Biden e J.P. Morgan vedono l’Europa protagonista della globalizzazione post-covid. Intervista a Giuseppe Sabella

Nelle ultime ore, l’annuncio di un secondo vaccino – quello di Moderna dopo quello di Pfizer – ha spinto al rialzo le Borse europee, nella speranza che la fase più dura della pandemia possa finire presto. Mentre l’euro si mantiene stabile sul dollaro (cambio a 1,18) e lo spread BTP Bund scende sotto i 114 punti, ai minimi dal 2018, una importante suggestione circola tra gli ambienti finanziari e non solo. Da un webinar organizzato da J.P. Morgan – a cui hanno partecipato John Bilton, Head of Global Multi-Asset Strategy, Thushka Maharaj, Global Multi-Asset Strategy, Vincent Juvyns, Global Market Strategist, e Sorca Kelly-Scholte, Head of EMEA Pensions Solutions & Advisory – è emerso infatti che l’Europa potrebbe diventare protagonista, insieme alla Cina, del nuovo corso dell’economia globale nel quale a determinare gli esiti della crescita non sarà soltanto l’innovazione digitale ma, in particolare, la capacità delle filiere produttive di far fronte al climate change. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, autore del libro “Ripartenza Verde” (Rubbettino 2020, leggi qui) in cui si delinea proprio questo scenario.

Sabella, cosa ne pensa di questa previsione che emerge dagli ambienti di una delle più importanti case d’investimento del mondo?

La previsione di J.P. Morgan è importante, prima di tutto perché da italiano ed europeo confido in questa crescita economica; e poi perché è quello che ho previsto nel mio ultimo lavoro: fa piacere, quindi, che le mie intuizioni vengano corroborate da un istituto così importante. Se tuttavia ci pensiamo bene, l’Unione Europea ha fatto un grande sforzo politico finanziario negli ultimi tre anni, proprio perché ha compreso il gap che la sua industria ha nei confronti di quella americana in particolare, ma anche di quella cinese, vera patria dell’innovazione digitale. Non a caso, gli ultimi tre anni per l’Europa hanno significato crescita molto debole. E, da questo punto di vista, la pandemia ha costretto l’Unione a contenere i particolarismi che la animano e ad accelerare i lavori sul versante della politica economica e industriale. Ecco che, come abbiamo detto più volte, il piano Green New Deal è andato a sistema, dentro il più ampio Recovery Fund: è la grande occasione, anche per il nostro Paese, di rilanciare le filiere produttive, anche per far fronte al cambiamento climatico.

Dopo un decennio dominato dall’avanzamento tecnologico digitale e guidato dai colossi americani e dall’e-commerce, ora il focus si sta spostando sulla nuova frontiera green e sulla decarbonizzazione dell’economia. È in questo senso che, secondo J.P. Morgan, l’Europa appare ben posizionata, soprattutto per la leadership politica che esercita in questo campo. Questa analisi di scenario significa davvero per l’Europa la riscossa su USA e Cina?

Pur avendo molta fiducia in quella che sarà la crescita europea nel prossimo quinquennio, sono convinto che USA e Cina non staranno a guardare. C’è, infatti, un po’ di enfasi sull’Europa rispetto al discorso green. Del resto, noi abbiamo avuto Greta Thunberg e i fridays for future. E quando Trump nel 2017 ha rotto con gli accordi di Parigi, lo ha fatto non perché non credeva nella lotta al climate change ma proprio perché aveva chiaro il ruolo propulsore dell’Europa nel mondo nelle politiche di contenimento del riscaldamento globale, ben sapendo che l’industria americana viaggia nella medesima direzione di quella europea. Anzi, forse è persino più avanti. E anche l’idea che la Cina, insieme all’India, sia il grande corruttore dell’ambiente è un luogo comune. Resta il fatto che persino J.P. Morgan ci sottolinea oggi i progressi dell’Unione Europea, quindi è ora di iniziare a guardare con fiducia il nostro futuro a partire dalle politiche di sviluppo.

E perché Trump temeva questo ruolo propulsore dell’Europa nella lotta al climate change?

Quello europeo, al di là della sua contrazione di questi anni, resta un mercato importantissimo. Ed è soprattutto l’economia a cui USA e Cina guardano oltre i loro mercati interni che sono molto coesi, a differenza di quello europeo. Negli ultimi tre anni da una parte il rallentamento degli scambi – crollati definitivamente con la pandemia – dall’altra il crescente neoprotezionismo, hanno prodotto una sempre più marcata regionalizzazione dell’economia, tanto che anche Ursula Von der Leyen si è espressa di recente dicendo che l’Unione Europea farà di tutto per proteggere la qualità delle sue produzioni, parlando espressamente di “dazi verdi”. Trump, nel suo attacco al multilateralismo climatico (e non solo), ha sfidato l’Europa: del resto, è una sfida che ha caratterizzato il suo mandato. Lo abbiamo visto col dieselgate, con i dazi… il grande bersaglio di Trump è stata l’Europa: l’ha attaccata per proteggere il mercato USA e, anche, per favorire la penetrazione delle imprese americane nel mercato europeo, sapendo bene della sua segmentazione.

Con Joe Biden cambierà qualcosa? Una delle sue prime dichiarazioni dopo l’election day è stata sugli accordi di Parigi, vuole riportare gli USA dentro le intese sul clima.

È evidente che nella lotta al climate change il ruolo degli stati e della politica economica diventa fondamentale. Trump, da imprenditore, già è diffidente di questo ruolo della politica. Inoltre vi è questo elemento che lo ha disturbato: restare agganciato al multilateralismo sul clima voleva per lui dire, da questo punto di vista, sostenere l’Europa nel suo ruolo propulsore ed egemone nel mondo nelle politiche ambientali. Per Trump, non si trattava di una linea sostenibile, per usare un gioco di parole. È noto invece che Biden ha in mente non solo interventi pubblici ma anche una nuova regolamentazione dell’economia, politiche che vanno in netta controtendenza con il recente corso USA di questi ultimi 4 anni. Si tratta naturalmente di una posizione più in linea con le politiche dell’UE. Ecco perché la vittoria di Biden è stata accolta con favore dai leader europei. Certo non è condizione sufficiente per risolvere i problemi ambientali ma è condizione necessaria: è evidente che, senza gli USA, la lotta al climate change è più difficile da vincere. Ed è oggi evidente che non c’è più tempo da perdere.

Perché, secondo lei, è un luogo comune quello che vuole la Cina – insieme all’India – come grande Paese non curante dell’inquinamento e del global warming?

Perché mentre in India al potente processo di industrializzazione avviata dalle delocalizzazioni produttive dell’Occidente non è seguita una più recente riconversione delle filiere in una prospettiva di modernizzazione e di sostenibilità, non possiamo dire questo della Cina. Nel Paese del Dragone, non solo vi sono potenti politiche energetiche a sostegno delle fonti rinnovabili e di decarbonizzazione, ma vi sono stati investimenti straordinari in innovazione che hanno reso la Cina l’area più digitalizzata del pianeta. E sappiamo bene l’importanza del processo di digitalizzazione nella sostenibilità delle produzioni. A ogni modo, nel 2014 in Cina è stato fatto un piano di contrasto alle emissioni. Nel 2018, l’economista americano Michael Greenstone, da un’elaborazione da fonti ufficiali cinesi e dalla rete dei consolati americani sparsi per tutto il territorio cinese, ha concluso che in soli 4 anni la Cina ha ridotto l’inquinamento da polveri sottili di oltre il 30 per cento. Tra il 2005 e il 2015 il governo cinese ha insegnato a oltre 20 milioni di piccoli agricoltori come utilizzare i fertilizzanti con maggiore efficienza: i raccolti sono mediamente aumentati di circa il 10 per cento mentre l’applicazione totale di azoto è diminuita di circa il 15 per cento. Il problema della Cina resta soprattutto quello dello smaltimento dei rifiuti plastici: l’economia cinese vale il 15 per cento dell’economia mondiale ma contribuisce per il 28 per cento dei rifiuti plastici trasportati in mare dai propri corsi d’acqua. Per queste ragioni ritengo luogo comune quello di dire che la Cina è oggi responsabile dell’inquinamento nel mondo e non curante del problema ambientale. Certo, come si evince, un ruolo più attivo degli USA, al fianco dell’Europa, renderà più efficace il nuovo multilateralismo nella lotta al climate change.