“PERCHE’ L’EUROPA CI SALVERA’ “. IL LIBRO POSTUMO DI PADRE BARTOLOMEO SORGE

Esce postumo per Edizioni Terra Santa l’ultimo libro di padre Bartolomeo Sorge, Perché l’Europa ci salverà. Dialoghi al tempo della pandemia, scritto con Chiara Tintori. L’autore, uno dei più noti gesuiti italiani, già direttore di La Civiltà Cattolica e Aggiornamenti Sociali, è mancato lo scorso 2 novembre. «La scomparsa improvvisa di padre Sorge durante la lavorazione del libro ha reso impossibile l’aggiornamento di alcune informazioni legate a eventi di stringente attualità – afferma una nota della Casa editrice –. Nel rispetto di quello che, a conti fatti, è ormai un testo postumo, si è scelto di non intervenire in alcun modo sulle sue parole che, sebbene prive di importanti elementi dell’“ultim’ora”, conservano tutto il loro valore di lucida lettura dei nostri tempi». Il volume sarà presentato oggi alle ore 16.00 sulle pagine Facebook e YouTube di Edizioni Terra Santa, in un dialogo tra Enrico Letta, presidente dell’Istituto Delors di Parigi, e la politologa Chiara Tintori, introdotto dal direttore di Edizioni Terra Santa, Giuseppe Caffulli. La pandemia ha smascherato l’inganno dell’individualismo e ha clamorosamente smentito le diverse forme di populismo e di sovranismo. Allo stesso tempo, nei mesi dell’emergenza, l’Unione Europea ha fatto passi da gigante sulla strada di una visione comune del continente fondata sui valori di un nuovo umanesimo. Nessuno può salvarsi da solo: ecco perché sarà l’Europa a salvarci. È questo il nucleo della riflessione di padre Sorge, accompagnata dalle domande di Chiara Tintori. Per ricostruire un’Italia che abbia a cuore il bene comune – e non solo il benessere o la salute di molti – non possiamo che guardare a una Unione Europea dove l’ispirazione etica, la solidarietà e la fraternità divengano fondamenta del nostro vivere insieme. Di seguito, per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto del libro.

LE TRE EUROPE

L’Europa non è nata oggi, ha una vita molto lunga. Possiamo distinguere come tre tappe della sua storia, tre Europe. La prima nacque nel Medioevo sulle rovine dell’impero romano. Essa fu – prima d’ogni altra cosa – un’“idea”, un progetto ideale, una sintesi tra cultura e fede cristiana. Le università e le cattedrali, che dall’“età media” costellano il nostro continente, sono ancora lì ad attestare che la prima unità europea fu soprattutto culturale e spirituale, ben più profonda di una mera unità geografica, mercantile o politica. La possiamo raffigurare come una fortezza chiusa, con i ponti levatoi alzati, isolata dal resto del mondo, all’interno della quale avevano diritto di cittadinanza solo i cristiani. Tant’è vero che i giudei, i musulmani, i popoli “barbari” del Nord, pur appartenendo al medesimo spazio geografico, si sentirono e rimasero estranei al primo nucleo dell’Europa.

La seconda Europa – quella moderna – nasce dalla rottura dell’unità tra fede e cultura, fra trono e altare. Umanesimo, Rinascimento, Illuminismo, Rivoluzione francese sono altrettanti momenti di un processo di divaricazione, che avrebbe condotto alla secolarizzazione e alla frammentazione del continente. Con l’avvento della modernità, infatti, la ragione prende le distanze dalla religione, rivendica la sua autonomia da Dio, si autoproclama essa stessa “dea”. La cultura moderna nega che scienza e religione si possano incontrare. La politica rifiuta ogni rapporto con l’etica (vedi Machiavelli). Col nascere degli Stati nazionali assoluti e con l’acquisizione di una nuova coscienza dei diritti inalienabili dell’uomo, la seconda Europa pone al centro della vita sociale e politica non più il “cristiano”, ma “l’uomo” e il “cittadino”. Essa non è più una fortezza chiusa, ma assomiglia piuttosto alla torre di Babele: frantumata, lacerata, divisa all’interno, scompaginata dalla rottura della Riforma protestante, dalle ideologie nascenti, dalle guerre, da incomprensioni e incomunicabilità.

La terza Europa – la nostra, quella del XX secolo – nasce dopo la Seconda guerra mondiale con la mira di costruire una “casa comune”, capace di garantire la pace nel Vecchio Continente. Tuttavia, si commise l’“errore” di cominciare a costruirla dall’economia, pensandola come comunità economica del carbone e dell’acciaio. Infatti i suoi fondatori, Alcide De Gasperi, Robert Schuman e Konrad Adenauer, erano convinti che, unificando la produzione e l’impiego delle materie prime necessarie alla fabbricazione di armi, bombe e cannoni, si sarebbero evitate in futuro altre guerre terribili tra i popoli fratelli europei. Si iniziò, dunque, dall’unità economica. Fu, questo, un limite, una sorta di “peccato originale”. Certo, nessuno nega che il progresso economico, sostenuto dallo sviluppo straordinario dell’industria, della scienza, della tecnica e dalle vivaci correnti del pensiero moderno, abbiano consentito alla Terza Europa di raggiungere traguardi di civiltà e di benessere prima impensabili. Tuttavia, il prezzo umano pagato è stato altissimo. In seguito all’obnubilamento di valori umani fondamentali, l’“avere” ha compromesso l’“essere”. La tecnica ha espropriato la cultura, con il grave rischio di compromettere la sopravvivenza dell’Europa, la cui identità fu, fin dall’inizio, soprattutto di natura spirituale e culturale.

Infatti, la crescita economica disgiunta da quella politica e culturale, qual è stata fin qui quella della Terza Europa, si è rivelata contraddittoria: da un lato, sono stati creati importanti organismi internazionali di giustizia, di pace e di tutela dei diritti umani, dall’altro però si sono moltiplicati – nonostante tutto – i focolai di guerra, ha ripreso fiato la corsa agli armamenti, sono aumentati le divisioni, i nazionalismi e le disuguaglianze. Da una parte, si sono raggiunti successi straordinari nei campi più diversi, dalle scienze fisiche alla tecnica, alla biologia, alla genetica, alla comunicazione sociale; nello stesso tempo, però, è entrata in crisi l’antropologia, la concezione stessa della vita umana, con l’introduzione negli Stati europei dell’aborto, del divorzio, dell’eutanasia. In sintesi, l’“avere” – non ci manca nulla! – ha compromesso l’“essere”; abbiamo tutto, abbiamo di più, ma siamo stati contagiati dall’ideologia dell’individualismo, che ci ha fatto dimenticare che la solidarietà è il fondamento e il principio da cui è nata e su cui poggia l’idea stessa di Unione Europea. Finché finalmente il coronavirus, contro il quale stiamo ancora combattendo, giunto imprevisto e all’improvviso, ha risvegliato insperatamente le nostre coscienze assopite. (…)

La rapida diffusione del coronavirus ha obbligato l’Europa e il mondo intero a una dura e lunga quarantena. Tuttavia, nello stesso tempo, ha prodotto un risveglio delle coscienze che è destinato – se sapremo cogliere l’occasione propizia – ad aprire una stagione nuova della Terza Europa, consentendoci finalmente di realizzare quella “casa comune” che finora non siamo riusciti a costruire. (…)

L’emergenza sanitaria ci ha fatto toccare con mano che l’Europa è ricca di potenzialità e può finalmente realizzarsi come “casa comune”. La sua, infatti, non è un’identità statica, ma dinamica. Così come non sono statici e fermi, ma in evoluzione continua, il mondo e la storia. A 70 anni dalla sua nascita, la Terza Europa non è più minorenne! Perciò l’unità politica, l’esercito comune, una politica fiscale condivisa sono traguardi che non si possono più rinviare. Come fare? Per imparare a crescere uniti rispettandoci diversi, occorre ripartire dai valori culturali e spirituali della nostra millenaria civiltà: il rispetto della dignità della persona, la libertà solidale, l’uguaglianza dei diritti e dei doveri, la sussidiarietà responsabile. I processi di globalizzazione, inoltre, hanno ampliato l’orizzonte ben oltre i confini geografici dell’Unione e ci ricordano ogni giorno che il cammino della storia si può e si deve orientare, ma non si può fermare.

 

Bartolomeo Sorge, Chiara Tintori, Perché l’Europa ci salverà. Dialoghi al tempo della pandemia. Edizioni Terra Santa, Milano 2020. €14,00 Pagg.128

EX ILVA: “CHE BISOGNO HA LO STATO DI FAR CRESCERE LE SUE QUOTE NEL 2022?”. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Dovevano arrivare il 30 novembre le firme per l’accordo che sancisce l’ingresso dello Stato nella gestione della ex Ilva di Taranto, ma tutto è stato rimandato all’11 dicembre. Ancora 10 giorni, quindi, in cui il futuro della grande acciaieria resta sospeso anche perché, dal 1 dicembre, Arcelor Mittal potrebbe far valere una clausola rescissoria e recedere dagli accordi. Comunque vada a finire, l’acciaio italiano torna sotto l’egida dello stato. Per fare il punto della situazione, ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0, che segue la vicenda Ilva sin dall’inizio della sua crisi.

Sabella, come mai la firma di questo annunciato accordo alla fine è slittata?

Naturalmente si tratta di un’operazione di una complessità elevata. Dal Governo fanno sapere che l’accordo c’è e che si tratta di limare qualche dettaglio in vista dell’incontro finale dell’11 dicembre. A ogni modo, non si doveva superare il termine del 30 novembre perché, in questo modo, Mittal ha un pretesto per tirare ulteriormente la corda, cosa che fa dall’inizio. Il governo in questo si è dimostrato debole, anche se dopo la revoca dello scudo penale – avvenuta per via parlamentare (ottobre 2019) – la frittata era fatta. Conte, Gualtieri e Patuanelli sono stati certamente bravi nell’arginare una situazione disperata dopo che Mittal aveva portato i libri in Tribunale. Ma dopo l’accordo del 4 marzo, bisognava stringere con Mittal e dettare le condizioni per la restart, senza superare questa linea di demarcazione molto pericolosa perché, appunto, ora la multinazionale franco-indiana può esercitare la clausola rescissoria presente nel contratto.

E secondo lei lo farà o, invece, si accorderanno come dicono dal governo?

Penso che si accorderanno, dall’inizio di questa crisi con Arcelor Mittal sostengo che l’azienda non ha motivo di andarsene: intanto, è vero che può esercitare la clausola rescissoria ma, comunque, dovrebbe corrispondere 500 milioni come penalità allo stato italiano. E non sono pochi. Ma, oltretutto, Mittal ha sempre avuto ciò che chiedeva al governo: sconti, alleggerimento dei propri impegni, ammortizzatori sociali… ora lo stato si appresta a formalizzare l’ingresso nel capitale con la sua controllata Invitalia, perché Mittal davanti a tanta convenienza dovrebbe uscire? Non credo lo farà, almeno nell’immediato.

Però dal 2022 le cose potrebbero cambiare, anche in ragione del previsto aumento di quote di Invitalia. Qual è il suo pensiero?

Questa è una delle criticità maggiori dell’operazione. Partiamo da qui: il governo italiano si sta accordando con Arcelor Mittal per partecipare al 50% –attraverso Invitalia – la società AM Italia. L’acciaio dell’ex Ilva torna così allo Stato 25 anni dopo il passaggio dell’industria siderurgica dall’Iri alla famiglia Riva (maggio 1995). È prevista questa divisione paritaria dell’Ilva tra lo Stato e ArcelorMittal almeno fino al 2022 quando scadranno i termini dell’affitto degli impianti: in quell’occasione, la nuova società partecipata da Invitalia non solo ne rileverà la proprietà, ma dovrebbe vedere il soggetto pubblico crescere le sue quote rispetto al privato, fino al 60%. Questo il punto che non comprendo: perché questa scalata? Che bisogno ha lo stato di far crescere le sue quote in AM Italia?

E lei che risposte si dà?

Nella migliore delle ipotesi, ciò va nella direzione di – ancora una volta – alleggerire gli oneri della famiglia Mittal e dell’investimento che aveva inizialmente garantito (2017) aggiudicandosi il bando di gara: stiamo parlando di quasi 4 miliardi di euro. Naturalmente, solo durante il primo anno di gestione Mittal si è resa conto per cosa realmente si era impegnata. E non vedevano l’ora di rompere quegli accordi tanto che con la revoca dello scudo penale gli abbiamo fatto un grande favore, gli abbiamo cioè consentito di ridiscutere tutto da capo. È chiaro che in una forma più conveniente non c’è questa fretta di lasciare Taranto, dove oggi non c’è più nemmeno un manager dell’azienda. C’è Lucia Morselli con un management tutto nuovo nominato da lei. È chiaro che a queste condizioni, il governo ha convinto la famiglia Mittal a rivedere la propria volontà di disimpegnarsi.

E nell’ipotesi peggiore?

Nella peggiore delle ipotesi, Mittal nel 2022 lascerà l’Italia. È vero che c’è tempo per riorganizzarsi, ma è questa un’ipotesi temibile per più ragioni: innanzitutto, siamo sicuri che vi sia un altro player privato disposto a subentrare? E poi, il rischio che Mittal andando via si porti con sé una buona parte del portafoglio clienti non è da sottovalutare. E, in ultimo, se Mittal lasciasse e non vi fosse nessun privato pronto al subentro, ma davvero crediamo che l’industria dell’acciaio possa essere nazionalizzata e gestita dallo stato? Ma non c’è bastato il recente commissariamento – dopo il sequestro alla famiglia Riva – per farci capire che lo stato non è in grado oggi di gestire questa complessità?

Mi pare di capire, tuttavia, che lei non è in disaccordo sull’ingresso dello stato nel capitale di AM Italia. O pensa che sia sbagliata questa operazione?

Che lo stato vada oggi in soccorso dell’economia – e quindi del privato  – è ciò che sta avvenendo in tutto il mondo, anche negli USA. Aggiungiamoci anche che, approfittando dei fondi europei del Recovery Plan, il governo vuole fare della ex Ilva il simbolo del Green Deal italiano: l’idea non è sbagliata, Taranto resta uno dei poli industriali più importanti d’Europa, anche per via dello scalo. L’accordo tra Governo e Mittal va valutato quindi positivamente, per la svolta green – vi è coinvolta anche la società del gruppo Enel all’avanguardia nelle riconversioni industriali – e anche per gli effetti che comporta a livello occupazionale.

I sindacati però hanno avuto di che lamentarsi in questa fase. Quali sono i loro timori secondo lei?

I sindacati intanto assistono da tempo, senza poter fare nulla, al declino dello stabilimento di Taranto. Teniamo presente la loro difficoltà di gestire persone che sono esasperate tanto è lunga questa vicenda. Tuttavia, in questa fase lamentano il loro mancato coinvolgimento. È anche vero che il governo stava, e sta tuttora, trattando le condizioni di acquisizione di alcune quote con Mittal. Quindi, non è semplice coinvolgere le Parti in una situazione del genere. Però, da oggi, il sindacato deve maggiormente vigilare: intanto l’ingresso dello stato va a calmierare i problemi occupazionali, questo è elemento che non sottovaluterei. Se però si vuol dare un futuro al lavoro, bisogna che il sindacato si impegni e faccia la sua parte per creare quelle condizioni indispensabili al privato che investe nell’industria, sia esso Mittal o chi subentrerà. Il sindacato deve evitare che la ex Ilva sia nazionalizzata. Il pubblico non ha le giuste competenze per gestire l’industria, soprattutto in questa fase di potente trasformazione in cui persino i più grandi innovatori faticano a tenere il passo disruptive delle macchine che hanno inventato.

Dalla “Velina” ai Social. Un libro sul cambiamento del giornalismo politico italiano

Diciamo subito che di un libro così, un bilancio e una analisi, compiuti da giornalisti professionisti, su come è cambiato, negli ultimi 25-30 anni, il giornalismo politico italiano, sentivamo la necessità.

Ed è un primo risultato per questo piccolo volume, Raccontare la politica, edito da «ytali», giornale online fondato e diretto da un giornalista politico di grande esperienza come Guido Moltedo.

Il libro risponde a questo bisogno, offrendo una bella carrellata di interviste (13 sono gli interpellati) ad alcuni tra i maggiori cronisti politici italiani.

Il giornalismo politico in Italia ha una grande tradizione. Che oggi, nel tempo iperconnesso della rete, attraversa una fase di grande cambiamento correlato, ovviamente, con quello della politica.

E così che attraverso le 13 interviste viene fuori un quadro problematico del giornalismo politico.

Verrebbe da domandarsi cosa ne penserebbe un gigante come Enzo Forcella. La citazione non è casuale perché proprio lui, nel 1959 sulla rivista Tempo Presente, ne caratterizzava il tratto con pungente ironia (dal titolo emblematico “millecinquecento lettori”):

«Un giornalista politico, nel nostro paese, può contare su circa millecinquecento lettori: i ministri e i sottosegretari (tutti), i parlamentari (parte), i dirigenti di partito, i sindacalisti, gli alti prelati e qualche industriale che vuole mostrarsi informato. Il resto non conta, anche se il giornale vende trecentomila copie. Prima di tutto, non è accertato che i lettori comuni leggano le prime pagine dei giornali, e in ogni caso la loro influenza è minima. Tutto il sistema è organizzato sul rapporto tra il giornalista politico e quel gruppo di lettori privilegiati. Trascurando questo elemento, ci si esclude la comprensione dell’aspetto più caratteristico del nostro giornalismo politico, forse dell’intera politica italiana: è l’atmosfera delle recite in famiglia, con protagonisti che si conoscono sin dall’infanzia, si offrono a vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche quando si detestano, si vogliono bene».
Ora, per carità quel tempo è lontanissimo. E, oggi, i “protagonisti” (quei protagonisti di cui parla Forcella) quando si detestano non si vogliono proprio per niente bene. Cioè il livello della politica si è notevolmente abbassato, le classi “dirigenti” non sono all’altezza e quei pochi faticano molto a fare un discorso di qualità politica.

In un quadro così, il mestiere di giornalista politico assume una notevole caratterizzazione etico- politica.

Un tratto però, quello del rapporto tra giornalista politica e gruppo di potere, è ancora presente.

Ed è proprio questo che fa dire a Fabio Martini (giornalista de «La Stampa») nel suo contributo presente in questo libro, che «nella tradizione giornalistica italiana l’elemento di fiancheggiamento del potere politico è stato importante fin dagli albori dell’Ottocento»: «Il Risorgimento», pubblicato a Torino e fondato da Camillo Benso conte di Cavour, portava con sé una doppia cifra, quella giornalistica e quella politica. Lo stesso discorso vale per «Giovine Italia», organo del movimento fondato da Giuseppe Mazzini. Questa connotazione politica degli inizi è restata. «La Repubblica» dal 1976 è un grande e influente giornale, convinto che «informare è importante, ma ancora più importante è far prevalere l’idea del giornale: un’impostazione che ha assunto in alcuni casi toni clamorosi, come nel caso delle dieci domande a Berlusconi. Si tratta di un atteggiamento che si è allargato, con i giornalisti “influencer” che in rete mischiano le informazioni con le opinioni.
Questo però non è il nostro compito: un giornalista dovrebbe aiutare il pubblico a leggere le vicende, non dare la propria personalissima opinione. Da questo punto di vista è deprimente lo spettacolo che i giornalisti offrono nei talk show: prendono parte e tifano. I telespettatori oramai si aspettano – o sono rassegnati – a vederli come parte in gioco. E questo, ahi noi, vale per gran parte dei giornalisti ospiti e dei conduttori. Un disturbo bipolare che conferma un dato di fondo: chi fa informazione politica ha perso credibilità». Martini coglie nel segno, e questo è un problema atavico del giornalismo italiano. Certo, la stagione di Tangentopoli, una stagione breve, è stata vissuta dalla stampa italiana come un periodo in cui la presa della politica sul sistema informativo si allentò. Ed è in questo periodo che nacquero i nuovi format informativi sulla politica. Oggi quell’onda si è esaurita e la sensazione, più diffusa, è quella della ripetitività. E questo non va d’accordo con la qualità.

Il libro è utile, come si diceva all’inizio, per la panoramica che offre dell’evoluzione che vi è stata nel giornalismo politico italiano.

Interessante e gustosa la testimonianza di un decano del giornalismo politico come Giorgio Frasca Polara su Vittorio Orefice, autentica “divinità” del giornalismo politico della Prima Repubblica, le cui “veline” influenzavano più di un giornale (di lui .Giulio Andreotti, scrisse sul Corriere, che era stato “governativo ma mai servile).

Oggi il “pastone” è praticamente scomparso e il giornalista politico rincorre sui social l’ultima dichiarazione del leader politico. Addirittura, tra i politici, c’è chi chiede l’intervista scritta al giornalista e questo non è certo di aiuto per la qualità del prodotto. Sulla questione sono puntuali le osservazioni di Alessandra Sardoni, Maria Teresa Meli e Augusto Minzolini.

Nel tempo della velocità della rete, della spettacolarizzazione della politica, su cui si sofferma Stefano Menichini, c’è spazio ancora per l’approfondimento, come osserva giustamente Marco Di Fonzo, cronista politico di Sky Tg24: «Approfondimento non è solo un programma lungo (e lento) su un singolo argomento. Penso anche a un approfondimento che può stare all’interno di una diretta di due minuti. In altre parole, non racconti solo quanto detto dal politico di turno, ma inquadri le dichiarazioni della giornata, le spieghi in tempo reale a chi ti sta ascoltando. C’è una grande ricerca di senso riguardo a tutti i grandi temi, dalle questioni internazionali all’ambiente, dalle migrazioni all’economia. Se riesci ad essere credibile, la gente ti segue, perché si rende conto che il mondo va molto veloce e non riesce da sola a mettere insieme la valanga di dati e informazioni a disposizione. Le persone faticano a mettere assieme il quadro complessivo di quel che accade e noi possiamo essere un punto di riferimento prezioso». Questo è il giornalismo.

Matteo Angeli e Marco Michieli, Raccontare la politica, Ed. Ytali 2020, pp. 146, €10,00