Le quattro sfide di Biden

Come si muoverà Joe Biden nello scacchiere internazionale? Quali saranno i suoi rapporti con le potenze mondiali? Quali le sue priorità? Ne parliamo, in questa intervista, con il professor Vittorio Emanuele Parsi, Ordinario di Relazioni Internazionali all’Università Cattolica di Milano.
Professore, il risultato delle presidenziali americane, per qualche osservatore italiano, rappresentano una sorta di “25 Aprile per l’America e per il mondo” . Che mondo ci ha lasciato Trump?

Professor Vittorio Emanuele Parsi

L’effetto più devastante di quattro anni di presidenza Trump è stato aver legittimato e amplificato un clima di scontro permanente e di ridicolizzazione della verità. È la tossina peggiore che può essere inserita nel corpo di una democrazia, in grado di staccare la carne della società dallo scheletro delle sue istituzioni, come un botulismo della politica. Trump ne ha fatto un uso massiccio e crescente, a mano a mano che il dilettantismo e l’incompetenza della sua azione veniva amplificata dalla magnitudine dei problemi che non riusciva ad affrontare.
Veniamo al Presidente eletto, Joe Biden. Quale sarà la prima mossa, secondo Lei, che farà per ridare credibilità agli USA nello scenario internazionale? O pensa, invece, che per prima cosa proverà a pacificare la società americana?

Le due cose vanno insieme, per molti aspetti. Ma la priorità è ovviamente alla dimensione domestica. Se vorrà riuscire a essere il presidente di tutti gli americani, Joe Biden dovrà dimostrare di non essere “un uomo per tutte le stagioni”. Le sfide che lo attendono sono talmente gigantesche che soltanto una leadership salda ed efficace potrà produrre la riunione sotto una sola bandiera di una nazione lacerata. Queste sfide si chiamano, rispettivamente: disintossicazione della società dal mix esplosivo di sovraeccitazione e bugie che hanno caratterizzato questa stagione; gestione responsabile della pandemia; riequilibrio dell’economia; rilancio della leadership americana nel mondo.
Parliamo dei nodi strategici (Unione Europea, Russia, Cina, Medio Oriente, Israele e Africa). I leader europei (quelli non sovranisti) hanno tirato un sospiro di sollievo. C’è da sperare in un rilancio della alleanza con l’Europa?  Cosa potrà concedere?

Il problema non è la concessione, ma la consapevolezza che la grandezza di un Paese, come di un essere umano, dipende dalla qualità delle relazioni che ha con gli altri.

In che senso?

L’America è stata grande quando è stata la leader del mondo libero e un esempio per gli altri. Il recupero di questa “tradizione”, la tradizione del secolo americano per noi europei è la migliore garanzia.
Nei confronti del protagonismo di Putin come si porrà?

La Russia perde il suo miglior interlocutore. In ogni caso la tradizione democratica recente è di forte diffidenza verbo la Russia. Poi, intendiamoci, la Russia ha ben maggiori problemi. Il rinsaldarsi della relazione con UE e dentro la NATO ovviamente riduce lo spazio di manovra di Mosca.
Sulla Cina  ci sarà un approccio pragmatico?

Cina e USA sono ormai su una rotta di confronto. Ma si può impedire che questo degeneri in un conflitto (sia pure non armato). Certo la politica di Biden si attende meno erratica e provocatoria. Ma con i dazi, il deficit commerciale USA verso la Cina è aumentato…

Medio Oriente e Israele. Sappiamo che Trump era tutto schiacciato su Beniamin Netanyahu. Che con Trump si è reso protagonista della politica cosiddetta “Pace di Abramo”. Dimenticando, così, i palestinesi i. Ci saranno novità?

Questo è il quadrante più complicato. Netanyahu è ben consapevole di aver perso “il miglior amico di Israele”. Del “suo” Israele, intendiamoci. Ma Biden non potrà facilmente recedere dal trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme e dal riconoscimento della sovranità israeliana sulle alture siriane del Golan. Sugli insediamenti illegali e illegittimi dei coloni israeliani nei territori palestinesi occupati (dal 1967) potrebbe invece esserci un cambiamento. Così come sul finanziamento alle autorità palestinesi e alle agenzie ONU che consentono al popolo palestinese di sopravvivere.

Su Erdogan e Iran?  Su Erdogan sarà più duro?

Biden è stato l’artefice del JCPOA e della fine dell’ostracismo dell’Iran. Tenterà di ristabilire un accordo con l’Iran, sia pure a condizioni diverse dal vecchio trattato. Sarà probabilmente disponibile ad aiutare economicamente Tehran, in cambio  di maggiori rassicurazioni sui suoi programmi missilistici e tecno-nucleari. Con Erdogan possiamo aspettarci minor condiscendenza e maggior contrasto alla sua disinvolta politica di espansione regionale.

L’Africa può tornare ad essere strategica per gli Usa?

Non più di quanto lo sia stata negli ultimi anni. Sarà importante per stabilizzare il continente in chiave di contrasto all’islamismo estremista e all’espansionismo cinese.

All’Italia ridarà un ruolo di interlocutore privilegiato?

No. Ma l’Italia si può solo avvantaggiare di un. Presidente USA favorevole al multilateralismo, alle istituzioni internazionali, alla UE.  il ritorno degli USA a una politica dia attenzione transatlantica e non ostile alla UE semplifica la nostra politica estera.

Insomma con Biden torna il multilateralismo? 

Biden ha annunciato in un programma di interventi pubblici e di nuova regolamentazione dell’economia persino superiore a quelli presenti nel programma di Obama. È la sola rotta percorribile, per quanto ardua, affinché gli Stati Uniti possano tornare a essere il Paese leader delle democrazie. Le angosce che hanno gonfiato le vele di populismo e sovranismo rimangono tutte. E devono essere affrontate senza illudersi che un ritorno al passato sia la soluzione. Una globalizzazione meno selvaggia, un mercato più inclusivo ed equo, uno sviluppo più attento alla salvaguardia del pianeta, una società che non mortifichi qualità e aspirazioni della sua metà femminile: sono tutti obiettivi più a portata di mano con l’America che senza l’America o contro l’America. Ecco perché la vittoria di Joe Biden è stata accolta con tanta soddisfazione da tutti i leader europei. Da sola non basterà a rimettere in carreggiata multilateralismo e internazionalismo liberale, né risolverà magicamente i problemi ambientali. Neppure cambierà la realtà di una crescita relativa del ruolo cinese nel mondo o delle tensioni esplosive del Medio Oriente: ma ci fa guadagnare tempo, ci fornisce rassicurazioni sul metodo e sulla responsabilità con cui Washington si muoverà nei prossimi quattro anni. Ci offre, in sintesi, maggiori speranze di successo.

“I musulmani europei sono la chiave per battere gli islamisti”. Intervista a Wael Farouq

 

 

I recenti attacchi di matrice jihadista, a Nizza e Vienna, stanno riportando al centro, nell’opinione pubblica europea, il ruolo dell’Islam in Europa. Ne parliamo, in questa intervista, con un importante intellettuale di fede musulmana: il professor Wael Farouq.. Wael Farouq è professore di Lingua e  Cultura Araba all’Università Cattolica di Milano.

 

 

 

 

Professor Wael Farouq, nel giro di pochissimi giorni, con gli attentati di Nizza e Vienna, l’occidente è tornato ad essere un bersaglio dei terroristi jihadisti. Sappiamo che il terrorista di Vienna era un “soldato” dell’Isis (cittadino austriaco dalla doppia cittadinanza austriaca e macedone). Lei pensa che ci troviamo ad una “nuova ondata” di attacchi terroristici da parte del sedicente” stato islamico”? Pensa che la jihad stia approfittando della pandemia per destabilizzare ancora di più l’occidente?

 Non si tratta di una cosa nuova né di una sorpresa, ma di un fenomeno atteso da quando l’ISIS è stata sconfitta in Siria e Iraq. Delle migliaia di jihadisti che erano concentrati in questi due paesi si sono perse le tracce, non si sa dove sono e come sono spariti. Da anni, inoltre, il terrorismo ha adottato la strategia dei lupi solitari. Un terzo fattore, poi, sono paesi come la Turchia che si oppongono alle politiche europee con una propaganda di natura religiosa. Certo, Erdogan non invita nessuno al jihad, ma affermare che la violenza jihadista sia la naturale conseguenza di queste politiche può avere lo stesso effetto di questo invito.

 

Sappiamo che la propaganda jihadista, ma è anche quella di Erdogan, che si alimenta nel disagio economico e sociale in cui vivono alcune comunità musulmane in Europa. Le chiedo qual è la situazione delle comunità musulmane in Europa? La comunità musulmana è davvero ai margini in Europa?

 Non c’è metropoli europea, oggi, che non abbia una “società parallela” nella quale vivono le minoranze di immigrati fino alla quarta generazione, senza un incontro vero con l’altro. I tentativi di integrare gli immigrati nelle loro nuove società non hanno fatto altro che rendere le barriere culturali e religiose “invisibili” nello spazio pubblico. Di conseguenza, si è radicato un certo concetto di pluralismo che ha trasformato lo spazio pubblico da melting pot, dove si incontrano e interagiscono positivamente le diverse componenti culturali della società europea contemporanea, in “confini” che separano queste componenti fra loro.

Il mio non è certo un appello affinché l’Europa rinunci a ciò che più caratterizza la sua cultura oggi, cioè il pluralismo. Al contrario, è un appello a proteggere il pluralismo da ciò che ha iniziato ad assumere le sembianze del “comunitarismo”, cioè il ripiegarsi di una comunità culturale su se stessa, attraverso la creazione di confini invisibili che la separano dalla società, della quale occupa uno spazio senza tuttavia condividerne il significato, l’identità e il futuro.

Ci sono milioni di musulmani europei che sono a tutti gli effetti occidentali. Ma vivono in ghetti, sono invisibili. Questa è una falsa integrazione. Un’Europa fedele ai suoi principi dovrebbe rendere visibili questi suoi cittadini, nella società civile, nell’università, nei partiti politici, nel governo. Integrazione significa visibilità.

 

 

Come può rispondere l’unione europea a questa propaganda?

 Le faccio un esempio. Nel 1978, allo scoppio della rivoluzione iraniana, il celebre filosofo Michel Foucault era a Teheran come inviato del Corriere della sera. Descrisse il conflitto in corso dicendo che “La situazione in Iran si può comprendere come una grande tenzone fra due personaggi dal blasone tradizionale, il re e il ‘santo’, il sovrano in armi e il povero esule, il tiranno che combatte un uomo inerme acclamato dal popolo.”

Foucault invitava a stare tranquilli e faceva propaganda a Khomeini per un “governo islamista”. Diceva che gli uomini di religione non erano soltanto democratici, ma anche portatori di una visione politica innovativa: “Bisogna chiarire una cosa, con l’espressione ‘governo islamico’ nessuno, in Iran, intende un regime politico, nel quale gli uomini di religione detengono il potere e il governo.”

Foucault cercava anche di rassicurare i lettori francesi riguardo ai diritti della donna e delle minoranze religiose. Le sue fonti, vicine agli islamisti, gli assicuravano che: “Le libertà continueranno a essere rispettate, fintanto che il loro esercizio non nuocerà agli altri. Le minoranze godranno di tutela e libertà, e potranno vivere come desiderano, a condizione che non nuocciano alla maggioranza. Vi sarà uguaglianza fra uomini e donne, ma anche diversità, in considerazione delle differenze naturali fra loro.”

Foucault criticava i timori europei riguardo all’ “islam”, confondendolo con l’islamismo o islam politico, e contribuendo così a difendere l’oppressione operata da Khomeini nei confronti di milioni di donne iraniane, con la deprivazione dei loro diritti fondamentali.

Ecco, purtroppo l’Europa ha sempre trattato i movimenti islamisti come liberali, mentre in realtà non lo sono. L’Europa, allora, dovrebbe semplicemente restare fedele ai suoi valori e non sostenere tali gruppi e movimenti

 


Veniamo a Erdogan. Sappiamo quanto sia pericoloso il suo nazionalismo “religioso”. Uno dei gesti più eclatanti è stato quello di ritrasformare “Santa Sofia” in una moschea. Un gesto arrogante. Lei ha definito questo gesto come di conquista politica che non c’entra nulla con la fede. Perché?  Cosa pensano i teologi musulmani dei comportamenti di Erdogan? Perché non si ribellano a questa strumentalizzazione della fede?

Non è vero, i teologi musulmani si sono ribellati. Le più importanti cariche islamiche in Arabia Saudita – dove si trovano i luoghi santi dell’islam – e in Egitto – patria di al-Azhar, la più alta autorità sunnita – hanno subito dichiarato che la decisione di trasformare Santa Sofia in moschea è contraria agli insegnamenti dell’islam, perché il Corano non fa differenze riguardo alla necessità di tutelare sinagoghe, chiese e moschee (Co 22, 40). È anche contraria alla condotta tenuta dal Profeta con le chiese di Najran, nello Yemen, a quella del suo Compagno Amr ibn al-As con le chiese e i cristiani egiziani, e a quella del Compagno e Califfo Umar ibn al-Khattab, che strinse un patto con i cristiani di Gerusalemme, nel quale era scritto: “Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso… Questa è la sicurezza (aman) che il servo di Dio e Principe dei Credenti Umar ha garantito alla gente di Gerusalemme: ha garantito la sicurezza per loro stessi, le loro ricchezze, le loro chiese e le loro croci […] Le loro chiese non vanno usate come abitazioni, né distrutte, né va loro tolto alcunché […]. Non vanno costretti a cambiare religione, non deve esser fatto loro alcun torto”. Il Califfo si rifiutò di pregare nella Basilica del Santo Sepolcro per paura che dopo di lui i musulmani la distruggessero e la trasformassero in moschea. I giuristi dell’islam politico rifiutano questa fatwa, ma non ribattono con prove valide dal Corano o dalla Sunna, bensì con opinioni di giuristi ottomani che hanno dichiarato lecito per i sultani uccidere i loro fratelli per evitare rivolte.

 


Qual è l’errore più grande dell’Europa nei confronti dell’Islam?

Ho già risposto, credo, a questa domanda. L’errore più grande è stato confondere l’islam con l’islam politico. I musulmani sono le persone di fede islamica. Gli islamisti sono quelli che trasformano la religione in ideologia e sono pronti a morire e uccidere per renderla dominante. Una persona che prega, digiuna e rispetta la propria tradizione religiosa è un musulmano, ma una persona che considera la propria tradizione religiosa come un progetto politico per purificare le altre tradizioni (che ritiene corrotte) è un islamista. Il musulmano crede che Dio lo protegga, l’islamista crede che sia lui a proteggere Dio. Il musulmano si preoccupa della propria fede, l’islamista si preoccupa della fede degli altri. Il musulmano, quando non ama qualcosa, non lo fa; l’islamista, quando non ama qualcosa, proibisce agli altri di farlo. Il musulmano testimonia la propria fede di fronte agli altri, l’islamista giudica la fede degli altri.

L’islam politico, in sostanza, non è una scelta che si fa per se stessi, ma una scelta che si cerca in tutti i modi di imporre agli altri.



Il tema della satira riguarda tutti i sistemi di potere sia politico che religioso. È un segno di libertà nei confronti di qualsiasi potere. La offendono le vignette di Charlie Hebdo?

No, non mi offendono. Ci sono molti versetti coranici che insegnano ai musulmani come reagire alla derisione di Dio, dello stesso Corano e dei profeti. Tutti quanti chiedono di rispondere al male con il bene. Non c’è un solo versetto che preveda una punizione per blasfemia.

“Egli vi ha rivelato nel libro che quando sentirete rinnegare i segni di Dio oppure li sentirete deridere, non dovrete restare con coloro che lo fanno, finché non cambieranno discorso” (Sura 4:140).

“Quando vedi la gente che discute dei Nostri segni, dà loro le spalle finché discuteranno d’altro. Ma Satana te lo farà dimenticare e comunque, quando lo ricorderai, non trattenerti con gli ingiusti” (Sura 6:68)

“Il bene e il male non sono uguali; tu respingi il male con un bene maggiore, e il nemico sarà per te un amico sincero” (Sura 41:34)

“I servi del Clemente sono quelli che camminano sulla terra con umiltà e quando gli ignoranti si rivolgono a loro rispondono ‘Pace’ ” (Sura 25:63)

Anzi, il Corano stabilisce che la difesa dell’islam, del suo Libro e del suo Profeta non è in alcun modo affidata ai musulmani, ma spetta solo a Dio.

“Noi ti bastiamo contro quelli che si burlano di te” (Sura 15:95)

“Noi riveliamo il monito e noi ne siamo i guardiani” (Sura 15:9)

Per questo, secondo quanto riporta la tradizione islamica, il califfo ben guidato Umar b. al-Khattab (634 – 644 d.C.) ha detto: “Lasciate perire l’iniquo tacendo su di esso”.

 


Un altro fronte di confronto con l’islam è quello della laicità. Un tema antico. Dal suo punto di vista sono davvero incompatibili islam e laicità? Può nascere una inculturazione dell’Islam in Occidente?.

Questo tipo di domanda nasce dalla confusione già citata fra islam e islamismo, perché l’islamismo ha ridotto l’islam alla politica e a una lotta per il potere, presentando una lettura dei testi sacri secondo la quale possedere il potere è il punto di partenza per costruire una società islamica, ma questo non c’entra nulla con l’islam.

I musulmani europei sono la chiave per battere gli islamisti. Questi musulmani sono un vantaggio, non una minaccia, se capiamo che essi non rappresentano l’Islam in Europa, ma sono europei musulmani. Pensiamo a un ragazzo nato qui, che parla italiano, ma non la lingua dei genitori, che guarda film italiani, che mangia cibo italiano, che legge libri italiani: come possiamo dire che non sia un occidentale? Di fede musulmana, ma è un occidentale. Distinguere fra occidente e islam è un errore, forse il più grave pregiudizio che si sta compiendo in Europa. L’islam europeo è un dono che stiamo ricevendo e potrebbe essere un grande vantaggio. È a loro che dobbiamo chiedere di dare l’esempio. La prima linea di resistenza contro l’Isis sono gli europei musulmani. L’Islam europeo è l’unico vaccino che può immunizzare l’Europa contro il virus dell’Isis.

 

Per tornare al terrorista di Vienna era un giovane che aveva seguito un programma di deradicalizzazione. Poi è ricaduto nello jihadismo. Insomma la integrazione, per alcune persone, è assai difficile da realizzare.

Quando accade questo genere di attentati si trovano sempre coinvolti due tipi di musulmani: quelli integrati e quelli non integrati. Per esempio, a Vienna ci sono stati tre musulmani, due turchi e un palestinese, che hanno aiutato la polizia dopo l’attentato e salvato la vita a un poliziotto e c’è stato l’assassino. Quello che non potrà mai essere integrato in Europa è l’islam politico, perché vuole per forza cambiare il potere. Bisogna, però, fare anche attenzione a non generalizzare, perché ci sono tantissimi giovani europei di origine straniera che sono sempre giudicati in base al colore della loro pelle. Un ragazzo italiano di origine cinese, per esempio, mi ha detto che ogni volta che visita Pechino nessuno lo chiama col suo nome: lo chiamano “banana”, perché è giallo fuori (per il colore della sua pelle) e bianco dentro (per la sua cultura). Molti italiani di origine straniera si sentono come lui: estranei nelle loro società di origine, a causa della loro cultura, ed estranei nella società italiana, a causa della loro etnia e del colore della loro pelle.

 

Come raggiungere questo obiettivo?  Cosa vuol dire, per lei, integrazione?

Integrazione, in realtà, è un termine che io non amo molto, perché è qualcosa che può avvenire solo fra forme rigide. L’integrazione è un compromesso fra due parti, ognuna delle quali ritiene che sia l’altra a dover cambiare per adattarsi a lei. Ci integriamo per evitare il conflitto, ma se il conflitto fra stereotipi è pericoloso, il dialogo fra stereotipi lo è ancora di più, perché nel primo sappiamo che c’è qualcosa di sbagliato e cerchiamo una soluzione, mentre nel secondo non avvertiamo il cancro che si diffonde, se non poco prima che deflagri o causi la morte.

In Europa sono affiorate enormi difficoltà con i vari modelli di integrazione, soprattutto con quello inglese e francese.  Il modello inglese di integrazione, nonostante la sua grande apertura verso le religioni e l’accettazione della loro presenza nello spazio pubblico, è fallito ed è fallito anche il modello laico francese che esclude le religioni e criminalizza la loro presenza nello spazio pubblico. Questo è accaduto, perché entrambi i modelli – malgrado la forte differenza fra loro – hanno in comune l’esclusione della persona a vantaggio della forma. Il modello inglese integra l’Islam come religione, ma ciò significa integrare un insieme di simboli e stereotipi a discapito del pluralismo e delle differenze fra credenti. In altre parole, nello spazio pubblico è presente la religione, non la persona. Nel modello francese, invece, integrazione significa che i cittadini, per accedere allo spazio pubblico, devono rinunciare a gran parte di quanto pensano sia la fonte del loro essere. Pertanto, anche questo modello ha come risultato l’assenza della persona in tale spazio.

Preferisco quindi usare il termine interazione che invece coinvolge le persone.

 

Come vede l’opera di Papa Francesco nel dialogo con l’islam?

Ricordo che l’anno scorso, quando fui ricevuto dallo sheykh di al-Azhar nel suo ufficio, lui ci chiese di unirci in preghiera per Papa Francesco, affinché Dio gli desse salute e forza per continuare la sua lotta per il bene dei poveri, dei deboli e degli oppressi, e continuare la sua battaglia contro la malattia più pericolosa del nostro tempo, cioè l’indifferenza.

Non è difficile oggi, nel mondo islamico, trovare chi afferma di prendere esempio da Papa Francesco, di amarlo, o semplicemente di rispettarlo. Il Papa gode di ampia popolarità fra i musulmani, non solo per le sue ripetute dimostrazioni di rispetto verso l’islam. Non solo per la sua solidarietà con le cause dei musulmani, come nel caso del riconoscimento dello Stato palestinese. In tutto ciò, il Papa non fa altro che mantenere la tradizione della chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano II. La sua popolarità non è neppure dovuta al fatto che lui è uno dei pochi leader mondiali a pronunciarsi apertamente contro il commercio delle armi, le guerre e il monopolio dei mercati alimentare e farmaceutico da parte delle multinazionali. La sua popolarità non è dovuta alla difesa dell’ambiente, né alla richiesta che il nord del mondo si assuma la responsabilità di aver immiserito e sfruttato il sud povero. Queste prese di posizione di fronte a grandi questioni politiche ed economiche come quelle citate sono, in fondo, prese di posizione comuni anche ad altri leader spirituali, i quali, purtroppo, non hanno il potere materiale di cambiare le cose. Il segreto del carisma di papa Francesco sta nella sua capacità di restituire valore alle piccole cose e al ruolo cruciale che esse giocano nel cambiare il mondo e noi stessi. Con ogni sua azione e parola, in tutto quel che noi pensiamo sia un demone, il Papa ci fa vedere, invece, un angelo che sbatte le ali.

Pregiudizio e odio sono alimentati dal vuoto, crescono nel vuoto, il vuoto è il loro primo alleato. Pertanto, il segreto per vincere odio e pregiudizio è la presenza. E Papa Francesco ha fatto una cosa in fondo molto semplice: ha riempito il vuoto, e i cuori, per combattere pregiudizio e odio. Il Papa non fa dialogo, ma porta una presenza.

Padre Sorge, da Sturzo aI Concilio Vaticano II. Intervista a Rocco D’Ambrosio

Padre Bartolomeo Sorge (Ansa)

Padre Bartolomeo Sorge (Ansa)

La morte di Padre Bartolomeo Sorge, avvenuta ieri mattina a Gallarate, ha lasciato un grande vuoto nel cattolicesimo italiano. Ma è tutta la cultura del nostro Paese che piange la scomparsa del grande gesuita. Con il professor Rocco D’Ambrosio, docente di Filosofia della Politica alla Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Gregoriana, in questa intervista ripercorriamo alcuni punti del suo pensiero.

Professore, il cattolicesimo italiano è in lutto. La morte di Padre Bartolomeo Sorge, gesuita ex direttore di Civiltà Cattolica e di Aggiornamenti Sociali, lascia un grande vuoto nel pensiero cattolico sociale contemporaneo. Per alcuni in padre Sorge ha incarnato, in modo esemplare, la teologia del Concilio Vaticano II. È così professore?
Certamente si! Il suo pensiero e il suo agire ecclesiale sono in perfetta linea di attuazione del Vaticano II. Tutte le volte che ho avuto modo di confrontarmi con lui ho sempre avuto la percezione che il suo profondo spirito conciliare partisse dal desiderio di rinnovare la nostra spinta di evangelizzazione, senza mai disgiungerla da un’attenta analisi della realtà sociale e politica. Lo dico anche relativamente a quando, da discepolo, non condividevo la sua linea magisteriale: mi riferisco alla “ricomposizione dell’area cattolica”. Su di essa gli presentavo diverse perplessità, eppure anche in esse la sua intenzione era limpida: non perdere il patrimonio di pensiero sociale cattolico e permettere che potesse ancora ispirare azioni positive; al di là delle strategie pratiche.

Padre Sorge non è stato solo un raffinato teologo ma è stato un precursore della “Chiesa in uscita” di Papa Francesco. Ricordiamo, a questo proposito, il grande convegno della Chiesa italiana su “Evangelizzazione e Promozione umana”. Una Chiesa che si fa prossimo all’uomo contemporaneo.
Il Convegno “Evangelizzazione e promozione umana” del 1976 fu presieduto dal card. Antonio Poma, presidente della Cei, affiancato da mons. Luigi Maverna, da padre Bartolomeo Sorge e da Giuseppe Lazzati. Gli interventi fondamentali furono affidati a mons. Giovanni Nervo, Paola Gaiotti, Achille Ardigò, Giuseppe De Rita e mons. Filippo Franceschi. Fu un convegno decisivo per la Chiesa Italiana e Sorge ne fu fattivo protagonista e umile tessitore. L’aspetto del farsi prossimo fu conferma e sprono per tutti quei pastori e fedeli laici che erano impegnati nel mondo, specie nel servizio di carità.
Ma voglio anche ricordare una nota non tanto positiva. Qualche tempo fa, lo stesso padre Bartolomeo lamentava che “i vescovi lasciarono cadere le due principali proposte del Convegno: l’introduzione nella Chiesa italiana dello «stile del con- venire» (come allora si chiamava la «sinodalità») e la nuova concezione di missionarietà, diversa dalla pastorale classica tradizionale” (La Civiltà Cattolica, q.4062). Parole su cui meditare tanto, visto che, i diversi appelli di papa Francesco per un sinodo della Chiesa italiana, sono ancora inascoltati da pastori e fedeli laici!

Come intende, profondamente, la sua ammirazione per l’arcivescovo martire
del Salvador Oscar Romero. Una fede per liberazione. È così? 
È certamente così. Padre Bartolomeo ha saputo cogliere il nucleo profondo della teologia della liberazione, proprio attraverso testimoni autentici quali Romero. Questo ci permette di sottolineare come il patrimonio di altre Chiese, specie relativo alla testimonianza nel mondo, può diventare fecondo anche in Chiese lontane, purché ci sia un lavoro di studio e discernimento profondi, che superando le riduzioni giornalistiche o i protagonismi pacchiani, aiutano le nostre chiese a essere sempre più autentiche, “in uscita” direbbe papa Francesco.

Padre Sorge è un vero maestro di dottrina sociale della chiesa e, quindi, un vero intellettuale politico. In questo senso qual è la sua eredità di pensiero per i cattolici impegnati in politica?
Parlerei di un’eredità pensata e attiva. Vede, la dottrina sociale, o magistero sociale della Chiesa cattolica, è spesso citata in maniera retorica e sterile, cioè la si pensa solo come una raccolta di grandi principi etici. Era proprio padre Sorge a ricordare spesso la Octogesima adveniens di Paolo VI: “Spetta alle comunità cristiane individuare, con l’assistenza dello Spirito santo, – in comunione coi vescovi responsabili, e in dialogo con gli altri fratelli cristiani e con tutti gli uomini di buona volontà – le scelte e gli impegni che conviene prendere per operare le trasformazioni sociali, politiche ed economiche che si palesano urgenti e necessarie in molti casi”. Se i cattolici non si impegnano concretamente per il bene del nostro Paese e del mondo, se le comunità non pongono segni in controtendenza con chiusure, illegalità e mafia, razzismi, corruzione, populismi e liberismo sfrenato… meglio non citarla la dottrina sociale! Anche questo ci ha insegnato padre Bartolomeo.

È stato anche un grande uomo di dialogo. Insomma una vita contro ogni forma di integralismo. È così?
Si lo è. Ed è bello ricordare non la sua “testa” ma anche il suo cuore e i suoi modi: un tratto gentile, pieno di humour, cordiale e affettuoso. Lode a Dio anche per questi suoi doni!

Non si può dimenticare il suo impegno antimafia nella stagione della “Primavera di Palermo” La politica vista come ribellione etica e culturale alla non cultura mafiosa. Anche questa è una preziosa eredità. È così?
Ricordo una volta che andai in aeroporto a prenderlo perché partecipasse a uno degli incontri con le scuole di Cercasi un fine. Mi raccontò di Palermo, del suo impegno li, della collaborazione con padre Pintacuda e soprattutto di lotta alla mafia mafia e impegno alla legalità. In alcuni momenti le parole erano così cariche di emozioni e tensioni da poter palpare il tutto. Ma poi o una battuta o un riferimento “alto” gli facevano riacquistare un sorriso carico di speranza.

L’ultima sua battaglia politica e culturale è stata contro il sovranismo e il populismo. Dure sono state le sue parole contro la cultura leghista. In questo è stato davvero intransigente. Quale pericolo vedeva per la democrazia italiana?
Un po’ il pericolo che vediamo tutti: sovranismo e populismo, in Italia e nel mondo, minano la democrazia sin nei suoi fondamenti. Le sue parole chiarissime: “In questo tempo si è fatta largo la convinzione che la maggioranza parlamentare si identifichi con il popolo intero, e i leader dei movimenti populisti hanno portato all’imbarbarimento culturale, avvelenando la società italiana con odio, egoismo, discriminazione delle persone immigrate, razzismo e xenofobia”.

Ultima domanda: possiamo definire padre Sorge come il continuatore del popolarissimo sturziano?
Credo proprio di si, tra i pochissimi a farlo. Il popolarismo è una dottrina difficile: per comprenderla bisogna studiare bene sia la vita che il pensiero di Sturzo e per attuarla bisogna lavorare molto su alcuni meccanismi sociali ed economici che sono il cuor e del popolarismo. Padre Bartolomeo l’ha fatto egregiamente.