“L’ITALIA DEVE STARE AGGANCIATA ALL’EUROPA CHE NEL 2021 TORNERÀ A CRESCERE”. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Ieri il Senato ha confermato la fiducia al governo sulla Manovra. Il provvedimento è quindi approvato in via definitiva dal Parlamento. Parallelamente il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, nella rituale conferenza stampa di fine anno, ha spiegato le intenzioni del Governo circa il Recovery Fund, dicendo che conta di andare in Consiglio dei ministri già nei primi giorni di gennaio e poi subito in Aula. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0, cercando di capire anche come si muoverà l’economia nel nuovo anno.

Sabella, si chiude un anno molto complicato e non solo da un punto di vista sanitario naturalmente. Considerando i problemi dell’economia, cosa c’è di interessante nella manovra di bilancio?

È da marzo che il governo Conte fa manovre economiche. Gli va riconosciuto un grosso sforzo tenendo conto, soprattutto, che al momento è stato fatto tutto in deficit considerato anche che le risorse dei fondi europei saranno a disposizione soltanto dal prossimo anno. Tra l’altro, se vi sono questi fondi è anche merito del governo italiano. Ciò premesso, sono state tutte manovre di contenimento, finalizzate a evitare il crollo dell’economia. Tuttavia, nella legge di bilancio appena votata vi sono misure interessanti che non sono soltanto di contenimento; sono provvedimenti che agiscono su quella che potremmo definire l’economia di domani. Resta il fatto che i conti veri e propri col futuro li faremo col Recovery Fund. Conte dice che a febbraio il governo sarà pronto ma le incognite sono tante. Questo governo arriva a febbraio? Ma, soprattutto, credo che questo governo abbia quantomeno bisogno di qualche innesto di sostanza e di esperienza – soprattutto in ambito di sviluppo economico e di politica industriale – per gestire il Recovery Fund che è la grande occasione che ha l’Italia per restare tra le economie avanzate. Se la perdiamo, i costi saranno ingenti.

Andiamo con ordine rispetto a ciò che dice, quali sono i provvedimenti che le paiono interessanti in ottica futura?

Le misure sulla digitalizzazione, il superecobonus, gli incentivi per l’auto elettrica, l’investimento sul personale medico infermieristico, gli ammortizzatori sociali per le partite iva, il fondo per la parità salariale di genere… ecco, queste sono tutte misure che guardano avanti, a cominciare dall’investimento nell’infrastruttura digitale. Teniamo poi conto che il quadro normativo edilizio è ancora quello del 1942 e oggi è necessario realizzare interventi in ambito di efficienza energetica, antisismici, di installazione di impianti fotovoltaici o delle infrastrutture per la ricarica di veicoli elettrici negli edifici. A ogni modo, gli incentivi per l’auto sono anche per il motore a combustione e per le ibride. Il mercato italiano registra un calo di circa il 30%: sono misure che consentono di rimettere in moto la filiera. E proprio l’auto elettrica sarà uno dei simboli del ciclo alle porte.

Non è di questo avviso Akio Toyoda, il numero uno di Toyota oltre che presidente di Japan Automobile Manufacturers Association, l’associazione dei costruttori di automobili giapponese che denuncia i costi energetici e sociali insostenibili della mobilità elettrica…

Mah… sono dichiarazioni che lasciano il tempo che trovano e che a me sembra vogliano minimizzare il grande sforzo industriale che sta facendo l’Europa e che ha tra i suoi obiettivi più importanti proprio la mobilità elettrica. In tutto il mondo cominciano ad avere chiaro che sarà un po’ meno facile penetrare nel mercato europeo. Del resto, il grande investimento che l’UE sta facendo col Recovery and Resilience Facility (o Recovery Fund) starà in piedi se in primis il mercato europeo risponderà all’industria locale. E poi non dimentichiamoci due cose: tutto il mondo, anche gli USA, percepisce la nascente Stellantis come europea; e tutte le superpotenze – USA, Cina e anche Giappone – hanno chiaro che l’UE col suo Green Deal ha lanciato un nuovo multilateralismo che rafforzerà la sua egemonia. Ciò non vuol dire che USA e Cina, in particolare, staranno a guardare; significa però che l’Europa sta uscendo da un ciclo di crescita debole ed è, a ragion veduta, osservata speciale.

Cosa temono in particolare Cina e USA del nuovo corso europeo?

L’Europa sta viaggiando spedita verso la carbon neutrality. Questo non è soltanto un aspetto ambientale ma è anche un fattore di nuovo business che va dalla mobilità elettrica alle energie rinnovabili. Ora: è vero che rispetto a USA e Cina abbiamo un ritardo in innovazione digitale – anche questo è fattore che contribuisce alla sostenibilità delle produzioni – ma è anche vero che nessuno come la UE ha reso così sistemica la politica economica per lo sviluppo sostenibile. Ancora, non è soltanto un discorso di conformità all’Agenda Onu 2030 e di responsabilità sociale… il punto vero è che il vecchio modello di sviluppo ha ormai esaurito la sua spinta: pensiamo al petrolio e a ciò che è successo ad aprile negli USA: chi investirà ancora in un sistema che non garantisce più profitti?

Ma, riprendendo le parole di Toyoda, sono sostenibili i costi della transizione ecologica ed energetica?

Intanto non dimentichiamoci che “salvare il pianeta” non è solo uno slogan ma è una missione che non possiamo fallire: anche questo è segno della fine del modello di sviluppo legato al motore a combustione. Si dice, tra l’altro, che il motore elettrico è più piccolo della metà rispetto a quello tradizionale e che, quindi, a livello di componentistica e di manodopera richieda molto meno di ciò che richiedeva prima. Ricordiamoci però che lo stesso motore a combustione è più piccolo del 40% rispetto al motore che si produceva negli anni ‘80. Questo per dire che il progresso tecnico scientifico è inevitabilmente legato ad un fattore di efficienza che ottimizza non solo la fatica ma anche il lavoro. Questo da sempre è ciò che caratterizza le rivoluzioni industriali. La verità, invece, è un’altra: non torneremo a crescere se non colmiamo il gap di innovazione digitale che abbiamo nei confronti di USA e Cina, i Paesi che più hanno investito in intelligenza artificiale e che fino a prima della pandemia non manifestavano particolari scompensi da un punto di vista dell’occupazione. Proprio perché, per dirla con Schumpeter, l’innovazione distrugge ma allo stesso tempo crea.

A proposito di USA e Cina, come vede le due superpotenze nel corso che viene?

Gli USA faranno più fatica di noi a riprendersi dalla pandemia per via di un sistema sanitario che ha mostrato tutti i suoi limiti in questa fattispecie. Per quanto riguarda la Cina, non sono del parere di Prodi e Forchielli che continuano a vedere questa crescita forte del Dragone. Credo invece che i cinesi avranno qualche problema serio. In primis perché Joe Biden riavvicina il mondo anglosassone a quello europeo e questo riavvicinamento avrà come obiettivo di contenere l’avanzata della Cina, anche in ragione di elementi che il mondo occidentale fa sempre più fatica a tollerare: si pensi alla repressione di Hong Kong ma anche alla gestione fortemente autoritaria della pandemia. In secondo luogo perché alcuni nodi verranno al pettine: Xi Jinping ha una forte opposizione interna che potrebbe portare ad una seria crisi politico-istituzionale. E non è da escludere nemmeno che allo stesso tempo emergano le fragilità strutturali di quel sistema che si è sviluppato in modo molto accelerato negli ultimi due decenni: qualche problema per Pechino arriverà anche da noti aspetti demografici oggi sempre più seri – ricambio generazionale debole, città che si spopolano, carenza di forza-lavoro ad es. – e dalla crescente siccità nella Cina settentrionale. Le stesse proiezioni della Via della seta non sono più così ispirate. In un modo o nell’altro, il rapporto tra la Cina e il resto del mondo cambierà.

La ripresa europea farà bene all’Italia? E come il nostro Paese può approfittarne?

Quella che si presenta è un’opportunità storica. L’Italia non è solo il secondo Paese manifatturiero d’Europa ma è anche potentemente integrata con la grande piattaforma tedesca. La locomotiva europea tornerà a correre e con lei anche la nostra manifattura, in particolare metalmeccanica (che vale il 50% del nostro export). Resto quindi dell’idea che la ripresa che nel secondo trimestre del 2021 cominceremo ad avvertire in modo evidente – anche per merito dei vaccini – e che nel terzo e quarto crescerà progressivamente, toccherà anche il nostro Paese. Noi dobbiamo sfruttare la forza del nostro made in Italy e incentivare lo sviluppo – anche a livello di competenze – di quei settori che costituiranno l’economia di domani: economia circolare e energie rinnovabili. Certo, dobbiamo fare sistema: non si può fare battaglie contro la Tap e poi volere l’Ilva a idrogeno.

“L’Italia deve ridefinire le alleanze in Libia”. Intervista Michela Mercuri

Lo scenario libico torna al centro dell’attenzione internazionale. Cosa si sta muovendo in Libia? E per l’Italia esiste la possibilità di giocare un ruolo importante? Ne parliamo con la Professoressa Michela Mercuri, docente universitario, analista, consulente, autrice, editorialista e opinionista della storia e la geopolitica del Mediterraneo.

Professoressa Mercuri, la LIBIA torna all’attenzione della pubblica opinione internazionale. L’occasione è stata data dalla liberazione pescatori di Mazara del Vallo sequestrati dalle milizie del signore della guerra della Cirenaica: il generale Haftar.. Liberazione avvenuta dopo l’incontro Conte e Di Maio con il leader libico. Una missione che ha fatto discutere il mondo politico italiano, tanto che i due rappresentanti del governo saranno presto sentiti dal Copasir. Di Maio ha smentito ogni tipo di scambio scabroso (scafisti). Da più fonti si parla anche di un intervento di Putin a favore degli ostaggi, come pure degli Usa. Insomma un incrocio di pressioni. FERMO RESTANDO che era doveroso portare a casa i nostri pescatori, alcuni si DOMANDANO qual è la contropartita promessa ad Haftar?


Da quello che ci è dato sapere, il prezzo pagato può essere definito un “prezzo politico” che, nei fatti, è stato l’implicito riconoscimento di Khalifa Haftar quale leader della Cirenaica. Il generale voleva che le massime cariche dello Stato italiano andassero da lui affermandone, de facto, la leadership e ci è riuscito. Un prezzo necessario per portare a casa i nostri pescatori, ma un prezzo che è più caro di quanto possa sembrare. Haftar, infatti, nonostante, sia stato ricevuto in pompa magna nei vari summit internazionali, compreso il vertice di Palermo del 2018, non ha alcun riconoscimento internazionale. E’ un generale che si è messo a capo di un esercito chiamato Esercito nazionale libico (Lna) che nell’aprile del 2019 ha ufficialmente dichiarato guerra al Governo di accordo nazionale (Gna) di Tripoli, con a capo Fayez al-Sarraj, arrivando quasi a conquistare la capitale. E’ stato fermato solo dall’intervento della Turchia che ha fornito armi e mercenari alle milizie dell’ovest. Tuttavia Haftar, che sembrava oramai sconfitto, è riuscito sia grazie a questa mossa sia grazie all’accordo per la ripresa della produzione di petrolio, realizzato con il vice premier libico Ahmed Maitiq, a resuscitare dalle sue ceneri. Ora “l’araba fenice”, forte del supporto di Russia, Egitto, Francia, Emirati e del formale riconoscimento da parte dell’Italia è di nuovo uno degli attori più influenti dell’est. Per questo è probabile che aspiri a un ruolo politico nei futuri assetti del Paese.

Per quanto riguarda Putin, vicino ad Haftar, è possibile che sia stato uno dei protagonisti delle trattative. Difficile dire se l’intercessione di Mosca sia stata favorita da una telefonata dell’ex premier Silvio Berlusconi, con cui il leader del Cremlino continua a mantenere buoni rapporti personali, o da una richiesta da parte del nostro governo, con cui i rapporti sono meno solidi. Tuttavia ritengo che un ruolo importante sia stato giocato anche da intese intra-libiche mediate attraverso Ahmed Maitiq, l’unico interlocutore dell’ovest con cui Haftar sembra disposto a trattare. Escludo, invece, che vi sia stato lo scambio di prigionieri richiesto dal generale ma è plausibile ipotizzare che durante l’incontro tra Haftar, Conte e di Maio se ne sia parlato, magari in termini di una possibile revisione dei processi. Una vicenda necessariamente fumosa che non è facile da interpretare, ma una cosa è evidente: nonostante le difficoltà i nostri servizi segreti hanno svolto in maniera costante il loro lavoro.

 

Può questa vicenda rappresentare una opportunità per il nostro Paese di rientrare in gioco nella partita libica?


Riallacciando i rapporti con Haftar l’Italia non è rientrata nel teatro libico. O, se lo ha fatto, lo ha fatto da una posizione di netta inferiorità, necessaria, però, a riportare a casa i nostri pescatori, che ritengo sia la cosa più importante. Ci sono attori ben più radicati sul terreno, come Russia, Turchia, Francia ed Egitto che hanno giocato bene la loro partita e ora sono i “player che contano”. Il problema dell’Italia sta nel fatto che, soprattutto negli ultimi anni, ha mantenuto una posizione di “debole equilibrismo” tra Haftar e gli attori dell’ovest, lasciando campo libero ad altri Paesi. Inizialmente abbiamo sostenuto il Governo di accordo nazionale, nato con gli accordi di Skhirat nel 2015, ma nel momento del bisogno, quando Haftar lo ha attaccato, ci siamo tirati indietro, lasciando campo libero alla Turchia che ora controlla l’ovest. Nel frattempo abbiamo anche interrotto il dialogo con Haftar e questo ci è costato caro. Basti ricordare che il primo settembre, proprio quando sono stati sequestrati i pescatori, il ministro degli esteri italiano, Luigi di Maio, si era recato in Libia a incontrare Aquila Saleh (Presidente del parlamento di Tobruk) e Sarraj ma non Haftar. Uno smacco che ha favorito il gesto rabbioso del generale che ha trattenuto per più di 100 giorni i pescatori a Bengasi. Prima di “rimettere mano” al dossier libico e tentare di rientrare in partita è necessario elaborare una strategia politico-diplomatica chiara e lungimirante; decidere che ruolo vogliamo giocare e con chi ma soprattutto “fare pace” con la categoria dell’interesse nazionale e su di esso costruire quel necessario ponte strategico tra politica interna e politica estera.  Senza aver ben chiari questi elementi forse sarebbe meglio fermarsi un attimo a riflettere per non commettere errori che, stavolta, potrebbero essere irreparabili.

Veniamo al quadro generale. La diplomazia sta segnando il passo. E il rischio alto è che si vada sempre più verso una Libia divisa in DUE, egemonizzate da Putin e Erdogan, con buona pace del tentativo ONU di creare un governo unitario. Perché si è dimesso il diplomatico bulgaro, Nicolay Mladenov, inviato speciale ONU? Forse non era credibile?


Una delle partite più complesse attorno a cui ruotano gli equilibri della Libia è quella tra Mosca e Ankara. Tra Turchia e Russia permane uno strano rapporto di competizione/collaborazione che produce una sorta di “pace fredda”. È chiaro che sia la Russia che la Turchia hanno investito un enorme capitale politico, militare e finanziario in Libia ed entrambi vogliono ottenere importanti ritorni geopolitici e materiali. Nessuno dei due può ritirarsi ma nessuno dei due può vincere escludendo l’altro. In Libia, così come in Siria, russi e turchi sono “intrappolati” in una sorta di “competizione anomala” basata sul mantenimento di una linea di comunicazione costante, cercando di escludere colpi bassi o atti eccessivamente ostili. In questo contesto, una spartizione in sfere di influenza turco-russe è uno scenario possibile ma che dovrà tenere conto anche degli altri attori coinvolti nel teatro libico. Se è vero che Mosca e Ankara hanno importanti asset sul terreno, tra cui alcune basi strategiche, ci sono, però, anche altri player interessati alla “ricca fetta” della torta libica. In primis la Francia, che sta rafforzando la partnership con l’Egitto per rientrare in partita. Macron considera al-Sisi un alleato importante in chiave anti-turca, necessario a contrastare le mire espansionistiche di Erdogan in Libia e, più in generale, nel Mediterraneo. Ad aggiungere ancora qualche tassello a questa “lectio magistralis di spietata realpolik” basti ricordare tutti gli altri affari di Macron in Libia. Se da un lato il presidente francese vende armi agli alleati di Haftar, dall’altra non dimentica l’ovest. Di recente l’autorità petrolifera libica (Noc) ha discusso con la Total un aumento della produzione di greggio e lo sviluppo di progetti di cooperazione in vari settori. Questa competizione ha sicuramente influito sulle dimissioni del nuovo inviato speciale dell’Onu in Libia, il bulgaro Mladenov.  Il diplomatico ha parlato di motivi familiari e personali ma, in realtà, quando si parla di “motivi personali” c’è sempre dietro qualcosa di ben più grosso che non può essere detto. E’ probabile che ci siano state pressioni per sostituirlo con un nome gradito a una delle parti in gioco. Probabilmente il diplomatico non era ben voluto dalla Turchia perché considerato troppo vicino agli Emirati arabi uniti. Cosa che sarebbe confermata dal giudizio negativo di Ankara alla sua nomina.

Intanto Le milizie di Haftar hanno occupato la strategica città di Ubari. La città è vicina alle aree petrolifere del Saharara. Li c’è anche un importante aeroporto militare che è strategico per i Russi. Le chiedo c’è da aspettarsi un ennesimo conflitto armato totale, oppure è “solo” un rafforzamento di posizione da Far pesare in una possibile trattativa con Tripoli?

Purtroppo, nonostante gli impegni per una mediazione intra-libica, che si sono svolti anche durante i colloqui di Tunisi dello scorso novembre, temo che in Libia potrebbero tornare a “suonare le armi”. Nel Paese ci sono mosse che stanno passando inosservate dalla più parte dei media ma che non lasciano presagire nulla di buono. Ci sono movimenti di truppe turche vicino a Sirte e Jufra. Se le cose si metteranno male non possiamo escludere che l’Egitto, con la longa manus francese, potrebbe reagire. Il federmaresciallo Haftar, qualche giorno fa, ha fatto appello ai suoi a riprendere le armi per “cacciare l’occupante turco”. Per tutta risposta Ankara ha ribadito che se lo faranno “non avranno un luogo dove scappare”. Inoltre, il parlamento turco ha adottato, di recente, una mozione che proroga di 18 mesi il dispiegamento delle forze in Libia impegnate anche nell’addestramento delle milizie del Gna. Insomma, tutte le pedine del risiko sembrano pronte per un nuovo scontro. Tuttavia, vista l’imprevedibilità del teatro libico è anche plausibile ipotizzare che l’occupazione di Ubari potrebbe non essere il preludio di un’altra guerra ma solo un modo per Haftar di “fare la voce grossa” e di consolidare le sue posizioni nell’est e nel sud del Paese, per avere maggiore potere contrattuale al tavolo negoziale con il governo di Tripoli e per mantenere il controllo delle risorse petrolifere del giacimento di Sharara, uno dei più importanti della Libia. Va detto che i libici non vogliono “impantanarsi” di nuovo in una guerra sanguinosa che li riporterebbe sull’orlo del baratro economico. Chi porta guerra rischia di perdere popolarità nel Paese. E di questo Haftar è ben conscio. Così come ne è ben conscio il presidente egiziano al-Sisi. Pochi giorni fa una delegazione egiziana si è recata a Tripoli. Si mormora anche di una imminente visita di Sarraj in Egitto. Tutti elementi che potrebbero far propendere per nuovi tentativi di trattative.

Un altro fattore di rischio è rappresentato dai fratelli musulmani, che ruolo stanno giocando?

La Libia è il teatro di una guerra che assume anche contorni confessionali. Da un lato la Turchia e i suoi progetti di espansione geopolitica ed egemonica del mondo islamico attraverso lo strumento dell’islam politico e della Fratellanza musulmana, dall’altra il fronte arabo filo-occidentale, guidato dall’Egitto e finanziato, soprattutto, dagli Emirati arabi uniti e dai sauditi che temono l’espansione turca. In questo contesto i Fratelli musulmani sono rimasti molto delusi dal fallimento delle trattive per il nuovo consiglio presidenziale. E’ probabile che credessero che l’attuale ministro dell’interno, Fathi Bashagha, molto vicino alla fratellanza, sarebbe divenuto primo ministro. Questo non è accaduto e ora il loro ruolo appare indebolito soprattutto dopo l’accordo per la ripresa della produzione di petrolio tra Khalifa Haftar e il vicepremier Ahmed Maitiq che ha rinvigorito il ruolo di quest’ultimo. Maitiq è un uomo politico, ma anche uomo di affari, esponente di Misurata ma vicino, tra gli altri, a Usa e Italia e in questo momento anche ad Haftar (a sua volta sostenuto dagli Emirati e dall’Egitto). Insomma, uno che potrebbe mettere tutti d’accordo, ma forse non la Turchia. I giochi per i Fratelli Musulmani sono, dunque, ancora aperti.
Veniamo a al Sarraj. Come sta gestendo l’abbraccio di Erdogan?

In realtà credo che in questo momento Erdogan preferisca “abbracciare” il ministro dell’interno Fathi Bashagha, esponente di Misurata e più vicino ai Fratelli musulmani e questo infastidisce non poco Sarraj che ha assecondato tutti i desiderata di Ankara pur di frenare l’avanzata di Haftar verso Tripoli. La spaccatura tra il leader del Gna e Bashagha è venuta a galla lo scorso 28 agosto quando il ministro dell’interno è stato sospeso dal suo incarico da Sarraj (formalmente) a causa della sua cattiva gestione delle proteste in corso nella capitale. Tuttavia pochi giorni dopo è stato reintegrato. Ordini da Ankara? Probabilmente sì. Dietro lo scontro politico fra il premier onusiano e ministro dell’interno, c’è l’inimicizia fra le milizie tripoline e quelle di Misurata, fedeli al loro concittadino Bashagha. Unite nella lotta al nemico comune, Khalifa Haftar, ora cercano un posto al sole nei futuri equilibri dell’ovest e lo scontro interno è inevitabile. Sullo sfondo c’è la competizione fra Erdogan e alcuni sostenitori di Sarraj, come ad esempio gli Usa. In questa lotta intestina si inserisce anche “l’astro nascente” Maitiq, anch’esso misuratino e ben accetto dagli americani ma anche dagli italiani. Insomma, un gioco a tre, sostenuto da potenze esterne, che sta spaccando il fronte dell’ovest. In questo contesto in ebollizione potrebbe esserci uno spiraglio anche per l’Italia. Basti ricordare che pochi giorni fa Sarraj ha trascorso quattro giorni in visita privata a Roma. Sicuramente non si è trattato di una visita di piacere. Sfruttare questa nuova apertura del leader del Gna restando in buoni rapporti con Maitiq e facendo fruttare quel minimo dialogo riguadagnato con Haftar, seppure in posizione di netta inferiorità, potrebbe fare rientrare l’Italia in partita. Saremo capaci di farlo?
Trump ha lasciato spazio libero A Russia e. Turchia, con effetti devastanti per gli interessi italiani ed europei (a parte quellj francesi). Il nuovo presidente Biden come si muoverà?

Negli ultimi anni Washington ha smesso di essere protagonista nel Mediterraneo, una regione dove un tempo dominava. In questo contesto Biden non paga solo il “disinteresse libico” dell’amministrazione Trump ma anche l’errore dei suoi predecessori. Barack Obama, nel 2011, seppure poco convinto, avallò l’attacco a Gheddafi da parte della coalizione internazionale che portò la Libia nel caos. Poi, nonostante l’uccisione dell’ambasciatore americano Christopher Stevens nel 2012, gli Usa decisero di abbandonare ogni intervento nella crisi libica per delegarne il controllo a un’Europa dimostratasi del tutto incapace di gestire la situazione, anche a causa delle divergenze interne. Tuttavia, in politica estera gli spazi vuoti non esistono e vengono sempre riempiti. In Libia ci hanno pensato da un lato la Turchia e il Qatar e dall’altro la Russia, gli Emirati, l’Egitto e la Francia che, pur essendo parte dell’Unione europea, ha sempre prediletto un approccio atto a perseguire i suoi interessi nazionali. Ad aggiungere benzina sul fuoco, il disinteresse americano al Mediterraneo orientale e meridionale, che ha caratterizzato l’amministrazione Trump, ha permesso alla Russia di impiantare una formidabile rete militare in questa area. Oltre alle roccaforti siriane di Latakia e Tartus e alla presenza militare in Cirenaica, Putin è riuscito a sostituirsi agli Usa nel fiorente mercato della vendita di armi all’Egitto e ad altri Paesi. La partita rischia di ridursi a un gioco a due tra Russia e Turchia, con altri attori comprimari tra cui la Francia. La questione non è certamente semplice. Washington non può abbandonare il Mediterraneo, un mare dove sono presenti alleati strategici e dove Mosca e Pechino ambiscono a sfruttare gli spazi lasciati vuoti dal rimodellamento degli impegni americani, ma per evitare che questi vuoti di potere creino ulteriore instabilità o il rafforzamento di “potenze nemiche” l’unica soluzione è quella di bussare alle porte degli alleati. Scelta che rischia, però, di essere particolarmente complessa: chi sono gli alleati su cui fare affidamento? Sarà questa la domanda a cui dovrà rispondere Biden.

Nel dicembre del 2021 sono previste elezioni politiche in Libia.. UTOPIA?

Vista la situazione appena descritta le elezioni del 2021 paiono una chimera. Prima di indire elezioni è necessario rispettare una road map, come quella proposta durante i colloqui di Tunisi, che prevede alcuni step preliminari fondamentali, tra cui il mantenimento del cessate il fuoco, lo smantellamento delle truppe libiche e dei gruppi armati stranieri presenti sul terreno e la creazione di un nuovo consiglio presidenziale formato dai membri delle tre regioni libiche. Se guardiamo a cosa accade nel Paese non possiamo non notare come questi tre “punti fermi”, in realtà sono in bilico. Il cessate il fuoco rischia di precipitare da un momento all’altro, potenze straniere hanno “piantato” basi sul terreno e non sembra abbiano la minima intenzione di andarsene. Non è stato raggiunto nessun accordo sui nomi dei candidati del futuro consiglio presidenziale, in particolare di colui che dovrà ricoprire la carica di primo ministro del Gna, evidenziando tutte le spaccature politiche presenti all’interno del Paese. Pensare che in un anno si possano superare tutti questi ostacoli è quasi illusorio. Tuttavia, ci avviciniamo al nuovo anno e l’augurio per i libici è che questo percorso possa realizzarsi in tempi brevi.

“IL CRISTO CI RIVELA UN DIO SOFFERENTE E VELATO”. Sermone per la messa di Natale di Padre Maurice Zundel

Ci avviciniamo al Natale. Un Natale, quello che celebriamo in questo anno tragico, pieno di sofferenza e con un futuro sospeso. Grazie ai vaccini intravvediamo una luce per uscire da questo infernale tunnel. Ma la ricostruzione incomincia dentro di noi, nella nostra interiorità. Una meditazione, così forte, come questa che pubblichiamo può aprirci orizzonti inediti. Il sermone è del Padre Maurice Zundel, teologo, filosofo e mistico cattolico svizzero del Novecento. Una grande personalità, amico di Papa Paolo VI, poco conosciuta al pubblico italiano. Eppure nella sua formazione Roma e l’Italia contano assai (ha studiato teologia all’Angelicum dai domenicani).. Il testo viene pubblicato per gentile concessione di Mario Bertin e  Carlo Nicolais che hanno curato la traduzione dal francese.

Parlando dell’amore dell’uomo e della donna, Nietzsche ha usato parole sconvolgenti e magnifiche: “Che il vostro amore possa essere una pietà per gli dei sofferenti e velati”.

Ci sono poche parole che trovano in me un’eco più profonda di quelle pronunciate dal profeta dell’ateismo. Nulla infatti può commuoverci di più di questa professione di fede: “Che il vostro amore possa essere una pietà per gli dei sofferenti e velati”.

In queste parole vediamo che l’ateismo si definisce in rapporto a degli dei nemici e che un ateo, nel fondo del suo cuore, può avere conservato del Vangelo quello che esso ha di più prezioso e di più essenziale: perché nessuno nel mondo contemporaneo si è accostato al cristianesimo con una concisione maggiore di quella di Nietzsche, quando scrive: “Che il vostro amore possa essere una pietà per gli dei sofferenti e velati”.

La religione di Cristo, infatti, è la religione di un Dio sofferente e velato.

Se attraversiamo i diversi strati delle redazioni del Vangelo, che sono una preparazione alla grande rivelazione che si manifesterà nella Croce del Signore, ci imbatteremo in quel momento unico della Storia del mondo in cui il nostro Signore, in ginocchio davanti ai suoi discepoli, lava loro i piedi.

Gesù in ginocchio davanti ai suoi discepoli: è questo il cuore del Vangelo; questo è ciò che splende nel Mistero del Natale, è che Dio è dentro di noi. Non lassù, dietro il cielo stellato, come se regnasse in una corte faraonica, ma qui, ora, nel più intimo di noi.

Un altro volto di Dio appare nell’universo e ci rivela l’essenziale: che noi siamo liberati dagli idoli! Riconoscere Dio come una presenza nell’uomo è precisamente scoprire Gesù in ginocchio davanti ai suoi discepoli alla Lavanda dei piedi, Gesù che viene a liberarci per sempre da un dio idolo.

Mai l’Uomo è stato oggetto di un simile atto di fede. Mai l’Uomo è stato magnificato e glorificato fino a questo punto. E’ dunque in noi che dobbiamo cercare l’infinito. C’è in noi un valore illimitato che si tratta di scoprire se vogliamo raggiungere in noi l’autenticità dell’Uomo.

E tuttavia la maggior parte di noi di tutto ciò non è cosciente. Che noi siamo portatori della divinità, più intima a noi di noi stessi, e che essa costituisce, in qualche maniera, la nostra vera identità, è una cosa che sfugge completamente alla nostra immaginazione e alla nostra sensibilità.

E’ questa la ragione per cui se Dio in noi è un Dio velato, è per ciò stesso anche un Dio sofferente, perché è velato da noi, è velato dalle nostre complicità, dal nostro accecamento, dalla schiavitù alle nostre passioni. E’ velato da questo io di cui ci riempiamo la bocca, dall’io possessivo che ci impedisce di arrivare ad essere noi stessi e che costituisce il più formidabile schermo tra Dio che dimora dentro di noi e noi stessi.

Gesù è dunque infinitamente solidale al contempo con l’uomo che noi siamo, cieco e tuttavia portatore di Dio, e del Dio velato e sofferente che è in noi attesa infinita, ma che non vuole forzare lo sbarramento del nostro egocentrismo, che non vuole imporsi, nonostante non smetta di offrirsi.

Così noi siamo chiamati, oggi, giorno di Natale, a fare un atto di fede nell’Uomo, a scoprire nel più profondo  di noi questo cielo interiore. Non ce ne sono altri.

Ma come scoprirlo in noi, se non infrangiamo lo schermo del nostro egocentrismo? Qual è la strada che porta al Dio nascosto nel più intimo di noi? Questa strada è Gesù, Lui stesso… Come?

E’ chiaro che, se Dio è dentro di noi, non deve discendere da nessun cielo immaginario. Se è in noi, lo era già da sempre. Egli non smette mai di prevenirci, di attenderci. Siamo noi a non esserci. Ed è esattamente questo capovolgimento che siamo chiamati a compiere nel Mistero di Gesù: Dio è sempre dentro di noi, è l’Uomo ad essere assente.

Egli è già venuto da sempre. E’ l’uomo che deve venire a Dio. Il Mistero dell’Incarnazione è precisamente il Mistero dell’Uomo che viene a Dio. E l’Umanità che soffre è l’Umanità che è radicata nell’Amore infinito che è Dio, in questo Amore che è soltanto Amore e che, a causa di ciò, è disarmato; che, a causa di ciò, è infinitamente povero, sempre incapace di imporsi.

Si parla dei diritti di Dio! E’ un linguaggio inadeguato. Dio è offerta infinita. Non può far altro che offrirsi agli altri, in una misteriosa crocifissione nel più intimo di noi. In Gesù l’Umanità, infine, si schiude nella Luce di Dio, radicata in Dio, sussistente in Dio, non avendo più altro legame con se stessa che Dio. Questo è  Cristo, Nostro Signore.

Non una specie di personaggio fantastico e mitologico, ma un Uomo nella pienezza della sua grandezza, della sua dignità e della sua libertà, un Uomo… ma che non ha altro legame con sé che Dio, un Uomo il cui “io” è “l’altro”, un Uomo che può dire in maniera unica e incomparabile: “Io è un altro”, prefigurando così la nostra vocazione, poiché, finalmente, noi non riusciremo a realizzare questa grandezza e a fare risplendere il valore infinito che è Dio in noi, se non disappropriandoci di noi stessi affinché Dio possa divenire il nostro vero io, perché, anche in noi, Egli sia un altro.

Questa è la strada, non ce ne sono altre: è Gesù Cristo. Gesù porta al mondo questa novità che splende in questa santa notte: Gesù realizza in Sé stesso la pienezza dell’Uomo nella perfetta Incarnazione di Dio.

Dio che è da sempre quaggiù, prende il completo possesso dell’Umanità: l’Umanità immersa nel Suo Amore, radicata nella Sua Sostanza, che è l’Umanità di Gesù Cristo. Questa Umanità diafana, questa Umanità senza ombra, questa Umanità universale, questa Umanità capace di vivere in ciascuno di noi perché totalmente disappropriata di sé stessa, questa Umanità diviene in noi il fermento della nostra liberazione.

Gesù Cristo viene ad aspirarci verso la divinità che dimora in noi, facendo saltare lo sbarramento del nostro egocentrismo e identificandoci poco a poco  al volto adorabile impresso nei nostri cuori. Egli ci insegnerà come rendere testimonianza con tutta la nostra vita alla Presenza unica che è il respiro della nostra libertà.

Gesù Cristo è il caso limite di ciò a cui noi siamo chiamati. Perché, infine, siamo veramente noi stessi, siamo davvero sorgente e origine, siamo veramente creatori di noi stessi e dell’universo, soltanto nella misura in cui facciamo in noi un vuoto senza limiti per accogliere la Presenza infinita che non cessa mai di attenderci nel più intimo di noi.

In Gesù Cristo questo vuoto è totalmente compiuto. La Sua Umanità è incapace di appropriarsi di qualsiasi cosa. Essa coglie se stessa soltanto attraverso la Divinità, attraverso la sussistenza del Verbo, attraverso l’eterna povertà del Figlio unico, il quale altro non è che una offerta eterna di Sé stesso al Padre.

Ed è in questo modo che Gesù Cristo ci guarirà di noi stessi, del possesso di noi stessi da parte di noi stessi.

Nella notte di Natale si rivelano contemporaneamente l’Uomo e Dio: l’Uomo che noi non siamo ancora, ma che siamo chiamati ad essere; e Dio che può apparire soltanto in una Umanità diafana, totalmente disappropriata di sé stessa, in una Umanità che fa passare attraverso di sé l’Amore che è soltanto Amore, in una sussistente ed eterna povertà.

Il Natale non è una fiaba da raccontare ai bambini. Il Natale, che segna il tornante della Storia universale, il Natale rispetto al quale da allora in avanti vengono ordinati tutti i secoli, il Natale è la nostra nascita a noi stessi, alla nostra dignità, alla nostra grandezza, alla nostra libertà.

Questa è la Rivelazione di Dio, non più come un Padrone che ci domina, ma come un Amore nascosto in noi che non lascia di attenderci perché non può far altro che amarci.

E’ quello che Nietzsche aveva intuito quando il suo ateismo alla fine si rivoltò contro un falso Dio. Ebbe allora il presentimento del vero Dio, che è dentro di noi, un Dio sofferente e velato.

 

Il Golpe Borghese, un colpo di Stato sotto lo sguardo di Licio Gelli e Giulio Andreotti. Intervista a Fulvio Mazza

E’ stato uno dei più pericolosi tentativi, nella storia contemporanea italiana, di sovvertire la nostra repubblica democratica nata dalla Resistenza. Ci riferiamo al golpe Borghese, avviato in quella notte di cinquant’anni fa, l’8 dicembre del 1970. Junio Valerio Borghese, ex comandante della famigerata X flottiglia Mas (tra i più esaltati e sanguinari corpi militari fascisti), si mise alla testa di 20 mila cospiratori, reclutati tra i nostalgici di estrema destra, alte sfere militari, con l’obiettivo di instaurare un regime autoritario. Il proclama, un mix di esaltazione e retorica nazionalistica di stampo fascista, che Borghese avrebbe dovuto leggere dagli studi della Rai occupata dai golpisti è chiaro fin dalle prime righe: “Italiani, l’auspicata svolta politica, il lungamente atteso colpo di stato ha avuto luogo. La formula politica che per un venticinquennio ci ha governato, e ha portato l’Italia sull’orlo dello sfacelo economico e morale ha cessato di esistere”. L’obiettivo del golpe, come già detto, è chiaro: instaurare un regime di destra totalitario.
Nell’opinione pubblica italiana di quei giorni non si parlò di questo tentativo di golpe, passarono, infatti, diversi mesi, grazie a Paese Sera, Per avere la notizia dell’azione dei neofascisti. Notizia che ovviamente suscitò grande impressione nel Parlamento e nel Paese. Successivamente alla scoperta incominciarono ad affiorare, nell’opinione pubblica, le prime domande sul disegno eversivo. Cinquanta dopo sappiamo molto di più, anche se alcuni passaggi restano poco chiari. Un contributo importante ci viene dal libro, appena uscito in libreria, del giornalista Fulvio Mazza:
Il Golpe Borghese: Quarto grado di giudizio. La leadership di Gelli, il “golpista” Andreotti, i depistaggi della “Dottrina Maletti”, Luigi Pellegrini Editore. In questa intervista con Mazza approfondiamo alcuni aspetti importanti del golpe.

Dottor Mazza, il suo saggio è davvero interessante. Incominciamo con il titolo, “Quarto grado di giudizio”, che è giustamente provocatorio. Perché questo titolo?
Per due ragioni: la prima è per chiarire sin da subito che è un grado di giudizio non giudiziario ma storico, quindi arbitrario; la seconda è per far intendere che verrà ribaltata la verità scaturita dai tre gradi ufficiali.

Veniamo al golpe, in contesto nasce?
Dall’inquietudine del ceto dirigente d’allora, conservatore e spesso reazionario – formatosi prevalentemente durante il ventennio fascista – verso i movimenti sindacali, studenteschi e femministi e verso la loro concretizzazione politica a sinistra.

Quanti erano i golpisti?  In quale ambiente erano stati reclutati? 
Stime affidabili conducono a una cifra di circa 20.000 attivi e altrettanti pronti per essere attivati.
L’ambiente era la destra extraparlamentare del Fronte nazionale, di Avanguardia nazionale e di Ordine nuovo, gli ambienti frustrati delle Forze armate e dei nostalgici repubblichini.

Quanti erano i golpisti?  In quale ambiente erano stati reclutati? 
Stime affidabili conducono a una cifra di circa 20.000 attivi e altrettanti pronti per essere attivati.
L’ambiente era la destra extraparlamentare del Fronte nazionale, di Avanguardia nazionale e di Ordine nuovo, gli ambienti frustrati delle Forze armate e dei nostalgici repubblichini.

Qual era l’obiettivo dei golpisti?
Bloccare l’evoluzione sociale dei movimenti e quella politica delle sinistre attraverso un governo autoritario civile-militare. Una soluzione simile a quelle che oggi chiamiamo “democrature”.

Il Sid, servizio segreto, di fronte al pericolo come si comportò?  
Il Sid del generale Miceli fece finta di indagare: “fice ’a muina”. Ma né lui né il suo (in quel frangente temporaneamente) alleato, il generale Gian Adelio Maletti, riuscirono a bloccare le indagini di un altro ufficiale del Sid, il capitano Antonio Labruna, che riuscì a scoprire le trame golpiste.

Ora sappiamo che il golpe si bloccò per un contrordine di Borghese all’1.49 di quell’otto dicembre del 1970 (su questo punto ritorneremo tra poco). Nei mesi successivi furono effettuati tentativi di indagini. Ma non venne raggiunto alcun risultato. Ma, come lei scrive, appunto, il quadro cambiò con le indagini di un capitano dei carabinieri, Antonio Labruna, in servizio presso il Sid. Cosa aveva scoperto La Bruna? 
Labruna si infiltrò fra gli ex golpisti e riuscì a registrare di nascosto i racconti di diversi cospiratori che dettagliarono per filo e per segno l’intero golpe.

Le prove raccolte da Labruna sono confluite nel, così lo chiama lei, il “Malloppo Originario”. “Malloppo” che venne fatto oggetto di una operazione di gravi tagli ad opera di Maletti e Andreotti. Al riguardo lei parla di una “Dottrina Maletti”. Può spiegare cos’è?
La “Dottrina Maletti” è stata delineata dal presidente della Commissione Stragi, Giovanni Pellegrino, e poi avallata dal generale Maletti. La denominazione, immodestamente, è mia. Tale “Dottrina” spiega/confessa che diversi golpisti furono coperti dai Servizi in generale e dal Sid in particolare, non tanto perché si condividevano finalità e mezzi di tali estremisti, quanto perché non si voleva far sapere all’opinione pubblica che tali golpisti erano collaboratori dei Servizi stessi.

Veniamo al ruolo di Gelli e Andreotti. C’era sintonia tra i due?
Oggettivamente sì. Entrambi volevano mantenere lo status quo sociale utilizzando anche mezzi politici non commendevoli.

Siamo nel periodo della strategia della tensione (o della strategia della paura). Il nemico da battere (o da annientare, distruggere) era il comunismo. In questo un ruolo determinante, ovviamente, lo giocheranno gli Usa. Qual è la partita giocata dall’amministrazione Nixon? Fa impressione vedere il governo degli Usa trattare con un ex repubblichino… 
Sì, gli Usa non avevano scrupoli né a trattare con il repubblichino Borghese né con Adriano Monti, che aveva militato, come volontario, nelle SS tedesche.
Gli Usa, inizialmente scettici, decisero di appoggiare il golpe a condizione che il capo del governo fosse stato Andreotti e che si fossero tenute elezioni semilibere: democratiche ma senza liste comuniste.

Chi trattò con la ‘ndrangheta e mafia siciliana?
Con la ’ndrangheta lo stesso Borghese. Con la mafia, invece, Salvatore Drago, che era un dirigente del Ministero dell’Interno.

Torniamo al “contrordine” di Borghese. Qual è l’ipotesi più accreditata sul misterioso autore della telefonata?
Alcune fonti conducono verso Licio Gelli, altre verso Giulio Andreotti. In ogni caso, va evidenziato che avevano linee politiche similari e potrebbe anche essere che abbiano agito congiuntamente.

Alla luce di quanto abbiamo detto, le chiedo: se fosse andato, malauguratamente, a buon fine gli altri paesi occidentali avrebbero accettato un Italia neofascista? 
Temo di sì: così come avvenne in Grecia e, per diversi aspetti convergenti, poco dopo in Cile.

QUESTO 25 APRILE. UN TESTO DI LIDIA MENAPACE.

Lidia Menapace ci ha lasciato. E’ morta questa notte nel reparto malattie infettive dell’Ospedale di  Bolzano dove era ricoverata da diversi giorni a causa del Covid. Aveva 96 anni. Grande cordoglio ha suscitato, nella opinione pubblica, la sua scomparsa.

Pierluigi Castagnetti, suo amico di militanza nella DC, ricordando Lidia Menapace, con  un post su Facebook, afferma che è stata una delle migliori intelligenze del Paese.

Una vita intensa la sua: staffetta partigiana, l’impegno giovanile nella Fuci, gli studi alla Cattolica di Milano, la militanza nella sinistra DC, che lascerà negli anni ’60, la militanza nel PCI e successivamente nel Manifesto, fino ad arrivare alla elezione in Senato nelle liste di Rifondazione Comunista. Militante femminista e pacifista. Dunque donna appassionata e coltissima . La vogliamo ricordare con un testo di un suo intervento, del 2014, all’Arena di Verona durante una manifestazione del movimento pacifista.

Ovviamente il suo intervento esprime il suo deciso pacifismo, ma come scrive Giorgio Tonini , ex senatore PD e suo collega nella Commissione difesa del Senato, “Lidia era una collega esigente, ma sempre costruttiva”.

Il testo  viene pubblicato per gentile concessione del sito www.azionenonviolenta.it.

Questo 25 aprile

Cerco di dare un titolo oggettivo al massimo, ma mi verrebbe da dire : “Ancora come un tempo, sopra lItalia intera, soffia il vento e infuria la bufera!” Perché di questa natura sono i sentimenti che mi ispirano alcuni  fatti avvenuti il 25 aprile  e che considero sciagurati.

Cerco di elencarli e poi ci discuto, sicuramente l’Arena di Verona merita il plauso di tutto il popolo della pace e della nonviolenza che trasmette una memoria non morta della Resistenza, riscrivendo in parte la storia e arricchendola: una impresa giusta e opportuna, che riavvia la ricerca e la conoscenza di quegli eventi quando ancora un certo numero di testimoni  diretti vivono e possono parlare. A Verona ho seguito gran parte della giornata e tutto quello che ho sentito, visto, partecipato mi è parso molto bello ricco affettuoso appassionato, tutto, e così vario da non produrre nemmeno un minuto di stanchezza o noia.

Per non essere acritica devo dire però che molto mi ha fatto stizza un ragionamento” del vicepresidente delle Acli, nota assolutamente dissonante, per fortuna non ripresa da nessuno. Sembra che le Acli intendano  lanciare la proposta dellesercito europeo, una cosa scandalosa!. Se ho capito bene, ma ho sentito con le mie orecchie e visto sul grande schermo la frase che un esercito europeo sarebbe un elemento di unificazione e costerebbe meno dei vari eserciti nazionali, un “ragionamento dissennato”

Allora riprendo un discorso che iniziai non pochi anni fa,  quando si stava discutendo della riforma delle N.U. e del Consiglio di sicurezza. Proponevo allora che l’Europa si unificasse con la decisione della neutralità militare, dato che sul territorio europeo già esistono stati neutrali, come Svezia Austria Finlandia San Marino. Una Europa neutrale con il peso della sua storia avrebbe l’autorevolezza per proporre un Consiglio di sicurezza delle N.U. a rotazione tra tutti gli stati che le compongono ecc. Vedevo in una proposta come questa il segno di un taglio deciso, come per dire: “La seconda guerra mondiale è finita davvero: adesso bisogna mettere mano a una organizzazione internazionale autorevole che parta dal primo comma della Dichiarazione universale dei Diritti umani” che dichiara: “La guerra é sempre un crimine” e perciò propone la costituzione di strutture di polizia internazionale per prevenire contenere e punire il crimine. So che il discorso è solo abbozzato, ma mi pare che tiene ancora e vorrei che non fosse lasciato cadere.

Non averlo accolto, nè altri eventuali di questo segno ha portato sì alla fine del secondo dopoguerra, ma col ritorno alla politica di prima di essa, sicchèé abbiamo ormai due superpotenze, che trattano imperialisticamente gli affari del mondo , “pronte” a buttare il mondo stesso nella guerra: e dire che uno dei due capi è Nobel per la pace!

Mi pare urgentissimo non lasciar cadere la cosa. Per il resto Verona e l’Arena è la vera grande profonda appassionata speranza, la primavera del mondo.