Dalla “Velina” ai Social. Un libro sul cambiamento del giornalismo politico italiano

Diciamo subito che di un libro così, un bilancio e una analisi, compiuti da giornalisti professionisti, su come è cambiato, negli ultimi 25-30 anni, il giornalismo politico italiano, sentivamo la necessità.

Ed è un primo risultato per questo piccolo volume, Raccontare la politica, edito da «ytali», giornale online fondato e diretto da un giornalista politico di grande esperienza come Guido Moltedo.

Il libro risponde a questo bisogno, offrendo una bella carrellata di interviste (13 sono gli interpellati) ad alcuni tra i maggiori cronisti politici italiani.

Il giornalismo politico in Italia ha una grande tradizione. Che oggi, nel tempo iperconnesso della rete, attraversa una fase di grande cambiamento correlato, ovviamente, con quello della politica.

E così che attraverso le 13 interviste viene fuori un quadro problematico del giornalismo politico.

Verrebbe da domandarsi cosa ne penserebbe un gigante come Enzo Forcella. La citazione non è casuale perché proprio lui, nel 1959 sulla rivista Tempo Presente, ne caratterizzava il tratto con pungente ironia (dal titolo emblematico “millecinquecento lettori”):

«Un giornalista politico, nel nostro paese, può contare su circa millecinquecento lettori: i ministri e i sottosegretari (tutti), i parlamentari (parte), i dirigenti di partito, i sindacalisti, gli alti prelati e qualche industriale che vuole mostrarsi informato. Il resto non conta, anche se il giornale vende trecentomila copie. Prima di tutto, non è accertato che i lettori comuni leggano le prime pagine dei giornali, e in ogni caso la loro influenza è minima. Tutto il sistema è organizzato sul rapporto tra il giornalista politico e quel gruppo di lettori privilegiati. Trascurando questo elemento, ci si esclude la comprensione dell’aspetto più caratteristico del nostro giornalismo politico, forse dell’intera politica italiana: è l’atmosfera delle recite in famiglia, con protagonisti che si conoscono sin dall’infanzia, si offrono a vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche quando si detestano, si vogliono bene».
Ora, per carità quel tempo è lontanissimo. E, oggi, i “protagonisti” (quei protagonisti di cui parla Forcella) quando si detestano non si vogliono proprio per niente bene. Cioè il livello della politica si è notevolmente abbassato, le classi “dirigenti” non sono all’altezza e quei pochi faticano molto a fare un discorso di qualità politica.

In un quadro così, il mestiere di giornalista politico assume una notevole caratterizzazione etico- politica.

Un tratto però, quello del rapporto tra giornalista politica e gruppo di potere, è ancora presente.

Ed è proprio questo che fa dire a Fabio Martini (giornalista de «La Stampa») nel suo contributo presente in questo libro, che «nella tradizione giornalistica italiana l’elemento di fiancheggiamento del potere politico è stato importante fin dagli albori dell’Ottocento»: «Il Risorgimento», pubblicato a Torino e fondato da Camillo Benso conte di Cavour, portava con sé una doppia cifra, quella giornalistica e quella politica. Lo stesso discorso vale per «Giovine Italia», organo del movimento fondato da Giuseppe Mazzini. Questa connotazione politica degli inizi è restata. «La Repubblica» dal 1976 è un grande e influente giornale, convinto che «informare è importante, ma ancora più importante è far prevalere l’idea del giornale: un’impostazione che ha assunto in alcuni casi toni clamorosi, come nel caso delle dieci domande a Berlusconi. Si tratta di un atteggiamento che si è allargato, con i giornalisti “influencer” che in rete mischiano le informazioni con le opinioni.
Questo però non è il nostro compito: un giornalista dovrebbe aiutare il pubblico a leggere le vicende, non dare la propria personalissima opinione. Da questo punto di vista è deprimente lo spettacolo che i giornalisti offrono nei talk show: prendono parte e tifano. I telespettatori oramai si aspettano – o sono rassegnati – a vederli come parte in gioco. E questo, ahi noi, vale per gran parte dei giornalisti ospiti e dei conduttori. Un disturbo bipolare che conferma un dato di fondo: chi fa informazione politica ha perso credibilità». Martini coglie nel segno, e questo è un problema atavico del giornalismo italiano. Certo, la stagione di Tangentopoli, una stagione breve, è stata vissuta dalla stampa italiana come un periodo in cui la presa della politica sul sistema informativo si allentò. Ed è in questo periodo che nacquero i nuovi format informativi sulla politica. Oggi quell’onda si è esaurita e la sensazione, più diffusa, è quella della ripetitività. E questo non va d’accordo con la qualità.

Il libro è utile, come si diceva all’inizio, per la panoramica che offre dell’evoluzione che vi è stata nel giornalismo politico italiano.

Interessante e gustosa la testimonianza di un decano del giornalismo politico come Giorgio Frasca Polara su Vittorio Orefice, autentica “divinità” del giornalismo politico della Prima Repubblica, le cui “veline” influenzavano più di un giornale (di lui .Giulio Andreotti, scrisse sul Corriere, che era stato “governativo ma mai servile).

Oggi il “pastone” è praticamente scomparso e il giornalista politico rincorre sui social l’ultima dichiarazione del leader politico. Addirittura, tra i politici, c’è chi chiede l’intervista scritta al giornalista e questo non è certo di aiuto per la qualità del prodotto. Sulla questione sono puntuali le osservazioni di Alessandra Sardoni, Maria Teresa Meli e Augusto Minzolini.

Nel tempo della velocità della rete, della spettacolarizzazione della politica, su cui si sofferma Stefano Menichini, c’è spazio ancora per l’approfondimento, come osserva giustamente Marco Di Fonzo, cronista politico di Sky Tg24: «Approfondimento non è solo un programma lungo (e lento) su un singolo argomento. Penso anche a un approfondimento che può stare all’interno di una diretta di due minuti. In altre parole, non racconti solo quanto detto dal politico di turno, ma inquadri le dichiarazioni della giornata, le spieghi in tempo reale a chi ti sta ascoltando. C’è una grande ricerca di senso riguardo a tutti i grandi temi, dalle questioni internazionali all’ambiente, dalle migrazioni all’economia. Se riesci ad essere credibile, la gente ti segue, perché si rende conto che il mondo va molto veloce e non riesce da sola a mettere insieme la valanga di dati e informazioni a disposizione. Le persone faticano a mettere assieme il quadro complessivo di quel che accade e noi possiamo essere un punto di riferimento prezioso». Questo è il giornalismo.

Matteo Angeli e Marco Michieli, Raccontare la politica, Ed. Ytali 2020, pp. 146, €10,00