In Italia la crisi di governo si sta sempre più complicando. I problemi dell’economia sembrano dirimenti dentro l’ingarbugliata matassa che non sarà semplice sciogliere. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0, che spiega perché a suo parere vi è un ruolo importante della politica internazionale che inciderà sulle scelte che condurranno a un nuovo governo.
Sabella, secondo lei in questa crisi – ed eventualmente nella sua soluzione – vi è una questione di fondo che, al di là dei protagonisti, potrebbe delineare un nuovo quadro politico?
Si, secondo me questo fil rouge esiste e non va cercato in casa nostra. O, almeno, vanno considerati alcuni elementi che sono sempre più visibili a livello di politica internazionale. Infatti, mentre hanno preso il via le consultazioni, nel mondo avvengono cose importanti.
Per esempio?
Martedì, intervenendo al World Economic Forum di Davos, Angela Merkel ha preso una posizione piuttosto anomala e netta nei confronti di Xi Jinping: “la Cina non è trasparente sul covid e sulla gestione dell’emergenza sanitaria” ha detto la cancelliera tedesca. Se consideriamo che la Germania è il più importante partner commerciale della Cina, va da sé che queste non sono parole, per dir così, ordinarie. Inoltre, in queste ore il neo presidente americano Joe Biden ha firmato un pacchetto di 17 ordini esecutivi che segnano un cambio di linea rispetto all’amministrazione Trump. In particolare, il piano del presidente americano prevede 2 mila miliardi per affrontare la crisi climatica e creare nuovo lavoro; inoltre, lo stesso pacchetto porterà al blocco delle nuove concessioni per estrazione di combustibili fossili. In una battuta, il Green New Deal non è più soltanto europeo.
E questo cosa significa? E, soprattutto, cosa c’entra con le nostre vicende?
Teniamo conto che, sempre a Davos, Xi Jinping è stato molto duro contro gli USA e contro gli “isolazionismi arroganti”, parole sue. E sappiamo bene che, nei confronti della Cina, Biden non può che andare in continuità con quanto fatto da Trump, salvo nei toni. Ecco perché le dichiarazioni di Merkel sono significative, perché danno evidenza di quel riavvicinamento tra Europa e USA che Biden ha annunciato non appena eletto, riportando gli USA dentro gli accordi di Parigi sul clima. Tutto questo è premessa al nuovo multilateralismo che sta nascendo, in cui la questione climatica e gli investimenti connessi sono centrali. Ora, il Recovery Plan o Next Generation EU che dir si voglia, sono la grande scommessa europea di rilancio delle filiere produttive in un’ottica di sostenibilità ambientale e sono il pretesto – che a mio modo di vedere non è solo un pretesto – che ha creato questa crisi di governo.
In che senso non sono solo un pretesto?
Vi è un intento diffuso, che tocca tutti gli ambienti politici, di rinnovare il governo italiano e che trova sponde in Europa e anche negli USA, da un lato in ragione del fatto che dall’altra parte dell’Oceano inizia un nuovo corso politico e non dispiacerebbe vedere un governo italiano più orientato a ovest e meno verso il Sol Levante. Non è un caso che Giuseppe Conte, nel suo intervento alla Camera, abbia definito gli USA “il partner più importante”. Dall’altro lato, l’Europa ci ha messo a disposizione 209 miliardi di euro: è chiaro che a Bruxelles, e a Berlino soprattutto, vi è interesse che il Recovery Plan in Italia funzioni, per più ragioni. Non pare che in Europa siano stati contenti dopo aver visionato la bozza che il governo italiano ha inviato, anche se il piano definitivo è atteso per la fine di aprile. Da qui le preoccupazioni europee, in particolare tedesche. E il malcontento dei Paesi nordici, che del tutto d’accordo con questo programma non sono mai stati.
Cosa ha scontentato in Europa del Recovery Plan italiano e perché l’Italia è osservato speciale in questo importante investimento europeo?
L’Italia è paese strategico in questa ricostruzione non solo perché gli investimenti in particolare franco-tedeschi sono tanti nel nostro paese ma anche per altre ragioni: in primis, il commissario Gentiloni ha sempre detto che l’Italia è la vera scommessa del Next Generation EU, anche perché siamo il paese che più beneficia dei fondi europei; in secondo luogo, la Germania ha rinnegato la sua posizione sull’austerity accogliendo le richieste dei Paesi dell’area mediterranea, Francia e Italia in particolare: al di là che il Recovery Fund interessava anche a loro – per rilanciare la loro industria – per i tedeschi sarebbe uno smacco se in Italia non desse frutto. Consideriamo inoltre che l’industria italiana è fortemente integrata con quella tedesca e, anche per questo, a Berlino auspicano che noi sappiamo approfittare dei fondi. Ciò premesso, questa prima bozza era colpevolmente incompleta, di idee e di analisi. Per fare qualche esempio, siamo un Paese che per caratteristiche può contribuire in modo importante alla produzione dei vaccini: le previsioni del governo prevedono, invece, fondi solo per acquisti e per la ricerca; inoltre, tutti i ragionamenti abbozzati sono manchevoli rispetto ai ritorni occupazionali ad esempio. È un piano debole, ma penso che al governo ne fossero consapevoli. È quello che sono riusciti a fare dopo un paio di mesi di forte immobilismo. Tuttavia, è questa una fase troppo importante per essere azzoppata dall’immobilismo politico. Ecco perché sono convinto che in particolare da Bruxelles sono molto attenti e vigili sulla nostra crisi e perché il Presidente Mattarella, al quale toccherà prendere una decisione importante, dovrà tener conto anche dei fattori non solo di casa nostra.
Il Recovery Plan italiano è quindi debole lei dice. Cosa dovremmo fare secondo lei?
Anzitutto, abbiamo bisogno di un governo che abbia contezza di quelle che sono le leve per rilanciare l’economia: da una parte le infrastrutture, l’innovazione digitale, la semplificazione, insomma ciò che possiamo chiamare riforme strutturali che sono problemi annosi, quindi noti a tutti; dall’altra, però, abbiamo bisogno di persone capaci di leggere e di entrare nei processi dell’economia, che vuol dire sapere quali sono quegli asset in grado di generare valore e ricchezza: in particolare, il chimico-farmaceutico, la meccanica di precisione, il tessile, elettronica e computer, ottica, apparecchiature in legno… ma attenzione alle energie rinnovabili, al riciclo, e alla mobilità elettrica che sta per svilupparsi in modo dirompente.
L’industria dell’auto è stata il simbolo dei processi di industrializzazione più recenti. Lo sarà anche stavolta?
Sono cambiate molte cose, un po’ in ragione dell’accesso e non del possesso – si pensi in particolare a car sharing e car pooling – ma anche in ragione del fatto che i più giovani, così sensibili alla questione ambientale, vedono nell’auto un soggetto dell’inquinamento. Ma sono convinto che la mobilità elettrica rappresenterà la grande transizione ecologica ed energetica a cui l’Italia darà un contributo importante. Proprio in questi giorni, la stampa inglese parlava di “punto di non ritorno” per quanto riguarda l’auto elettrica, dell’utilizzo di massa in virtù del crollo del costo delle batterie che ha già portato a un boom delle vendite nel 2020 stimato in un +43% a livello globale. Sempre in queste ore, l’Unione Europea ha infatti approvato un programma che prevede 2,9 miliardi di euro a sostegno della ricerca e sviluppo per le batterie a case e aziende che operano nel Vecchio Continente, da Stellantis, a BMW, a Tesla, assieme a operatori energetici come EnelX e altri grandi nomi come Solvay. Un’iniezione di liquidità che permetterà all’Europa di poter competere con gli altri big del settore, cinesi in testa (che detengono l’80% della produzione mondiale) e giapponesi, raggiungendo l’indipendenza nel ramo della produzione di batterie. L’investimento sull’elettrico, da parte dell’Europa, era evidente già dall’ultimo anno della commissione Juncker. E, sempre secondo gli inglesi, la svolta è vicina: tra il 2023 e il 2025 i veicoli a zero emissioni diventeranno più economici di quelli