Attualità di padre Murray, teologo della libertà religiosa, per la Chiesa e il pensiero democratico. Intervista a Stefano Ceccanti

John Courteney Murray (Wikipedia)

La vittoria di Joe Biden che tra due giorni giurerà come Presidente degli Stati Uniti,
ha fatto riscoprire il pensiero cattolico democratico americano. Uno dei padri
contemporanei, di questo filone di pensiero, è Padre John Courteney Murray, gesuita
amico di Paolo VI, di Luigi Sturzo e del filosofo cattolico francese Jacques Maritain.
Murrat, attraverso la frequentazione di Pax Romana, l’organizzazione internazionale
degli universitari cattolici ( si veda il link:
http://www.portale.fuci.net/2021/01/12/pax-romana-un-centenario-poco-noto-ma-
fecondo/), era ben conosciuto a livello internazionale. La sua influenza si estese,
grazie a Paolo VI, anche al Concilio Vaticano II (in particolare nel documento Dignitatis Humanae che tratta della libertà religiosa). Ed è significativo, alla viglia dell’insediamento del secondo presidente cattolico degli USA, la casa Editrice Morcelliana ripubblichi una sua opera. Infatti esce oggi il libro di John Courtney Murray, Noi crediamo in queste verità. Riflessioni cattoliche sul “principio
americano” (Morcelliana, 2021), a cura e con introduzione di Stefano Ceccanti. Si
tratta della riedizione della prima traduzione italiana (1965, di Carlo De Roberto)
del testo originale, We Hold These Truths: Catholic Reflections on the American
Proposition (1960). In questa intervista con Stefano Ceccanti, deputato PD e
costituzionalista, ne ripercorriamo il pensiero.

Onorevole Ceccanti, siamo a due giorni  dal giuramento di Joe Biden come
Presidente degli Stati Uniti e lei, alla vigilia di questo importante evento, è
curatore, per la casa editrice Morcelliana, di un importante libro di John
Courtney Murray, il grande teologo gesuita, e costituzionalista, americano, We
Hold these Truths, (Noi crediamo in queste verità). Sappiamo che il libro uscì,
all’inizio degli anni sessanta, alla vigilia dell’elezione di John Fitzgerald
Kennedy alla presidenza degli Usa. Sono passati 60 anni da allora perché
riproporre un testo così? 

Siamo alla vigilia dell’insediamento del secondo presidente cattolico della storia
americana, si ripropone quindi un intreccio interessante tra religione e politica.
Ovviamente non nello stesso modo, ma la provocazione credo possa risultare
interessante. Allora il senso del testo era bidirezionale. Verso la società americana,
contro vari pregiudizi protestanti, si trattava di dimostrare che il cattolicesimo era
alleato della democrazia, che essa era la sua opzione preferenziale e naturale e che i
laici cattolici impegnati in politica si assumevano una propria responsabilità, non
dipendevano meccanicamente dal clero. Il testo va quindi letto insieme al discorso di
Kennedy di Houston ai pastori protestanti, ampiamente influenzato da Murray. Verso
la Chiesa si trattava di lavorare per far assumere la libertà religiosa come un bene e
non come un male da tollerare. La visione tradizionale, espressa con particolare
intransigenza dal cardinal Ottaviani, era il frutto di uno scontro non con la modernità,
ma con una delle modernità, quella giacobina, che si presentava come una religione
secolare alternativa. L’America con la sua visione di un’amicizia, pur nella
distinzione, tra religioni e democrazia, di un’autolimitazione dello Stato che non
ricorreva alla coercizione per limitare il pluralismo era un possibile modello positivo.
Si trattava di archiviare le simpatie per regimi confessional-autoritari come quello
spagnolo, valorizzando quello che era accaduto di fatto con la candidatura Kennedy e
anche, per altri versi, con le democrazie cristiane europee. Oggi, la sfida è diversa,
come spiega anche Massimo Faggioli nel libro che esce simultaneamente per lo
stesso editore “Joe Biden e il cattolicesimo negli Stati Uniti”, è sempre bidirezionale,
ma sono cambiati entrambi i contesti. C’è un conflitto interno al cattolicesimo
americano: accanto al filone democratico di cui è espressione Biden, che si muove
nell’onda lunga di Murray, è cresciuta un’impostazione neo-intransigente più vicina a
Maurras e a Orban, che svaluta le acquisizioni conciliari e che si basa su una versione
radicalizzata della retorica dei principi non negoziabili dei due pontificati precedenti,
vivendo il pluralismo come un male e non come una risorsa da superare con una
egemonia confessionalistica. E c’è poi, connessa, la nuova radicalizzazione che si è
espressa col trumpismo a cui quel neo-intransigentismo ha dato copertura, che però è
stata battuta da Biden, potremmo dire con quella idea della Costituzione e della
politica che vede il richiamo alle regole comuni come accettazioni di articoli di pace
e non come elementi di credo di parte su cui insiste Murray.

È un testo che tratta, tra l’altro, del I emendamento della Costituzione
Americana (che garantisce il pluralismo religioso). Quindi si pone
all’avanguardia nella riflessione cattolica sulla libertà religiosa. Possiamo dire
che l’opera di Murray ha influenzato il Concilio Vaticano II. In che misura?
C’è un influsso diretto e uno indiretto. Quello diretto è noto, riguarda il ruolo di
Murray come perito conciliare, in raccordo con Paolo VI e con Maritain, di cui parlo
nell’Introduzione. Però esso si appoggiava su un influsso indiretto, quello già
esercitato aiutando Kennedy a sviluppare una linea culturale coerente e vincente nel
1960. I vescovi americani con Murray si presentano al Concilio come l’episcopato
della prima superpotenza del mondo in cui per la prima volta ha vinto un cattolico.
Riescono a far valere la loro posizione anche perché essa ha vinto prima sul piano
storico concreto.

Veniamo al cattolicesimo americano contemporaneo. Sappiamo che è un
cattolicesimo diviso, come del resto la società e la politica americana. C’è una
parte conservatrice che ha guardato a Trump e al suo sovranismo. E c’è una
parte più vicina a Papa Francesco che ha votato Biden. Lo stesso Biden è stato
osteggiato da alcuni vescovi conservatori. Come pensa che si muoverà Biden in
questo contesto?
C’è una sovrapposizione pressoché totale tra cattolici, vescovi in primis, oppositori al
Papa e sostenitori di Trump. Biden cercherà di non esasperare conflitti e nel frattempo, come accaduto in passato in senso inverso, ciò sarà agevolato dalle
nomine episcopali e cardinalizie di Francesco, peraltro in parte già avvenute.

Torniamo a Padre Murray. Sappiamo che per lui la separazione tra Stato e
Chiesa è un progresso. Qual è il valore della laicità in Murray?
Il termine laicità come tale non è utilizzato esplicitamente in Nordamerica e qualche
autore è dubbioso (se non addirittura contrario, ad esempio il sociologo Diotallevi,
che è uno dei principali studiosi italiani di Murray, che ha animato anche un bel
dibattito a favore dell’impostazione di Kennedy ad Houston con il vescovo
conservatore Chaput, una delle punte di diamante del settore duramente critico col
Papa) se si possa utilizzare. Loro usano il termine “libertà religiosa” che, attraverso le
due clausole del Primo emendamento (divieto di Religione di Stato, libero esercizio
della libertà) esprime due verità complementari, la separazione istituzionale tra Stato
e Chiese, ma anche il primato della società, vivificata dalle esperienze religiose, sullo
Stato. La separazione, nella distinzione, è quindi amichevole e non ostile. Per me,
nella sostanza, è equivalente a ciò che diciamo in Europa coi termini “laicità
positiva”, per distinguerla dalla separazione ostile e dalla confusione che si realizza
col confessionalismo.

Per Murray i valori della Costituzione americana sono più accettabili per uno
spirito religioso che non quelle della Rivoluzione Francese. È così?
Certo, i giacobini tendono ad affermare una religione secolare, una religione che non
sa di esserlo e che tende a sostituire quelle precedenti, è una visione monista.
Viceversa la Rivoluzione americana, come spiega Murray, è costitutivamente
pluralista. La religione cristiana non mira ad un’egemonia da far valere attraverso lo
Stato, ma rispetta e promuove il pluralismo nello stesso senso con cui De Gasperi,
Adenauer e Schuman hanno promosso istituzioni europee non sostitutive ma
complementari, sussidiarie a quelle nazionali.
Sì, per un duplice profilo. Quello ecclesiale perché Murray, che ha lavorato a Pax
Romana durante la guerra (il movimento internazionale della Fuci e del Meic) e che
aveva interagito con gli uditori laici al Concilio, provenienti anch’essi da Pax
Romana, dimostra sul lungo periodo la maggiore vitalità, che va comunque declinata
in termini nuovi, di un certo cattolicesimo che spesso nei decenni precedenti era stato
visto come superato a favore di forme più intimiste o integriste, valorizzate
erroneamente come più efficaci. Sul piano civile e politico perché, come sempre
segnalava Pietro Scopola, bisogna diffidare di sintesi politiche che attingano solo alle
risorse del cattolicesimo e della sinistra non preoccupandosi di fare i conti anche col
pensiero liberale e quindi con ciò che l’America rappresenta. C’è il rischio di sommare due spezzoni di culture nobili, vivaci, ma anche, prese da sole, molto
finalistiche e intransigenti, poco pragmatiche, con molta enfasi sullo Stato piuttosto
che sulla società. Gli elementi che devono interagire sono tre, compresa la cultura
liberale. Murray ci richiama al valore politico dei suoi amici Sturzo e Maritain, il
Maritain rigenerato dal periodo americano, di “Cristianesimo e democrazia” e de
“L’Uomo e lo Stato”.