“Il PD lanci una nuova Costituente del riformismo italiano”. Intervista a Giorgio Tonini

Giorgio Tonini (LaPresse)

Nel Partito Democratico sta crescendo il dibattito. La fine del governo Conte 2 sta facendo emergere un malcontento nel patito. Torna centrale il problema della linea politica (vocazione maggioritaria oppure no), come quello della sua identità. Facciamo il punto con Giorgio Tonini esponente dell’area liberal del PD e consigliere  provinciale della Provincia autonoma di Trento e della Regione Trentino-Alto Adige.

Senatore Tonini, incominciamo questa nostra conversazione con il governo Draghi. Le chiedo, adesso che la squadra  è completa, un giudizio sul governo. L’impressione è che, guardando la vicenda dei sottosegretari, non sia partito con il piede giusto. Trova esegerata questa affermazione?

Il mio giudizio è che, nelle condizioni date, si tratta del governo migliore possibile per il paese. Del resto l’Italia, che fatica ad organizzarsi in modo soddisfacente in via ordinaria, dà sempre il meglio di sé nelle situazioni eccezionali. Dinanzi alla triplice emergenza che dobbiamo affrontare – sanitaria, socio-economica e politica – il presidente Mattarella ha chiamato a raccolta tutte le forze politiche e sociali, attorno alla personalità oggi più stimata nel nostro paese, che è anche l’italiano più conosciuto e apprezzato nel mondo. A sua volta Mario Draghi, forte di un largo consenso trasversale, ha composto un Consiglio dei ministri di alto profilo, sia tecnico che politico, una miscela sapiente di competenza e rappresentatività, che sono poi le due componenti, ugualmente importanti, per dar vita ad un governo autorevole. Questi, a mio modo di vedere, sono i dati politici essenziali. Dopo di che, ognuno ha in testa il suo “dream team”, che si tratti della nazionale di calcio o del governo del paese. Ma il fuoco, diceva De Gasperi, si fa con la legna che si ha.

Sembra che la destra, in particolare la Lega, sia più a suo agio nel governo. Per lei?

Il Pd e il M5S entrano nel nuovo scenario dopo la crisi del “loro” governo, il governo giallo-rosso, il governo Conte2, quindi con un sentimento misto, al tempo stesso di convinzione (soprattutto da parte del Pd) e frustrazione (in particolare tra i grillini). Per il centrodestra il passaggio di fase assume un significato assai diverso. Da parte di Forza Italia, l’ingresso nel nuovo esecutivo è vissuto come la fine di uno stato di esclusione dal governo che durava dal 2011, a parte i primi mesi del governo Letta. E per la Lega, che pure è costretta ad ammainare tutte le bandiere “salviniane”, il terzo governo di questa legislatura è comunque vissuto come un ritorno, quasi una rivincita. Nella sintesi hegeliana, rappresentata dal terzo governo di questa legislatura, dopo la tesi e l’antitesi dei due governi Conte, è inevitabile che il centrodestra veda soprattutto la “negazione della negazione”. Ma se dal punto di vista della sua base politico-parlamentare, il governo Draghi è effettivamente la sintesi dei due stadi precedenti, dal punto di vista del programma e della cultura politica che lo sostiene, incarnati nella figura e nelle parole inequivoche di Mario Draghi, il nuovo esecutivo non è affatto equidistante tra Conte1 e Conte2, ma si pone semmai come la terza fase, quella conclusiva (vedremo se anche definitiva) della liquidazione politica del populismo sovranista e antieuropeo che tre anni fa era entrato da vincitore nelle aule della Camera e del Senato.

La domanda sul governo era una specie di ouverture. Arriviamo al vero argomento dell’intervista: il partito democratico. Possiamo dire che la pandemia e l’esperienza del governo Conte hanno nascosto il malcontento che ora sta emergendo nel suo partito. Un malcontento che tocca la gestione del partito e della linea politica portata avanti dal segretario Zingaretti. Le chiedo: non è deleterio, in questo contesto complicatissimo (e con questo governo), dividere il PD?

Dividere il Pd, in qualunque scenario, non solo in questo, è molto più che deleterio, è un atto di irresponsabilità nei confronti del paese. Vede, nessun paese europeo ha dovuto affrontare la doppia emergenza, sanitaria e socio-economica, nel contesto di debolezza, precarietà e instabilità politica dell’Italia. Tutti e tre i governi di questa legislatura sono stati guidati da personalità (prima Conte, poi Draghi) scelte fuori dal parlamento e dai partiti. Tutto legittimo, sul piano costituzionale. Tutto necessario e anzi obbligato, sul piano politico. Ma tutto anomalo sul piano democratico. La politica italiana, questa è la verità, non è in grado di svolgere la sua funzione primaria: esprimere leader e assetti per il governo stabile del paese. La stabilità dei governi, bene primario di qualunque sistema democratico, è per noi italiani ancora un miraggio. Alla stabilità si può arrivare attraverso meccanismi istituzionali (come nel caso della Francia, governabile anche con partiti deboli o addirittura in crisi), o attraverso un sistema di partiti parlamentari forti e durevoli nel tempo, come in Germania o nel Regno Unito. Non si possono cumulare, come accade in Italia, regole istituzionali pensate per indebolire i governi e partiti deboli e precari. Un sistema democratico di tipo parlamentare è sano e forte se ha pochi (idealmente due) partiti grandi e duraturi, “a vocazione maggioritaria” come diceva Mitterrand, attorniati da qualche forza minore. Non quattro-cinque partiti medi, nessuno dei quali in grado di ottenere nemmeno un quarto dei voti, circondati da un pulviscolo di formazioni politiche in perenne metamorfosi, per lo più frutto di trasformismo parlamentare, o di scissioni motivate da ragioni contingenti se non effimere. Se ogni oppositore di Angela Merkel dentro la Cdu-Csu avesse dato vita ad un suo partitino, oggi la Germania sarebbe messa come l’Italia.

Veniamo alle critiche mosse al Segretario. In particolare, per l’area riformista, si fa osservare che il PD è stato troppo schiacciato sui cinque stelle. Per cui, sempre secondo l’area riformista, occorre tornare alla vocazione maggioritaria. Al di là delle parole qui si tocca il problema identitario del PD. Un problema enorme, che ancora non è stato definitivamente risolto. In un contesto così drammatico (disagio sociale enorme, esplosione della povertà, ricostruzione del Paese) quale identità per il PD?

L’identità di un partito, mi ha insegnato Alfredo Reichlin, è definita dalla sua funzione. Il Pd è nato da una grande convergenza e non da una scissione: dunque l’identità del Pd è la sua funzione di unire il riformismo per portarlo al governo del paese. Il Pd è la casa comune dei riformisti del centrosinistra, una casa grande e plurale, retta da un progetto politico, rendere il riformismo maggioritario nel paese per dare al paese quella stagione di riforme che non ha mai conosciuto. E retta da una regola aurea, la contendibilità di tutte le cariche e le candidature, per la quale nessuna vittoria e nessuna sconfitta nella dialettica interna è mai definitiva e irreversibile: il vincitore pro tempore non espelle gli sconfitti e gli sconfitti pro tempore non spaccano il partito. Progetto politico e principio democratico sono stati minati alle fondamenta dalle tante scissioni, inutili e dannose, perpetrate peraltro da chi dal partito aveva avuto ruoli di massima direzione, come Bersani o Renzi. Possiamo andare ancora avanti in questa diaspora, in questa deriva disperatamente nichilista, fino alla completa distruzione, fino all’annientamento del più importante e ambizioso progetto politico italiano di questo secolo. O possiamo invece assumerci la responsabilità di rilanciare la capacità inclusiva e la vocazione maggioritaria del Pd. Anche con un passaggio straordinario, una nuova Costituente del riformismo italiano, nella quale riscoprire e rilanciare le ragioni dell’unità in nome di una comune visione del futuro del paese. In questo rilancio di un riformismo ripensato e rinnovato deve esserci spazio anche per una riflessione non rituale sul populismo. Il riformismo perde se non ascolta, interpreta e rappresenta le ragioni del popolo. Le ultime riflessioni di Emanuele Macaluso sono state un grido d’allarme circa la gravità e l’aggravarsi progressivo della frattura tra riformismo e popolo. È in questa chiave che è stato giusto aprire un dialogo tra Pd e Cinquestelle: un dialogo che ho sempre sostenuto e difeso. Un dialogo che ha prodotto risultati importanti per il paese, a cominciare dal ritorno (e da protagonista) dell’Italia nel “mainstream” europeo, un ritorno che ha contribuito non poco a rendere possibile la “svolta keynesiana” della politica economica dell’Unione. Un dialogo che non è riuscito tuttavia a mostrare capacità espansive sul piano dei consensi, né in parlamento, né nel paese. Forse perché impostato, da entrambe le parti, più sul piano della divisione del lavoro e della spartizione di aree di influenza e di potere, che sulla produzione di una sintesi politica e programmatica più avanzata e persuasiva. Probabilmente, la crisi del governo Conte2 ha in questo limite strategico le sue cause non occasionali.

Voi del PD avete chiaro chi sono i vostri elettori?

I nostri elettori attuali e reali sono prevalentemente ceti medi urbani che vivono di spesa pubblica. Una parte pregiata, ma strutturalmente minoritaria, del paese. Il Pd, come l’Ulivo prima del Pd e in generale la sinistra e il centrosinistra dopo la fine della “Prima Repubblica”, fatica a rappresentare, per dirla con Claudio Martelli, sia il merito che i bisogni: sia i competenti-competitivi sul mercato, sia i perdenti della globalizzazione, a cominciare dagli operai. Vocazione maggioritaria significa oggi in concreto saldare i (relativamente) garantiti dalla spesa pubblica, con i competitivi da una parte e i perdenti dall’altra. Il ciclo di governo a guida Pd della scorsa legislatura (prima Letta, poi Renzi, poi Gentiloni) non è riuscito in questo tentativo: un fallimento del quale mi sento, per la mia parte, corresponsabile. Purtroppo nel Pd, dove si discute e soprattutto si litiga in piazza ogni giorno su tutto, non si è mai avviata una vera riflessione sulle cause e sui possibili rimedi di quel fallimento, riassunto nella cocente sconfitta del 2018. Ci si è divisi su Renzi: tutta colpa sua, cacciamolo, contro tutta colpa di chi lo ha contrastato, cacciamoli. Come i milanesi durante la peste raccontata dal Manzoni, invece di indagare le cause, ci siamo dedicati alla poco nobile arte della caccia al colpevole. Né i renziani, né gli antirenziani si sono chiesti perché nel giro di due anni, con lo stesso segretario, il Pd è volato sopra il 40 per cento, per poi precipitare sotto il 20. Dal massimo al minimo storico.

Torniamo al governo, non pensa che la lealtà, assolutamente doverosa, non debba essere la sola caratteristica del PD al governo, ma dovrebbe essere anche quella di un protagonismo capace di creare una egemonia politica nel governo?

Il Pd non potrebbe non sostenere il governo Draghi, neppure se, per assurdo, lo volesse. Perché sarebbe come non sostenere se stesso, i fondamenti primari della sua cultura politica. Quindi lealtà è troppo poco. Il governo Draghi per il Pd non è un “governo amico”, è il “suo” governo. È il “nostro” governo. Il protagonismo del Pd deve esprimersi in due direzioni. Innanzi tutto sul piano programmatico. Ho parlato prima del nostro fallimento politico nella scorsa legislatura. A parziale nostro discarico, possiamo invocare l’argomento della totale inadeguatezza della linea di politica economica dell’Europa. L’allora ministro Padoan parlava di un “sentiero stretto” lungo il quale l’Italia doveva camminare a passi piccoli e prudenti: tra politiche restrittive, per evitare il default del nostro gigantesco debito pubblico, e politiche espansive, per evitare che la cronica stagnazione della nostra economia reale diventasse recessione e depressione. Quel sentiero era stato reso praticabile dalla politica monetaria, marcatamente espansiva, della Bce presieduta da Mario Draghi. Ma il sentiero restava stretto perché, come ripetutamente e pubblicamente sottolineato dallo stesso Draghi, la politica monetaria non era sorretta da una parallela politica economica espansiva a livello federale europeo, l’unica in grado di compensare le politiche restrittive necessarie nei paesi fortemente indebitati e di sostenere le riforme strutturali, indispensabili per accrescere la competitività delle nostre imprese sul mercato globale. Quella svolta è ora finalmente arrivata. Il governo Draghi deve poter dimostrare che la forza espansiva dell’imponente pacchetto di misure keynesiane europee sarà impiegata dall’Italia per fare solo debito “buono” (quello che si ripaga perché alimenta la crescita e non si limita ad accompagnare il declino) e per sostenere le riforme strutturali che rendano possibile e sostenibile la distruzione creatrice, che è la chiave per accrescere la competitività del nostro sistema e dunque la crescita e l’occupazione. Il Pd deve scommettere senza riserve mentali sul successo dell’Agenda Draghi: perché è l’unica chance per l’Italia, ma anche perché è l’unica chance per il Pd, per dimostrare a se stesso e al paese che è possibile una nuova convergenza tra riforme e popolo, una credibile ambizione maggioritaria del riformismo.

Questa è la prima direttrice del protagonismo Pd. La seconda?

La seconda è più semplice, se si realizza la prima. La componente cosiddetta “tecnica” del governo Draghi è perlopiù incarnata da personalità che da sempre si riconoscono nel riformismo di centrosinistra. Il Pd dovrebbe nutrire l’ambizione di diventare abitabile, in via naturale e spontanea, per personalità, mondi, ambienti che oggi fanno fatica a riconoscersi in un partito dilaniato da incomprensibili baruffe tra piccoli leader di ancor più piccole correnti.

Veniamo a Giuseppe Conte, qual è il suo pensiero su di lui? Pensa che possa essere ancora il punto di riferimento per i progressisti?

Non conosco personalmente Giuseppe Conte, ma gli riconosco il merito di aver guidato con dignità e responsabilità una transizione assai difficile. Sul suo futuro politico, non saprei. Spero che decida di portare il suo contributo alla ricomposizione della frattura tra riformismo e popolo. Sul proliferare di partitini personali ho già espresso la mia opinione.

Non le preoccupa la crescita di Giorgia Meloni?

Certo. È un segnale di quanto sia ancora irrisolta la frattura tra riformismo e popolo. Sul tempo medio, è un fattore di forza tattica, ma anche di debolezza strategica del centrodestra. Forza tattica, perché è del tutto evidente che il centrodestra, superata (come speriamo tutti) l’emergenza e scelto insieme il nuovo presidente della Repubblica, si appresta a chiedere il voto, convinto di poter saldare in modo vincente il “partito del Nord”, che si è ritrovato attorno all’asse governativo tra Forza Italia e Lega (almeno parzialmente) “desalvinizzata”, asse sdoganato dall’esperienza del governo Draghi, con le aree, geografiche e sociali, del paese che mantengono un atteggiamento di diffidenza e di protesta e che oggi tendono a riconoscersi soprattutto in FdI. Questa forza tattica rischia tuttavia di capovolgersi in debolezza strategica, se il partito della Meloni dovesse rafforzarsi in modo tale da mutare in modo significativo gli attuali rapporti di forza nel centrodestra. Molto dipenderà anche dal Pd: se saprà utilizzare appieno il sostegno e anzi l’identificazione col  governo Draghi come propellente di un allargamento delle basi del suo consenso nel paese, o se invece cederà questa opportunità al rinnovato asse tra Lega e Forza Italia. Come avviene in ogni grande coalizione, la collaborazione tra avversari non può che essere anche una competizione: per il migliore posizionamento, in vista del confronto elettorale futuro.

Lettera al Presidente del Consiglio Mario Draghi: “Fare tutto quello che è necessario per la salute delle persone”.

Vaccinazione Covid-19 (Ansa)

Di seguito pubblichiamo l’appello di tre importanti esperti in salute pubblica, italiani ed europei, al Presidente Mario Draghi affinché l’Italia e l’Europa si impegnino a garantire l’accesso dei Paesi poveri ai vaccini derogando ai diritti di proprietà intellettuale. Gli autori dell’appello sono : Rosi Bindi, già ministro della salute, Nicoletta Dentico, della Society for International Devolopment e Silvio Garattini, Presidente dell’Istituto Mario Negri.

Esattamente un anno fa, a Codogno, la dottoressa Anna Malara decideva di assumersi la responsabilità di forzare i protocolli medici e fare il test diagnostico a Mattia Maestri,  intercettando così per la prima volta la presenza del virus SARS-CoV-2 in Italia. Di lì a poche settimane, la Lombardia sarebbe divenuta una delle aree clinicamente più colpite nella storia di COVI-19, e il nostro paese l’epicentro del virus a livello mondiale.

In tempi di pandemia occorre sempre sforzarsi di prevedere cosa possa succedere in futuro in rapporto con il peggior scenario possibile. Solo in questo modo è realistico avere un minimo di preparazione per affrontare i problemi. In Europa stiamo sperimentando i ritardi che non ci permettono di effettuare con tempestività l’utilizzo dei vaccini per realizzare l’immunità di popolazione perché non abbiamo produzioni autonome e dipendiamo da sorgenti estere che hanno interessi nazionalistici ed economici che non possiamo controllare. Una condizione che molte popolazioni del sud del mondo conoscono fin troppo bene. Ci troviamo evidentemente di fronte a una congiuntura mai sperimentata prima. Al netto dei numerosi errori commessi nella conduzione delle trattative con le case farmaceutiche da parte della Commissione Europea, e riconosciuti dalla presidente Von der Leyen, sfornare vaccini in quantità dell’ordine di centinaia di milioni di dosi in poche settimane o mesi, possibilmente a un ritmo tale da precedere eventuali ulteriori mutazioni del virus, è tutt’altro che scontato. Sia da un punto di vista tecnico, inerente al ciclo di realizzazione dei vaccini. Sia perché la produzione è concentrata nelle mani di pochissime case farmaceutiche. Si impone all’Europa riunita nel Consiglio europeo una seria riflessione sulla visione nel campo della salute e delle politiche farmaceutiche, non solo per far fronte all’attuale pandemia ma anche alle eventuali future crisi sanitarie – basti pensare alla resistenza dei batteri agli antibiotici, una pandemia silente con una mortalità annuale di circa 30.000 in Europa, un terzo delle quali solo in Italia.

Ma torniamo a SARS-CoV-2. Lo scenario che si prospetta è incerto ma si può prevedere che il virus continui a circolare nei Paesi ad alto reddito per almeno tutto il 2021, e per alcuni anni continui ad essere presente nei Paesi a basso reddito che non hanno a disposizione il vaccino. Una disuguaglianza urticante sotto il profilo epidemiologico, che i paesi ricchi non hanno ancora compreso. E poi c’è lo sviluppo di mutazioni del virus che comportano la circolazione di “varianti” più contagiose, una sorta di pandemia nella pandemia che può determinare una ridotta o completa insensibilità ad alcuni degli attuali e futuri vaccini.  Queste prospettive richiedono una nuova e urgente attenzione da parte dell’Europa alla necessità di essere parte attiva nella produzione di vaccini anti SARS-CoV-2. Usando appieno tutti gli spazi normativi esistenti, occorre uscire da false sicurezze e porre in atto un programma per realizzare nuovi stabilimenti e ampliare quelli esistenti, in Italia e negli altri paesi europei, sotto l’egida di una gestione strategica pubblica. Nel contempo, occorre acquisire tutte le conoscenze scientifiche che servono per riuscire a organizzare e diffondere quanto più possibile una risposta adeguata alla pandemia. Non c’è tempo da perdere. Nel Consiglio europeo è possibile far avanzare la nuova consapevolezza di sé che l’Europa ha sviluppato con questo virus, pedagogo irriducibile ma razionale.

In una lettera aperta pubblicata di recente sulla rivista medica The Lancet un gruppo di esperti in salute pubblica afferma che “la pandemia di COVID-19 non avrà fine finché non ci sarà un programma rapido di vaccinazione su scala globale per proteggere dalle forme gravi della malattia e preferibilmente puntare alla immunità di gregge”. L’Europa a questo punto deve spiegare a quale sottile forma di darwinismo politico e sanitario si ispira l’insistente opposizione alla richiesta di India e Sudafrica – in discussione da ottobre all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) – di derogare ai diritti di proprietà intellettuale (IP Waiver) durante la gestione della pandemia. La proposta, perfettamente legale ai sensi della Convenzione di Marrakesh con cui è stata creata l’Omc, gode di un crescente consenso, man mano che si avvicina il termine per la decisione finale al Consiglio generale, il 1 e 2 marzo. Oltre cento stati membri si sono pronunciati a favore – ultimi, in ordine di tempo, i paesi del gruppo africano – e così hanno fatto alcune agenzie dell’Onu (Oms e Unaids), i rapporteur speciali delle Nazioni Unite, economisti del calibro di Joseph Stiglitz e Mariana Mazzuccato. Il 5 febbraio un gruppo di parlamentari europei è uscito allo scoperto per sostenere questa strategia, insieme alla campagna Diritto alle cure. Nessun profitto sulla pandemia.  Sulla scia di un appello lanciato a novembre da oltre 400 organizzazioni della società civile internazionale, il 16 febbraio il sud globale si è rivolto all’occidente, perché i paesi ricchi permettano di estendere e facilitare l’accesso alla conoscenza scientifica disponibile, largamente finanziata dal settore pubblico nel caso di COVID-19, per fermare il virus.

La sospensione dei diritti di proprietà intellettuale non riguarda evidentemente solo i vaccini, ma permetterebbe di diffondere l’accesso alla ricerca scientifica anche per la riproduzione e ideazione di dispositivi medicali indispensabili contro COVID, e per la ricerca nel campo delle terapie necessarie alla gestione dei pazienti, come abbiamo visto nelle corsie ospedaliere di tutto il mondo. A chi sostiene che la proprietà intellettuale non sia un problema, ricordiamo che le piattaforme tecnologiche per lo sviluppo dei vaccini contro COVID-19 sono state usate in precedenza per altri vaccini e sono blindate dai brevetti – più di 100 solo per la tecnologia mRNA. Almeno due brevetti coprono il vettore adenovirale recombinante e il metodo di composizione del vaccino Oxford/AstraZeneca, che è stato richiesto in almeno 13 giurisdizioni, con scadenza nel maggio 2037, o nel migliore dei casi nel 2031. Nel campo dei diagnostici, il Sudafrica ha avuto seri problemi per procurarsi i reagenti chimici (test cartridge) dei dispositivi GeneXpert a causa della azienda Cepheid, proprietaria delle macchine e dei reagenti. All’inizio della pandemia la svizzera Roche si rifiutò di accogliere la richiesta dell’Olanda di pubblicare le istruzioni per la preparazione dei reagenti chimici necessari alla produzione dei kit diagnostici, e dovette cedere solo dopo l’intervento della Commissione Europea. A Brescia, i giovani ri-produttori con la stampante in 3D della valvola necessaria a un ventilatore che ha salvato la vita a 10 pazienti hanno ricevuto minacce di denuncia per violazione di brevetto dalla azienda Techdirt, proprietaria del ventilatore che costa sul mercato 11.000 dollari. Sono esempi che ci fanno capire una cosa importante: la deroga ai brevetti serve al nord del mondo, non solo alle imprese localizzate nei paesi del sud globale.

Il nuovo coronavirus ha segnato il corso della storia europea, che ha scelto anch’essa di forzare le regole di cui si era dotata per interromperne la applicazione, riconosciuta come inefficace nel contesto della pandemia. E’ avvenuto con la sospensione del Patto di Stabilità. Il Consiglio europeo riunito in questi giorni può fare la differenza sospendendo le regole dell’Omc, inefficienti a contrastare una pandemia come non si è mai vista prima nella storia.

La dottoressa Malara ebbe a dire che  “l’obbedienza alle regole mediche è tra le cause che hanno permesso a questo virus di girare indisturbato per settimane”. Oggi, l’Europa ha la possibilità di bloccare il “virus dell’individualismo radicale” di cui parla Papa Francesco e impedire che la legge del mercato e dei brevetti abbia la precedenza sulla salute dell’umanità. Quanto a Lei, Presidente, nel suo primo discorso al Senato ha ricordato che l’espressione più alta della politica è quella di saper tradurre i tempi difficili “in scelte coraggiose, in visioni che fino a un attimo prima sembravano impossibili”. Faccia valere oggi questa responsabilità, con l’autorevolezza che ha saputo dimostrare in altre difficili congiunture internazionali.  Whatever it takes. Per la vita delle persone, e non solo della moneta.

 

Rosy Bindi, già Ministra della Salute

Nicoletta Dentico, Society for International Development 

Silvio Garattini, farmacologo, presidente e fondatore dell’Istituto Mario Negri

Con Draghi il lavoro torna al centro della politica, in Italia e in Europa. Intervista a Giuseppe Sabella

Subito dopo l’ampia fiducia che si è guadagnato presentando il suo governo al Parlamento, al Premier Mario Draghi è toccato il primo appuntamento internazionale: al G7 – tenutosi in videoconferenza e convocato dal Primo Ministro inglese Boris Johnson – c’era anche Joe Biden, oltre ai leader di Francia, Germania, Canada e Giappone. Presenti anche Ursula von der Leyen e Charles Michel, rispettivamente per la Commissione e per il Consiglio Europeo. Si è discusso in particolare di pandemia e vaccini. Ma anche di clima, di G20 e di sviluppo. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella.

Sabella, la pandemia sembra aver creato nuovi equilibri nella globalizzazione. E a ciò contribuisce sicuramente l’esito delle recenti elezioni americane. Per citare parole di quel grande intellettuale che è Giulio Sapelli, “dove va il mondo?”

Anzitutto, il mondo in questa fase è chiamato a delineare una strategia comune che ci porti fuori dall’emergenza sanitaria. Questo è stato uno dei punti chiave del G7 di ieri. Inoltre, dal 2017 il commercio mondiale ha subito un potente rallentamento e ha generato condizioni per mercati sempre più regionalizzati – Europa, USA e Asia – in prossimità di quelle che sono le grandi piattaforme produttive, appunto Europa, USA e Cina. Ai dazi dell’amministrazione Trump, la UE ha risposto col suo Green New Deal, ovvero con un programma che oltre a innovare l’industria vuole consolidare il mercato interno, per il momento ancora senza forme di protezionismo diretto che non è escluso vi saranno in futuro. Naturalmente, la pandemia ha accelerato questo processo e la UE ha così rafforzato le sue misure di intervento creando il più ampio Recovery Fund o Next Generation EU. Nel frattempo, Biden riporta gli USA dentro gli accordi di Parigi (da ieri è ufficiale), la UE negozia con la Cina un accordo commerciale importante e a Davos Angela Merkel attacca Xi Jinping per la gestione poco trasparente del covid-19; e non dimentichiamo che la Germania è il più importante partner commerciale della Cina. In sintesi: siamo all’inizio di un nuovo multilateralismo che vede un riavvicinamento importante di Europa e USA. Lo stesso Draghi, nel suo discorso alle Camere, si è richiamato in modo netto ai valori dell’atlantismo.

Considerando che a maggio 2021 proprio in Italia vi sarà il G20, qual è il ruolo che potrà recitare il nostro Paese dentro questo nuovo multilateralismo?

Come dicevo, il mondo si sta riconfigurando a partire dalla capacità produttiva delle singole macroregioni. Questa è una cosa importantissima, significa restituire centralità al lavoro dopo trent’anni in cui al centro dell’agenda politica vi erano scambi e finanza. Venendo a noi, l’Italia è non solo il secondo Paese manifatturiero in Europa ma è anche fortemente integrata con la grande piattaforma tedesca, cuore dell’industria europea. Direi che con i 209 miliardi del Recovery Fund possiamo fare cose importanti. Consideriamo anche il fatto che Angela Merkel sta uscendo di scena e la leadership di Mario Draghi sarà importante non solo in casa nostra ma anche in Europa. E già lo è stata, non solo negli anni in cui era Presidente della BCE. In sintesi, l’Italia da fanalino di coda può ritrovarsi a recitare un ruolo egemone in Europa che significa nel mondo. Cosa possiamo portare noi italiani all’interno del nuovo multilateralismo? Per richiamarci alle 5 P dello sviluppo sostenibile, direi in particolare persone, pace e pianeta, valori che sono inequivocabilmente usciti dai primi discorsi istituzionali di Mario Draghi,

A cosa si riferisce quando allude alla leadership di Draghi?

Mario Draghi sta contribuendo al cambiamento dell’Europa. In primis, se esiste il Quantitative Easing, dobbiamo dire grazie a lui. Non dimentichiamoci che a suo tempo, Draghi aveva contro Wolfgang Schäuble e gran parte dell’establishment europeo. E la recente sentenza della Corte di Karlsruhe – che contesta fortemente il QE – è la reazione di una parte di quell’establishment che in Germania ha sempre avuto importanti fondamenta. Questo ci dice anche quanto Angela Merkel sia stata molto abile nel portare la Germania al fianco dei Paesi del sud Europa nella trattativa sul Recovery Fund. Inoltre, proprio Mario Draghi il 25 marzo 2020 pubblicava un editoriale sul Financial Times in cui spiegava che per rispondere all’evento epocale della pandemia non restava altra soluzione che il debito. Il giorno dopo, 26 marzo, si riuniva l’eurogruppo che, in tre mesi, è giunto all’accordo del Next Generation EU. Un grande risultato che cambia l’Europa e le sue politiche economiche, superando l’austerity. E, ancora una volta, Draghi è uno degli artefici del cambiamento.

Ma l’Italia riuscirà realmente a far ripartire l’economia?

Ora o mai più. Consideriamo però che dopo lo shock dei mesi di marzo e aprile 2020, il terzo e quarto trimestre per l’Italia hanno voluto dire tra i livelli migliori di produzione industriale in Europa. Certo, abbiamo una parte del Paese che è ferma, mi riferisco in particolare alla polveriera della microimpresa. Vi è ancora il blocco dei licenziamenti, al momento prorogato fino a luglio, che non può durare in eterno. Draghi si è già pronunciato abbastanza esplicitamente: serve una strategia di sostegno all’impresa, ma non si può sostenere indistintamente ogni azienda. Ve ne sono alcune che non hanno futuro, dai grandi casi ai casi meno grandi. Non possiamo lasciare sole le persone, la rete delle protezioni e delle politiche del lavoro (attive in particolare) deve funzionare al massimo; è però venuto il momento di distinguere le good companies dalle bad companies. I lavoratori possono essere riqualificati e orientati verso nuovi investimenti. È necessario però che il sistema lavori nella medesima direzione.

Da questo punto di vista, i sindacati hanno mandato segnali interessanti. Saranno realmente capaci di collaborare con il governo in questa complessa transizione?

Nel sindacato sanno che non si può andare avanti con il blocco dei licenziamenti ad libitum. È importante che le Parti sociali siano coinvolte nel progettare gli investimenti per lo sviluppo: non a caso, ieri Landini ha detto che serve un confronto imprese-sindacati sul futuro. Ciò significa progettare la transizione, le nuove competenze, le nuove protezioni sociali, rafforzare la presenza di giovani e donne nel mercato del lavoro, raccordare sempre di più istruzione-lavoro e rendere la pubblica amministrazione più capace di essere eco-sistema, ovvero partner dello sviluppo. È necessario conciliare innovazione e giustizia sociale, anche per evitare nuove forme di disgregazione. E poi, il Paese va riformato partendo soprattutto dalle sue infrastrutture, di cui la burocrazia è parte essenziale.

A proposito di riforme, quali saranno le priorità del governo Draghi?

Al di là delle parole e della retorica – che sono comunque fondamentali per governare – quando Draghi dice “sarà un esecutivo ambientalista” è chiaro che non dobbiamo intenderlo come lo potrebbe intendere un attivista dei Fridays for future. Qual è il punto? Che la lotta al climate change, che contraddistingue la spinta europea dentro il multilateralismo nascente, si fa attraverso l’innovazione tecnologica, digitale ed energetica. Non a caso vi è il Ministero per la Transizione ecologica alla cui guida è stato chiamato Roberto Cingolani, manager di Leonardo e responsabile dell’Innovazione tecnologica del gruppo, che guiderà anche un costituendo Comitato interministeriale per la Transizione ecologica. Ma lo stesso Enrico Giovannini a capo delle Infrastrutture è un segnale che questo governo vuole modernizzare il Paese. E modernizzazione è sinonimo di sostenibilità. Vedremo quindi come saranno affrontati i gangli storici di giustizia e fisco, ma sono convinto che questo governo farà qualcosa di importante per quanto riguarda le reti infrastrutturali, condizione per rendere più produttiva la nostra manifattura, cuore della nostra economia.

Per tornare alla nostra industria, che consiglio darebbe al neoministro dello sviluppo economico Giancarlo Giorgetti?

Al Mise vi sono oltre 100 crisi aziendali da risolvere. E, come dicevo, il blocco dei licenziamenti prima o poi finirà e renderà più sensibile questo numero. Io direi a Giorgetti di condividere una linea di intervento insieme alle Parti sociali, in modo tale che si possa gestire ciascuna crisi con dei criteri di azione a monte. Non solo, insieme alle Parti sociali andrei a individuare quali sono player e segmenti di mercato in grado di generare sviluppo, che significa occupazione e nuove competenze. La componentistica, la meccanica di precisione, il chimico, il farmaceutico e l’energia sono i comparti che ci faranno vedere le cose più interessanti, in particolare per la grande rivoluzione dell’energia e della mobilità. In particolare nella mobilità, l’Europa – e soprattutto Germania, Francia e Italia – saranno protagoniste del cambiamento: l’operazione Stellantis va letta in questo senso. Siamo all’inizio di un mondo nuovo, dobbiamo consolidarne le fondamenta.

CIAO FRANCO! IL MIO RICORDO DI FRANCO MARINI

Franco Marini (GettyImages)

Questa mattina è morto Franco Marini. Politico e sindacalista, aveva 87 anni. Segretario generale della Cisl, poi presidente del Senato e poi ministro del Lavoro, segretario del Partito popolare italiano ed europarlamentare. Marini è morto per complicazioni legate al Covid.

A inizio gennaio era risultato positivo al coronavirus e ricoverato all’ospedale San Camillo de Lellis di Rieti. La notizia della scomparsa è stata data con un tweet da un altro esponente di lungo corso dei Popolari, Pierluigi Castagnetti che ha ricordato l’amico come “uomo integro, forte e fedele a un grande ideale: la libertà come presupposto della democrazia e della giustizia. Quella vera”. Di seguito un piccolo ricordo personale.

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La “politica” sui vaccini della UE. Intervista a Nicoletta Dentico

Come sta andando la “politica” contrattuale sui vaccini della UE? Quali sono stati i limiti della gestione? Come giudicare il comportamento di “Big Pharma”? Come risolvere la questione dei brevetti? Ne parliamo con Nicoletta Dentico,

giornalista, esperta di cooperazione internazionale e salute globale. Dopo diversi anni di lavoro con la radiotelevisione giapponese NHK, dal 1993 ha guidato in Italia la Campagna per la Messa al Bando delle Mine, premio Nobel per la Pace nel 1997.

Dal 1999 ha diretto Medici Senza Frontiere (MSF), lanciando la mobilitazione per lAccesso ai Farmaci Essenziali, il dibattito sullazione umanitaria e poi le operazioni di MSF sui migranti nel sud dItalia. Dal 2005, ha coordinato con la Commissione Diritti Umani del Senato le attività di ricerca volte alla redazione del primo Libro Bianco sui Centri di Permanenza Temporanea ed Accoglienza (CPTA), lanciato nel 2008.

Nicoletta, ormai siamo a un anno di pandemia. Un virus che ha sconvolto tutto. Attualmente sono più di 100 milioni di persone sono contagiate e oltre 2 milioni sono state le vittime. Senza contare gli enormi costi Economici. Una pandemia devastante. Rispetto ad un anno fa, grazie alla scienza, abbiamo un arma che potrà aiutarci a sconfiggere : i 4, per ora, vaccini anticovid (fra poco arriva anche J&J) (in realtà sono 8 se aggiungiamo quello russo e i tre vaccini cinesi, che tuttavia non sono ancora stati validati dalle agenzie regolatorie occidentali – FDA edEMA) . Allora come prima domanda voglio chiederti: la pandemia sta cambiando in positivo l’UE, vedi il recovery fund, e sul fronte del contrasto al virus sta nascendo, con fatica, una risposta comune. È così?

Certamente Covid19, come tutte le epidemie della storia umana, cambia la storia, e nella fattispecie è destinato a cambiare profondamente l’Europa, la percezione che il nostro continente ha di sè. Sia come agglomerato di popoli diversi ma vicini, sia come assetto istituzionale. Covid19 ha potuto scuotere e riorientare l’Unione Europea come nemmeno la crisi finanziaria del 2008, che pure si abbattè su questa parte del pianeta con effetti traumatizzanti, è riuscita a fare. La disarmante fragilità dei nostri paesi di fronte all’ondata funesta del contagio  ha scatenato l’auspicabile ma in fondo inattesa tonicità di risposta delle istituzioni europee, dopo il primo shock. Certo, una potrebbe obiettare che c’è voluto un virus che attacca il respiro per direzionare le istituzioni europee in un direzione politica meno asfittica, dopo feroci somministrazioni di misure di austerity. Ma finalmente l’Europa grazie al virus ha acquisito una più sana consapevolezza di sè. Non è banale che il punto di svolta sia stato il corteo di camion militari che partivano da Bergamo con le bare nella notte, a far cambiare l’orientamento iniziale – da questo senso di totale baratro, che non possiamo in alcun modo rimuovere, possiamo ripartire con una nuova consapevolezza. La condivisione del debito tra paesi, la possibilità di un piano di ripresa e resilienza che appartiene alle generazioni future, si tratta di grandi passi che sono stati fatti. Accanto ad alcuni incespicamenti sui quali si potrà e dovrà lavorare per il futuro, come la capacità di negoziare con il settore privato e la costruzione di una politica europea nel campo – assolutamente fondamentale e tuttora assente – di una politica europea sulla salute.

Approfondiamo un poco la “politica” nei confronti della ricerca, produzione e distribuzione dei vaccini.  Sappiamo che questa politica contrattuale della UE ha avuto dei limiti. Quali sono stati, secondo te, questi limiti?

Va ricordato prima di tutto che il finanziamento dei governi ha agito da leva essenziale per attivare la rotta senza precedenti della ricerca scientifica su Covid19. Insieme alle nuove tecnologie, i fondi pubblici hanno rivoluzionato gli studi clinici e permesso l’accelerazione dei processi scientifici. Un rapporto pubblicato dalla kENUP Foundation, una non profit europea che monitora la ricerca in ambito sanitario, rivela che in 11 mesi di ricerca farmaceutica su SARS-CoV-2 il settore pubblico ha investito 93 miliardi di dollari. Di questo colossale impegno finanziario il 95% è stato destinato ai vaccini – 86,5 miliardi di dollari – e il 5% ai farmaci e diagnostici. Il 32% degli investimenti è arrivato dagli USA (tramite l’operazione WARP Speed), e il 24% dall’Unione Europea (tramite la Commissione), il 13% dal Giappone e dalla Corea del Sud. Quindi possiamo dire che l’Europa ha fatto la parte del leone in questa strardinaria mobilitazione, scientifica e finanziaria. Quello che è successo, però, è che nella frenesia di far presto, i governi europei hanno operato nel solco di un incomprensibile laizzez faire nei confronti delle industrie, a cui pure erogavano montagne di denaro.  Non hanno posto clausole di trasparenza, né hanno fissato ex ante le caratteristiche di accesso al vaccino secondo criteri di salute pubblica, con uno sguardo rivolto oltre i paesi occidentali. Si sono assunti le responsabilità nel caso di eventi avversi. Non hanno negoziato le limitazioni commerciali di tempo e prezzo del regime pandemico. Hanno distinto il vaccino dai programmi di vaccinazione. Ma con il prodotto serve la negoziazione di una strategia adeguata di accesso alle vaccinazione, che implica condizioni e tempi di fornitura certi, in un’ottica di sanità pubblica. Chi e quando immunizzare, e in quale ordine di priorità (se la disponibilità del vaccino è limitata), sono decisioni da prendere via via sulla scorta di informazioni epidemiologiche e sulle proprietà del vaccino suscettibili di modifiche a seconda della evoluzione della malattia e della eventuale presenza di altri vaccini, in una dinamica e mai scontata valutazione dei rischi e benefici. Soprattutto in uno scenario di emergenza pandemica come quello che Covid19 ha imposto. Eppure, questi essenziali obiettivi di salute pubblica rischiano di perdersi per strada nella gara a chi arriva primo nella registrazione e consegna del vaccino, nella concorrenza a chi vaccina di più, nella scomposta pratica degli accordi bilaterali con le aziende per avere dosi aggiuntive ad hoc. Questi accordi li hanno fatti anche i paesi europei, come sappiamo.

Quello che ha colpito l’opinione pubblica è stata la segretezza delle clausole contrattuali. Per qualcuno, la vice presidente dell’istituto Bruno Leoni, la “riservatezza dei contratti è un valore nella produzione farmaceutica, e protegge il pagante, cioè lo Stato, sulla possibilità di negoziare al ribasso i prezzi senza farlo sapere ai concorrenti”. È corretto tutto  questo?

Ma è esattamente il contrario!!!! La riservatezza nel negoziato è una trappola che è costata ai governi una quantità gigantesca di soldi. Se ne sono accorti finalmente anche in sede OMS. Nel 2019 fu proprio l’Italia, grazie alla visione della ministra Grillo e dell’allora direttore dell’AIFA, Luca Li Bassi, a proporre alla comunità internazionale una risoluzione sulla trasparenza nei negoziati tra stati e imprese nel settore farmaceutico. Il dibattito in seno all’OMS su questo tema è stato molto istruttivo. I governi, come buoni investitori di lungo periodo, devono pretendere trasparenza sui contratti e i prezzi proposti dalle aziende, sui risultati completi degli studi clinici, sull’origine dei finanziamenti e sullo stato dei brevetti. Tutte queste informazioni sono decisive a istruire un sano negoziato. Viceversa, la trattativa segretata,  il “prezzo riservato di favore” che poi nessun governo può rivelare all’omologo, nella fallace convinzione di avere il prezzo migliore, ha costretto i governi a sperperare inutilmente un sacco di soldi e alle aziende di lucrare. Questa scellerata segretezza non viene concessa a nessun altro settore industriale. Perché l si fa con l’industria farmaceutica? Intanto il prezzo esorbitante dei farmaci, che venti anni fa colpiva i paesi in via di sviluppo, oggi è un problema globale. Ricordiamo bene la vicenda del farmaco Sofosbuvir contro l’Epatite C, che non solo in Italia ha sbancato i bilanci sanitari pubblici. Nel 2018 la Norvegia ha rifiutato la approvazione del 51% dei farmaci innovativi lanciati sul mercato, per via del loro prezzo esorbitante a fronte della scarsità di dati clinici.

Oggi, solo Svizzera e Giappone hanno sistemi di trasparenza in vigore. Nel resto del mondo è la giungla. Purtroppo, i negoziati europei con le aziende sono stati condotti con questo regime giunglesco di segretezza, come se la risoluzione dell’OMS non fosse mai stata approvata nel 2019. Non me ne capacito. E mi chiedo chi l’Europa abbia mandato a negoziare una partita così decisiva. Secondo quali competenze e criteri. Sarà opportuno fare luce. In fondo, stiamo parlando dei soldi dei cittadini europei, e soprattutto delle loro vite!

Che idea ti sei fatta sul ritardo delle consegne?

Io credo che il ritardo in parte sia giustificato, visto che le aziende hanno dovuto mettere in piedi in pochi mesi una catena di produzione e distribuzione piuttosto ambiziosa. Processi  che – di solito – richiedevano tempi molto più lunghi sono stato costipati in fondo in poche settimane. E su una scala produttiva di centinaia di migliaia di dosi…..Non è uno scherzo fare vaccini. Si tratta di processi complessi. La scalabilità si costruisce nel tempo. Mi chiedo però per quale motivo le aziende abbiano dal canto loro sottoscritto tempistiche di consegna obiettivamente così incalzanti, se non ne esistevano le condizioni. Faceva parte della loro strategia di comunicazione e di ricaduta finanziara? Era una questione di geopolitica industriale?

L’UE minaccia azioni legali per il ritardo delle consegne. Addirittura  il blocco delle esportazioni dei vaccini prodotti in Europa. Sono efficaci questo tipo di azioni? O ci sono altre vie?

Io non credo molto in queste azioni legali, soprattutto quando sono i singoli stati a minacciarle. Questa è una partita che si gioca in sede eurpea ma la minaccia di azioni legali non è il giusto deterrente; le aziende sono abituate a pagare multe anche salate per le loro spregiudicatezze, accantonano voci di bilancio cospicue per poi continuare a perseguire le loro lucrose politiche commerciali. Viceversa, il blocco delle esportazioni è una misura scellerata, perché impedisce l’accesso ai paesi non produttori dei vaccini che servono a immunizzare le loro popolazioni, penso in particolare ai paesi a basso reddito. Le schermaglie non promettono niente di buono, ma le aziende hanno il coltello dalla parte del manico in questa storia, alla luce di quello che abbiamo detto prima. C’è da suppore che sapranno far valere il loro vantaggio competitivo, al momento giusto.

Veniamo all’altro tema strategico,ovvero alla questione dei brevetti. Tocca il rapporto con il bene comune. Un tema fondamentale per il futuro. Quali possono essere le vie per risolvere questo problema ?

La prima cosa che l’Europa  può fare per riprendere in mano un minimo di leva negoziale con le case farmaceutiche è adottare una licenza obbligatoria sui brevetti dei vaccini in produzione. In altre parole,  rilevare il brevetto a fronte del pagamento di royalties alle aziende, per affidare la produzione dei vaccini ad altre imprese europee, per esigenze di salute pubblica. La procedura è prevista ai sensi dell’Art.31 dell’ Accordo TRIPs sulla proprietà intellettuale, i brevetti insomma, normati all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC).  La licenza obbligatoria manda un messaggio politico inequivocabile, il solo che l’industria capisca, sempre che la funzione pubblica intenda esercitare appieno il ruolo di tutela del bene comune.

L’altra via per risolvere il problema? L’Europa dovrebbe accogliere la proposta avanzata da India e Sudafrica all’OMC, ovvero la temporanea sospensione di tutti i diritti di proprietà intellettuale sui vaccini, farmaceutici e prodotti medicali durante la pandemia di Covid19. Anche questa è una misura perfettamente legale, prevista dall’Art. IX comma 3 e 4 dell’Accordo di Marrakesh che ha dat vita all’OMC. La proposta gode del sostegno di molti paesi, di esperti e organizzazioni internazionali. La deroga temporanea ai diritti di proprietà  intellettuale permetterebbe a piccole e medie imprese di settore, sparse ovunque nel mondo, di accedere alla conoscenza scientifica esistente e replicarla, a fronte di necessari passaggi, per mltiplicare le produzioni dei rimedi, non solo vaccini, che servono a sconfiggere Covid19. Liberare la conoscenza sarebbe una svolta per l’accesso dei vaccini anche ai paesi del sud globale, visto che il mondo rischia un “catastrofico fallimento morale”, ha detto il direttore generale dell’Oms, se non dà seguito alla retorica del vaccino bene comune con iniziative credibili di equità. Il sud globale rischia di ricevere i vaccini alla fine del 2024, o addirittura nel 2025, ha denunciato qualche giorno fa The Guardian.

C’è una geopolitica del vaccino. Sappiamo che la Cina sta invadendo l’Africa del suo vaccino. La Russia sta facendo lo stesso in altri Paesi. Non c’è il rischio che si torni a logiche di influenza devastanti per il Pianeta?

La Cina sta cogliendo la grande occasione che Covid19 le offre. Mettere in campo una nuova serrata diplomazia del vaccino, dopo essere stata accusata di essere la nazione responsabile della pandemia. Con innegabile visione, sta portando avanti questo disegno almeno esplicitamente, lo ha dichiarato alla assemblea dell’OMS lo scorso maggio senza remore. Accordi sono stati fatti con molte regioni dei sul del mondo, anche se in Africa al momento i vaccini non li vede ancora nessuno. La Russia ugualmente sta facendo valere la sua scoperta in chiave geopolitica, certo. Ma l’uso dei vaccini cinesi e russi sarà dirimente pe sconfiggere Covid, lo scrive oggi il New York Times . Anche l’occidente finirà per ricorrere ai vaccini cinesi e allo Sputnik V, che del resto sono già in fase di esame preventivo da parte delle agenzie regolatorie.

Del resto i paesi ricchi – il 16% della popolazione globale – hanno già requisito il 60% delle dosi di vaccino disponibili con l’intento di immunizzare il 70% della loro popolazione adulta entro la metà dell’anno.   Gli USA hanno siglato accordi di acquisto per il 230%  della popolazione americana, e potrebbero a breve controllare 1,8 miliardi di dosi: un quarto di tutta la produzione mondiale. Il Canada ha accaparrato dosi in numero utile a vaccinare la popolazione sei volte. Le logiche di influenza non sono mai andate via, e sono logiche perseguite nn solo da Cina e Russia, ma anche dal mondo occidentale. Solo che magari l’Occidente lo fa tramite canali diversi. In questo caso, ad esempio, tramite il ptere di fuoco della filantropia.