionali di sviluppo. Vincono i poveri, e vincono i ricchi. La
logica win-win è semplice: se i poveri vengono trasformati in consumatori ,
non saranno più emarginati, perché alla fine anche loro staranno sul mercato.
E da clienti possono riconquistarsi la loro dignità.

Una delle frasi più importanti del tuo libro è : “la diseguaglianza è il
liquido amniotico del filantropocapitalismo”. Questa, secondo me, è la
chiave di lettura di tutto il libro. Alla fine l’opera del
filantropocapitalismo è la perpetuazione delle grandi differenze sociali.
È così?
Certo. Questa forma di filantropia strategica, e vorrei dire egemonica, è al
tempo stesso un effetto della deregolamentazione dell’economia e delle
finanza, e quindi un sintomo di un sistema capitalistico generalmente inadatto
e indisponibile a redistribuire le ricchezze da un lato. Ma è anche una
garanzia di mantenimento del potere finanziario, in un campo di gioco senza
regole. Sappiamo che i soldi parlano. Sappiamo che la concentrazione di
ricchezza nelle mani di pochissime persone – un fenomeno che ha raggiunto
livelli mai visti prima nella storia – implica la affermazione di un potere che è
in grado di soppiantare anche la sfera politica. Inoltre non dimentichiamo che la azione filantropica, soprattutto quando si parla di grandi fondazioni
miliardarie, è uno degli escamotage di
agevolazione fiscale più robusti che si possano immaginare. E dunque il
paradosso è che sono i cittadini che pagano le tasse a sovvenzionare i
filantropi senza aver voce in capitolo sulle loro scelte, invece di destinare quei
soldi alla fiscalità generale degli stati.

Facciamo qualche nome: Gates, Turner, i Clinton, Zuckerberg, Soros
ecc. Fanno riferimento agli USA e in Europa?
In effetti mi sono occupata perlopiù di filantropi americani, perché è lì che il
fenomeno del filantrocapitalismo si è affermato con maggior vigore e capacita
di ramificazione negli ultimi 20 anni. Ma il fenomeno filantropico sta dilagando
ovunque, si contano oltre 200.000 fondazioni nel mondo, 85.000 delle quali
sono insediate in Europa. Alcune delle realtà più affermate di
filantrocapitalismo in salsa europea sono quelle delle fondazioni di impresa
(corporate foundations), che sono nate negli ultimi anni, sulla scorta degli
Obiettivi del Millennio e ora con gli Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile delle
Nazioni Unite. Penso alla Stiching INGKA Foundation, creata nel 1982 da
Ingvar Kamprad, il miliardario svedese che ha fondato IKEA; alla Nestlé
Foundation, che ha aperto anche un suo dipartimento salute (Nestlé Health
Service); la Welcome Trust in Gran Bretagna, che si occupa di ricerca
scientifica; la Robert Bosch Stiftung; la Vodafone Foundation, ramificata in
quasi tutti i paesi europei.

Parli molto di Gates e un pò di Soros. In cosa si differenzia Soros
rispetto agli altri?
Soros non persegue una agenda filantrocapitalista nel senso tecnico del
termine. George Soros con la sua Open Society Foundations persegue una
agenda di promozione dei diitti civili, non partecipa ai processi internazionali
delle Nazioni Unite e la sua filantropia non si porta dietro la interazione strutturale con il settore privato, come invece fanno Gates, Zuckenberg,
Clinton e altri. Soros è un filantropo iconoclasta, non per nulla i settori che
maggiormente sostiene riguardano i fenomeni migratori e le questioni sulla
proprietà intellettuale. Insomma, Soros è tutta un’altra storia!

Con la potenza del denaro riescono a condizionare Stati ed
Organizzazioni internazionali (ONU). Un esempio è la presenza
tentacolare della Fondazione di Gates. Anche qui ha avuto fiuto….dove
si sviluppa il suo progetto filantropico?  Ci sono conflitti di interesse
con Microsoft?
Mutuando da Umberto Eco, potremmo definire Bill Gates l’Ur-filantropo. Il più
iconico, il più ricco, il più potente, il più intrusivo. Anche quando l’OCSE fa la
mappatura della filantropia, lascia da parte Gates perché la storia della sua
fondazione è un capitolo a parte. Gates sviluppa il suo progetto filantropico in
ogni ambito della vita umana. Il suo percorso è iniziato nel campo della
salute, e io mi sono confrontata con la sua fondazione su questo terreno. Ma
si occupa di nutrizione e agricoltura con il progetto di Rivoluzione Verde in
Africa, di cui parlo nel mio libro, insieme alla Rockefeller Foundation, si
occupa di cambiamenti climatici, di modelli di inclusione finanziaria, di
educazione (soprattutto in America), di ricerca scientifica, di politiche nel
campo dell’energia. E’ praticamente impossibile sfuggire al suo raggio di
azione. La storia di Microsoft e della sua Fondazione vanno di pari passo da
parecchio tempo, soprattutto nel campo della agricoltura in Africa questo
intreccio si è molto rafforzato come tento di raccontare nel mio libro. La spinta
alla digitalizzazione che COVID19 ha imposto al mondo non farà altro che
accelerare e irrobustire i fenomeni di interazione tra le attività di Microsoft e
quelle della Fondazione Gates.

Continuiamo a parlare di Gates. Sappiamo che è molto interessato alla
ricerca sul vaccino anti Covid. Come si intrecciano le cose?
Bill Gates nel 2015, dopo lo scoppio di Ebola in Africa, fece confluire a
Seattle importanti esponenti della comunità scientifica per la definizione di
scenari sanitari. In quella occasione fu annunciato che un patogeno molto
contagioso sarebbe arrivato prima o poi, ed era solo una questione di tempo.
Da quel momento la sua fondazione ha irrobustito gli investimenti nelle
industrie farmaceutiche e soprattutto biotech. In America, in Europa, in Cina.
Dunque, al momento dell’arrivo di Covid19, Gates era probabilmente l’uomo
più preparato per organizzare la rete internazionale di industrie di cui è
importante investitore. Anche perché è sempre Gates che ha creato le entità
pubblico-private più accreditate ormai nella orchestrazione di ricerca e
produzione di vaccini nel mondo:  la Global Alliance for Vaccine Immunization
(GAVI) e la Coalition for Epidemic Preparedness Innovation (CEPI) . Quindi possiamo dire che è lui il kingmaker della partita che riguarda i vaccini, e la
loro distribuzione nei paesi del sud del mondo.

Approfondiamo, ancora, un poco la vicenda dei vaccini anticovid. Le
grandi multinazionali come Pfizer, per esempio, sono coinvolte. Una
delle battaglie è quello sul vaccino come Bene comune. Non sarà facile
agli Stati imporre questo status. Qual è il tuo pensiero?
Certo la partita dei vaccini poggia su moltissimi progetti di ricerca – non se ne
sono mai visti tanti in un solo periodo temporale – ma su poche realtà
industriali. Non dobbiamo dimenticare che prima di Covid19 l’85% della
produzione di vaccini dipendeva da 4-5 aziende al masssimo. I  governi
occidentali hanno finanziato la ricerca per il vaccino con imponenti contributi
pubblici (16 miliardi di euro la CE, 11 miliardi di dollari gli USA) ma senza
porre alcuna condizione all’industria farmaceutica quanto a prezzi, strategie
di accesso, trasparenza degli studi clinici. E mentre i leader politici
continuano a parlare di vaccino bene comune, le aziende brevettano le
innovazioni di know how e prodotti scoperti anche grazie a un finanziamento
pubblico senza precedenti.
L’emergenza sanitaria prodotta dal nuovo coronavirus richiede – come mai
prima – condizioni di accesso rapido a tutti gli strumenti medicali, inclusi i
prodotti farmaceutici come  diagnostici vaccini e  farmaci, per la prevenzione
del contagio e la cura delle persone malate. La perdurante scarsità di prodotti
medicali che colpisce soprattutto – ma non solo – i paesi a basso e medio
reddito mette in grave pericolo la vita del personale sanitario nel mondo,
determina il decesso di un numero significativo di lavoratori essenziali,
prolunga la pandemia. Per questo in questi giorni siamo impegnati in una
campagna di raccolta firme che chiede al governo italiano di sostenere la
richiesta di India e Sudafrica all’Organizzazione Mondiale del Commercio di
sospendere tutti i diritti di proprietà intellettuale in materia di prodotti
farmaceutici e medicali, durante la pandemia di Covid19.  Sarà una battaglia
durissima, le aziende private e i governi occidentali si oppongono e non vogliono sentire storie, ma smuovere le acque in questo ambito potrebbe
aprire il varco al nuovo normale che dovremo costruire una volta che il
contagio sarà finito.

Torniamo ancora al filantropocapitalismo. Qual è il suo rapporto con la
democrazia?
Il filantrocapitalismo per natura e per cultura non si occupa di democrazia,
casomai usa il potere dei soldi per dirottarla e neutralizzarla. Ce lo dicono
senza equivoci le storie che ho raccontato nel libro. Lo avevano capito bene i
politici americani alla fine dell’800, il rapporto di tensione e contrasto tra
democrazia e filantropia. Peccato che le classi politiche del mondo
contemporaneo non abbiano la stessa consapevolezza di sé e della loro
responsabilità nei confronti delle costituzioni democratiche.

Per i sovranisti Gates e Soros sono i grandi nemici. Eppure anche loro, i
sovranisti, hanno le loro fondazioni. È così?
Certo che anche i sovranisti hanno le loro fondazioni e le loro filiere
filantropiche che li sostengono. Nelle loro incarnazioni contemporanee, le
fondazioni rispondono talvolta quasi esclusivamente all’esercizio del potere.
Abbiamo per esempio sentito parlare dalla inchieste giornalistiche dei miliardi
di euro che sono arrivati ai sovranisti europei da una congiuntura di donazioni
di fondazioni di estrazione rigidamente conservatrice americana, in alleanza
con finanziamenti di miliardari russi vicini a Putin, entrambi interessati ad
erodere lo stato di diritto nel nostro continente. Fondazioni che hanno trovato
sponde anche in circoli molto conservatori della Chiesa cattolica, e che tanto
per stare nelle nostre vicinanze hanno permesso a Steve Bannon di
esercitare la sua azione di influenza strategica da una abbazia del centro
Italia. Cose dell’altro mondo!

Arriviamo al termine del nostro colloquio. È possibile una vera
filantropia?
Credo che la vera filantropia, ovvero in senso etimologico l’unico vero amore
per l’umanità, è quello che passa attraverso il cammino della uguaglianza, la
libertà e la democrazia. E’ quello che riconosce a tutti e tutte la medesima
dignità.

Biden e J.P. Morgan vedono l’Europa protagonista della globalizzazione post-covid. Intervista a Giuseppe Sabella

Nelle ultime ore, l’annuncio di un secondo vaccino – quello di Moderna dopo quello di Pfizer – ha spinto al rialzo le Borse europee, nella speranza che la fase più dura della pandemia possa finire presto. Mentre l’euro si mantiene stabile sul dollaro (cambio a 1,18) e lo spread BTP Bund scende sotto i 114 punti, ai minimi dal 2018, una importante suggestione circola tra gli ambienti finanziari e non solo. Da un webinar organizzato da J.P. Morgan – a cui hanno partecipato John Bilton, Head of Global Multi-Asset Strategy, Thushka Maharaj, Global Multi-Asset Strategy, Vincent Juvyns, Global Market Strategist, e Sorca Kelly-Scholte, Head of EMEA Pensions Solutions & Advisory – è emerso infatti che l’Europa potrebbe diventare protagonista, insieme alla Cina, del nuovo corso dell’economia globale nel quale a determinare gli esiti della crescita non sarà soltanto l’innovazione digitale ma, in particolare, la capacità delle filiere produttive di far fronte al climate change. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, autore del libro “Ripartenza Verde” (Rubbettino 2020, leggi qui) in cui si delinea proprio questo scenario.

Sabella, cosa ne pensa di questa previsione che emerge dagli ambienti di una delle più importanti case d’investimento del mondo?

La previsione di J.P. Morgan è importante, prima di tutto perché da italiano ed europeo confido in questa crescita economica; e poi perché è quello che ho previsto nel mio ultimo lavoro: fa piacere, quindi, che le mie intuizioni vengano corroborate da un istituto così importante. Se tuttavia ci pensiamo bene, l’Unione Europea ha fatto un grande sforzo politico finanziario negli ultimi tre anni, proprio perché ha compreso il gap che la sua industria ha nei confronti di quella americana in particolare, ma anche di quella cinese, vera patria dell’innovazione digitale. Non a caso, gli ultimi tre anni per l’Europa hanno significato crescita molto debole. E, da questo punto di vista, la pandemia ha costretto l’Unione a contenere i particolarismi che la animano e ad accelerare i lavori sul versante della politica economica e industriale. Ecco che, come abbiamo detto più volte, il piano Green New Deal è andato a sistema, dentro il più ampio Recovery Fund: è la grande occasione, anche per il nostro Paese, di rilanciare le filiere produttive, anche per far fronte al cambiamento climatico.

Dopo un decennio dominato dall’avanzamento tecnologico digitale e guidato dai colossi americani e dall’e-commerce, ora il focus si sta spostando sulla nuova frontiera green e sulla decarbonizzazione dell’economia. È in questo senso che, secondo J.P. Morgan, l’Europa appare ben posizionata, soprattutto per la leadership politica che esercita in questo campo. Questa analisi di scenario significa davvero per l’Europa la riscossa su USA e Cina?

Pur avendo molta fiducia in quella che sarà la crescita europea nel prossimo quinquennio, sono convinto che USA e Cina non staranno a guardare. C’è, infatti, un po’ di enfasi sull’Europa rispetto al discorso green. Del resto, noi abbiamo avuto Greta Thunberg e i fridays for future. E quando Trump nel 2017 ha rotto con gli accordi di Parigi, lo ha fatto non perché non credeva nella lotta al climate change ma proprio perché aveva chiaro il ruolo propulsore dell’Europa nel mondo nelle politiche di contenimento del riscaldamento globale, ben sapendo che l’industria americana viaggia nella medesima direzione di quella europea. Anzi, forse è persino più avanti. E anche l’idea che la Cina, insieme all’India, sia il grande corruttore dell’ambiente è un luogo comune. Resta il fatto che persino J.P. Morgan ci sottolinea oggi i progressi dell’Unione Europea, quindi è ora di iniziare a guardare con fiducia il nostro futuro a partire dalle politiche di sviluppo.

E perché Trump temeva questo ruolo propulsore dell’Europa nella lotta al climate change?

Quello europeo, al di là della sua contrazione di questi anni, resta un mercato importantissimo. Ed è soprattutto l’economia a cui USA e Cina guardano oltre i loro mercati interni che sono molto coesi, a differenza di quello europeo. Negli ultimi tre anni da una parte il rallentamento degli scambi – crollati definitivamente con la pandemia – dall’altra il crescente neoprotezionismo, hanno prodotto una sempre più marcata regionalizzazione dell’economia, tanto che anche Ursula Von der Leyen si è espressa di recente dicendo che l’Unione Europea farà di tutto per proteggere la qualità delle sue produzioni, parlando espressamente di “dazi verdi”. Trump, nel suo attacco al multilateralismo climatico (e non solo), ha sfidato l’Europa: del resto, è una sfida che ha caratterizzato il suo mandato. Lo abbiamo visto col dieselgate, con i dazi… il grande bersaglio di Trump è stata l’Europa: l’ha attaccata per proteggere il mercato USA e, anche, per favorire la penetrazione delle imprese americane nel mercato europeo, sapendo bene della sua segmentazione.

Con Joe Biden cambierà qualcosa? Una delle sue prime dichiarazioni dopo l’election day è stata sugli accordi di Parigi, vuole riportare gli USA dentro le intese sul clima.

È evidente che nella lotta al climate change il ruolo degli stati e della politica economica diventa fondamentale. Trump, da imprenditore, già è diffidente di questo ruolo della politica. Inoltre vi è questo elemento che lo ha disturbato: restare agganciato al multilateralismo sul clima voleva per lui dire, da questo punto di vista, sostenere l’Europa nel suo ruolo propulsore ed egemone nel mondo nelle politiche ambientali. Per Trump, non si trattava di una linea sostenibile, per usare un gioco di parole. È noto invece che Biden ha in mente non solo interventi pubblici ma anche una nuova regolamentazione dell’economia, politiche che vanno in netta controtendenza con il recente corso USA di questi ultimi 4 anni. Si tratta naturalmente di una posizione più in linea con le politiche dell’UE. Ecco perché la vittoria di Biden è stata accolta con favore dai leader europei. Certo non è condizione sufficiente per risolvere i problemi ambientali ma è condizione necessaria: è evidente che, senza gli USA, la lotta al climate change è più difficile da vincere. Ed è oggi evidente che non c’è più tempo da perdere.

Perché, secondo lei, è un luogo comune quello che vuole la Cina – insieme all’India – come grande Paese non curante dell’inquinamento e del global warming?

Perché mentre in India al potente processo di industrializzazione avviata dalle delocalizzazioni produttive dell’Occidente non è seguita una più recente riconversione delle filiere in una prospettiva di modernizzazione e di sostenibilità, non possiamo dire questo della Cina. Nel Paese del Dragone, non solo vi sono potenti politiche energetiche a sostegno delle fonti rinnovabili e di decarbonizzazione, ma vi sono stati investimenti straordinari in innovazione che hanno reso la Cina l’area più digitalizzata del pianeta. E sappiamo bene l’importanza del processo di digitalizzazione nella sostenibilità delle produzioni. A ogni modo, nel 2014 in Cina è stato fatto un piano di contrasto alle emissioni. Nel 2018, l’economista americano Michael Greenstone, da un’elaborazione da fonti ufficiali cinesi e dalla rete dei consolati americani sparsi per tutto il territorio cinese, ha concluso che in soli 4 anni la Cina ha ridotto l’inquinamento da polveri sottili di oltre il 30 per cento. Tra il 2005 e il 2015 il governo cinese ha insegnato a oltre 20 milioni di piccoli agricoltori come utilizzare i fertilizzanti con maggiore efficienza: i raccolti sono mediamente aumentati di circa il 10 per cento mentre l’applicazione totale di azoto è diminuita di circa il 15 per cento. Il problema della Cina resta soprattutto quello dello smaltimento dei rifiuti plastici: l’economia cinese vale il 15 per cento dell’economia mondiale ma contribuisce per il 28 per cento dei rifiuti plastici trasportati in mare dai propri corsi d’acqua. Per queste ragioni ritengo luogo comune quello di dire che la Cina è oggi responsabile dell’inquinamento nel mondo e non curante del problema ambientale. Certo, come si evince, un ruolo più attivo degli USA, al fianco dell’Europa, renderà più efficace il nuovo multilateralismo nella lotta al climate change.

“Tendi la tua mano al povero”. Messaggio di Papa Francesco per la Giornata Mondiale dei Poveri

La Giornata mondiale dei poveri 2020, la quarta, è stata celebrata questa domenica in San Pietro , ma a causa del coronavirus è stata diversa dalle altre. Alla Messa presieduta da Papa Francesco all’altare della Cattedra nella Basilica Vatican hanno partecipato un centinaio di persone soltanto, in rappresentanza dei poveri del mondo. Ma la pandemia non ha fermato la carità del Papa: si è attivata infatti per questa occasione, una rete solidale per portare cibo, mascherine e aiuti a migliaia di famiglie in circa 60 parrocchie romane, a Case famiglia e associazioni caritative. Inoltre, nell’ambulatorio gestito dall’Elemosineria Apostolica per le persone in necessità è stato possibile effettuare il tampone per il Covid-19.

“Tendi la tua mano al povero”. E’ il tema scelto quest’anno per la Giornata come espresso nel Messaggio del Papa per questa IV Giornata. “In questi mesi, nei quali il mondo intero è stato come sopraffatto da un virus che ha portato dolore e morte, sconforto e smarrimento, quante mani tese abbiamo potuto vedere!”, scrive il Papa, ricordando che “questo è un tempo favorevole per sentire nuovamente che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e verso il mondo”.

Di seguito pubblichiamo il testo integrale del Messaggio per la Quarta Giornata Mondiale dei Poveri

“Tendi la tua mano al povero” (cfr Sir 7,32). La sapienza antica ha posto queste parole come un codice sacro da seguire nella vita. Esse risuonano oggi con tutta la loro carica di significato per aiutare anche noi a concentrare lo sguardo sull’essenziale e superare le barriere dell’indifferenza. La povertà assume sempre volti diversi, che richiedono attenzione ad ogni condizione particolare: in ognuna di queste possiamo incontrare il Signore Gesù, che ha rivelato di essere presente nei suoi fratelli più deboli (cfr Mt 25,40).

1. Prendiamo tra le mani il Siracide, uno dei libri dell’Antico Testamento. Qui troviamo le parole di un maestro di saggezza vissuto circa duecento anni prima di Cristo. Egli andava in cerca della sapienza che rende gli uomini migliori e capaci di scrutare a fondo le vicende della vita. Lo faceva in un momento di dura prova per il popolo d’Israele, un tempo di dolore, lutto e miseria a causa del dominio di potenze straniere. Essendo un uomo di grande fede, radicato nelle tradizioni dei padri, il suo primo pensiero fu di rivolgersi a Dio per chiedere a Lui il dono della sapienza. E il Signore non gli fece mancare il suo aiuto.

Fin dalle prime pagine del libro, il Siracide espone i suoi consigli su molte concrete situazioni di vita, e la povertà è una di queste. Egli insiste sul fatto che nel disagio bisogna avere fiducia in Dio: «Non ti smarrire nel tempo della prova. Stai unito a lui senza separartene, perché tu sia esaltato nei tuoi ultimi giorni. Accetta quanto ti capita e sii paziente nelle vicende dolorose, perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore. Nelle malattie e nella povertà confida in lui. Affidati a lui ed egli ti aiuterà, raddrizza le tue vie e spera in lui. Voi che temete il Signore, aspettate la sua misericordia e non deviate, per non cadere» (2,2-7).

2. Pagina dopo pagina, scopriamo un prezioso compendio di suggerimenti sul modo di agire alla luce di un’intima relazione con Dio, creatore e amante del creato, giusto e provvidente verso tutti i suoi figli. Il costante riferimento a Dio, tuttavia, non distoglie dal guardare all’uomo concreto, al contrario, le due cose sono strettamente connesse.

Lo dimostra chiaramente il brano da cui è tratto il titolo di questo Messaggio (cfr 7,29-36). La preghiera a Dio e la solidarietà con i poveri e i sofferenti sono inseparabili. Per celebrare un culto che sia gradito al Signore, è necessario riconoscere che ogni persona, anche quella più indigente e disprezzata, porta impressa in sé l’immagine di Dio. Da tale attenzione deriva il dono della benedizione divina, attirata dalla generosità praticata nei confronti del povero. Pertanto, il tempo da dedicare alla preghiera non può mai diventare un alibi per trascurare il prossimo in difficoltà. È vero il contrario: la benedizione del Signore scende su di noi e la preghiera raggiunge il suo scopo quando esse sono accompagnate dal servizio ai poveri.

3. Quanto è attuale questo antico insegnamento anche per noi! Infatti la Parola di Dio oltrepassa lo spazio, il tempo, le religioni e le culture. La generosità che sostiene il debole, consola l’afflitto, lenisce le sofferenze, restituisce dignità a chi ne è privato, è condizione di una vita pienamente umana. La scelta di dedicare attenzione ai poveri, ai loro tanti e diversi bisogni, non può essere condizionata dal tempo a disposizione o da interessi privati, né da progetti pastorali o sociali disincarnati. Non si può soffocare la forza della grazia di Dio per la tendenza narcisistica di mettere sempre sé stessi al primo posto.

Tenere lo sguardo rivolto al povero è difficile, ma quanto mai necessario per imprimere alla nostra vita personale e sociale la giusta direzione. Non si tratta di spendere tante parole, ma piuttosto di impegnare concretamente la vita, mossi dalla carità divina. Ogni anno, con la Giornata Mondiale dei Poveri, ritorno su questa realtà fondamentale per la vita della Chiesa, perché i poveri sono e saranno sempre con noi (cfr Gv 12,8) per aiutarci ad accogliere la compagnia di Cristo nell’esistenza quotidiana.

4. Sempre l’incontro con una persona in condizione di povertà ci provoca e ci interroga. Come possiamo contribuire ad eliminare o almeno alleviare la sua emarginazione e la sua sofferenza? Come possiamo aiutarla nella sua povertà spirituale? La comunità cristiana è chiamata a coinvolgersi in questa esperienza di condivisione, nella consapevolezza che non le è lecito delegarla ad altri. E per essere di sostegno ai poveri è fondamentale vivere la povertà evangelica in prima persona. Non possiamo sentirci “a posto” quando un membro della famiglia umana è relegato nelle retrovie e diventa un’ombra. Il grido silenzioso dei tanti poveri deve trovare il popolo di Dio in prima linea, sempre e dovunque, per dare loro voce, per difenderli e solidarizzare con essi davanti a tanta ipocrisia e tante promesse disattese, e per invitarli a partecipare alla vita della comunità.

È vero, la Chiesa non ha soluzioni complessive da proporre, ma offre, con la grazia di Cristo, la sua testimonianza e gesti di condivisione. Essa, inoltre, si sente in dovere di presentare le istanze di quanti non hanno il necessario per vivere. Ricordare a tutti il grande valore del bene comune è per il popolo cristiano un impegno di vita, che si attua nel tentativo di non dimenticare nessuno di coloro la cui umanità è violata nei bisogni fondamentali.

5. Tendere la mano fa scoprire, prima di tutto a chi lo fa, che dentro di noi esiste la capacità di compiere gesti che danno senso alla vita. Quante mani tese si vedono ogni giorno! Purtroppo, accade sempre più spesso che la fretta trascina in un vortice di indifferenza, al punto che non si sa più riconoscere il tanto bene che quotidianamente viene compiuto nel silenzio e con grande generosità. Accade così che, solo quando succedono fatti che sconvolgono il corso della nostra vita, gli occhi diventano capaci di scorgere la bontà dei santi “della porta accanto”, «di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio» (Esort. ap.  Gaudete et exsultate, 7), ma di cui nessuno parla. Le cattive notizie abbondano sulle pagine dei giornali, nei siti internet e sugli schermi televisivi, tanto da far pensare che il male regni sovrano. Non è così. Certo, non mancano la cattiveria e la violenza, il sopruso e la corruzione, ma la vita è intessuta di atti di rispetto e di generosità che non solo compensano il male, ma spingono ad andare oltre e ad essere pieni di speranza.

6. Tendere la mano è un segno: un segno che richiama immediatamente alla prossimità, alla solidarietà, all’amore. In questi mesi, nei quali il mondo intero è stato come sopraffatto da un virus che ha portato dolore e morte, sconforto e smarrimento, quante mani tese abbiamo potuto vedere! La mano tesa del medico che si preoccupa di ogni paziente cercando di trovare il rimedio giusto. La mano tesa dell’infermiera e dell’infermiere che, ben oltre i loro orari di lavoro, rimangono ad accudire i malati. La mano tesa di chi lavora nell’amministrazione e procura i mezzi per salvare quante più vite possibile. La mano tesa del farmacista esposto a tante richieste in un rischioso contatto con la gente. La mano tesa del sacerdote che benedice con lo strazio nel cuore. La mano tesa del volontario che soccorre chi vive per strada e quanti, pur avendo un tetto, non hanno da mangiare. La mano tesa di uomini e donne che lavorano per offrire servizi essenziali e sicurezza. E altre mani tese potremmo ancora descrivere fino a comporre una litania di opere di bene. Tutte queste mani hanno sfidato il contagio e la paura pur di dare sostegno e consolazione.

7. Questa pandemia è giunta all’improvviso e ci ha colto impreparati, lasciando un grande senso di disorientamento e impotenza. La mano tesa verso il povero, tuttavia, non è giunta improvvisa. Essa, piuttosto, offre la testimonianza di come ci si prepara a riconoscere il povero per sostenerlo nel tempo della necessità. Non ci si improvvisa strumenti di misericordia. È necessario un allenamento quotidiano, che parte dalla consapevolezza di quanto noi per primi abbiamo bisogno di una mano tesa verso di noi.

Questo momento che stiamo vivendo ha messo in crisi tante certezze. Ci sentiamo più poveri e più deboli perché abbiamo sperimentato il senso del limite e la restrizione della libertà. La perdita del lavoro, degli affetti più cari, come la mancanza delle consuete relazioni interpersonali hanno di colpo spalancato orizzonti che non eravamo più abituati a osservare. Le nostre ricchezze spirituali e materiali sono state messe in discussione e abbiamo scoperto di avere paura. Chiusi nel silenzio delle nostre case, abbiamo riscoperto quanto sia importante la semplicità e il tenere gli occhi fissi sull’essenziale. Abbiamo maturato l’esigenza di una nuova fraternità, capace di aiuto reciproco e di stima vicendevole. Questo è un tempo favorevole per «sentire nuovamente che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e verso il mondo […]. Già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà […]. Tale distruzione di ogni fondamento della vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi, provoca il sorgere di nuove forme di violenza e crudeltà e impedisce lo sviluppo di una vera cultura della cura dell’ambiente» (Lett. enc.  Laudato si’, 229). Insomma, le gravi crisi economiche, finanziarie e politiche non cesseranno fino a quando permetteremo che rimanga in letargo la responsabilità che ognuno deve sentire verso il prossimo ed ogni persona.

8. “Tendi la mano al povero”, dunque, è un invito alla responsabilità come impegno diretto di chiunque si sente partecipe della stessa sorte. È un incitamento a farsi carico dei pesi dei più deboli, come ricorda San Paolo: «Mediante l’amore siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso. […] Portate i pesi gli uni degli altri» (Gal 5,13-14; 6,2). L’Apostolo insegna che la libertà che ci è stata donata con la morte e risurrezione di Gesù Cristo è per ciascuno di noi una responsabilità per mettersi al servizio degli altri, soprattutto dei più deboli. Non si tratta di un’esortazione facoltativa, ma di una condizione dell’autenticità della fede che professiamo.

Il libro del Siracide ritorna in nostro aiuto: suggerisce azioni concrete per sostenere i più deboli e usa anche alcune immagini suggestive. Dapprima prende in considerazione la debolezza di quanti sono tristi: «Non evitare coloro che piangono» (7,34). Il periodo della pandemia ci ha costretti a un forzato isolamento, impedendoci perfino di poter consolare e stare vicino ad amici e conoscenti afflitti per la perdita dei loro cari. E ancora afferma l’autore sacro: «Non esitare a visitare un malato» (7,35). Abbiamo sperimentato l’impossibilità di stare accanto a chi soffre, e al tempo stesso abbiamo preso coscienza della fragilità della nostra esistenza. Insomma, la Parola di Dio non ci lascia mai tranquilli e continua a stimolarci al bene.

9. “Tendi la mano al povero” fa risaltare, per contrasto, l’atteggiamento di quanti tengono le mani in tasca e non si lasciano commuovere dalla povertà, di cui spesso sono anch’essi complici. L’indifferenza e il cinismo sono il loro cibo quotidiano. Che differenza rispetto alle mani generose che abbiamo descritto! Ci sono, infatti, mani tese per sfiorare velocemente la tastiera di un computer e spostare somme di denaro da una parte all’altra del mondo, decretando la ricchezza di ristrette oligarchie e la miseria di moltitudini o il fallimento di intere nazioni. Ci sono mani tese ad accumulare denaro  con la vendita di armi che altre mani, anche di bambini, useranno per seminare morte e povertà. Ci sono mani tese che nell’ombra scambiano dosi di morte per arricchirsi e vivere nel lusso e nella sregolatezza effimera. Ci sono mani tese che sottobanco scambiano favori illegali per un guadagno facile e corrotto. E ci sono anche mani tese che nel perbenismo ipocrita stabiliscono leggi che loro stessi non osservano.

In questo panorama, «gli esclusi continuano ad aspettare. Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza. Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete» (Esort. ap.  Evangelii gaudium, 54). Non potremo essere contenti fino a quando queste mani che seminano morte non saranno trasformate in strumenti di giustizia e di pace per il mondo intero.

10. «In tutte le tue azioni, ricordati della tua fine» (Sir 7,36). È l’espressione con cui il Siracide conclude questa sua riflessione. Il testo si presta a una duplice interpretazione. La prima fa emergere che abbiamo bisogno di tenere sempre presente la fine della nostra esistenza. Ricordarsi il destino comune può essere di aiuto per condurre una vita all’insegna dell’attenzione a chi è più povero e non ha avuto le stesse nostre possibilità. Esiste anche una seconda interpretazione, che evidenzia piuttosto il fine, lo scopo verso cui ognuno tende. È il fine della nostra vita che richiede un progetto da realizzare e un cammino da compiere senza stancarsi. Ebbene, il fine di ogni nostra azione non può essere altro che l’amore. È questo lo scopo verso cui siamo incamminati e nulla ci deve distogliere da esso. Questo amore è condivisione, dedizione e servizio, ma comincia dalla scoperta di essere noi per primi amati e risvegliati all’amore. Questo fine appare nel momento in cui il bambino si incontra con il sorriso della mamma e si sente amato per il fatto stesso di esistere. Anche un sorriso che condividiamo con il povero è sorgente di amore e permette di vivere nella gioia. La mano tesa, allora, possa sempre arricchirsi del sorriso di chi non fa pesare la propria presenza e l’aiuto che offre, ma gioisce solo di vivere lo stile dei discepoli di Cristo.

In questo cammino di incontro quotidiano con i poveri ci accompagna la Madre di Dio, che più di ogni altra è la Madre dei poveri. La Vergine Maria conosce da vicino le difficoltà e le sofferenze di quanti sono emarginati, perché lei stessa si è trovata a dare alla luce il Figlio di Dio in una stalla. Per la minaccia di Erode, con Giuseppe suo sposo e il piccolo Gesù è fuggita in un altro paese, e la condizione di profughi ha segnato per alcuni anni la santa Famiglia. Possa la preghiera alla Madre dei poveri accomunare questi suoi figli prediletti e quanti li servono nel nome di Cristo. E la preghiera trasformi la mano tesa in un abbraccio di condivisione e di fraternità ritrovata.

Roma, San Giovanni in Laterano, 13 giugno 2020, Memoria liturgica di Sant’Antonio di Padova.

Francesco

Dal sito

Link all’articolo RaiNews