
Susanna Camusso (Ansa)
Produzione ed esportazione di sistemi militari, il ruolo dell’Italia e dell’Europa, ma anche le divergenze tra rappresentanze locali e nazionali dei lavoratori. E, soprattutto, l’urgenza di una politica industriale nazionale rispettosa dell’ambiente, dei diritti e del futuro. “Crediamo che sia chiaro a tutti, dopo le crisi finanziaria prima e sanitaria dopo, che il nemico da cui ci dobbiamo difendere non è un esercito invasore, ma sono le diseguaglianze, le povertà, la corruzione, il cambio climatico, le nuove malattie, le nuove e le vecchie forme di sfruttamento del lavoro, e quindi, se vogliamo lasciare un mondo migliore alle generazioni del futuro, dobbiamo investire le nostre intelligenze e le nostre risorse nelle persone e nel pianeta”. Intervista a tutto campo a Susanna Camusso, ex Segretaria generale della CGIL e oggi Responsabile Politiche di genere, europee ed internazionali della CGIL.
Nei giorni scorsi la Rete italiana Pace e Disarmo (di cui la CGIL è membro) ha dato l’annuncio che il governo Conte non solo ha sospeso ma ha revocato la licenza per sei forniture di bombe e missili all’Arabia Saudita. Come valutate questa decisione?
Era una decisione attesa e sollecitata, che è stata rinviata attraverso le ripetute sospensioni, di sei mesi in sei mesi, dal luglio del 2019. Non più rinviabile, visto il protrarsi del conflitto in Yemen, la strage continua di civili, dovuta ai bombardamenti compiuti con armi vendute dall’Italia.La legge 185 che regola la vendita di armamenti ai paesi terzi e fuori dalla NATO è molto chiara. Sono evidenti a tutte e tutti le violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita: il divieto di libera organizzazione, la repressione, il carcere per chiunque dissenta, l’ assassinio come nel caso del giornalista Jamal Khashogi, lo stato di semi-schiavitù, e lavoro forzato in cui versano lavoratrici immigrate provenienti dai paesi asiatici e africani, le discriminazioni di cui sono vittime le donne, solo per ricordare aspetti noti e certificati dalle agenzie internazionali come dall’opinione pubblica mondiale, ricordando che il coinvolgimento nella guerra in Yemen dura dal 2015 ed è considerata una delle tragedie umanitarie più gravi degli ultimi decenni.
L’amministratore delegato della RWM Italia, Fabio Sgarzi, ha annunciato ricorso contro questa decisione affermando che penalizzerebbe l’industria della Difesa. Cosa ne pensa?
Ogni tipo di produzione deve rispondere a criteri etici e giuridici, non solo al profitto. Mettere in discussione, anche ,questi vincoli, fa tornare indietro di cent’anni e più. Bisogna saper produrre beni e servizi in modo pulito, con lavoro di qualità e diritti, nel rispetto della legislazione, così si costruisce convivenza e benessere per tutti. Ci siamo dotati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e di un sistema di trattati, convenzioni, accordi internazionali e di leggi nazionali che tengono insieme etica e norme a cui tutti, compresa l’industria della difesa si deve attenere; perché contrasto alla guerra e alle dittature è un tema per tutte e tutti.
Anche i rappresentanti RSU della RWM hanno lamentato questa decisione dicendo che “il governo ci toglie definitivamente il lavoro”. La questione pone un problema annoso nel sindacato tra livello nazionale e rappresentanze locali: cosa ne pensa? Quali passi si possono realisticamente fare?
La questione è seria. Noi siamo al fianco dei lavoratori della RWM, non sono loro responsabili delle politiche aziendali, è l’azienda, tedesca , che delocalizza le commesse e le produzioni ; forse proprio quelle che non vuole tenere in casa propria, perché ad onor di cronaca va ricordato che il governo tedesco è stato il primo a sospendere la vendita di armi all’Arabia Saudita. Respingiamo la logica del ricatto occupazionale, comunque si manifesti. Sappiamo quante contraddizioni si creano tra “interesse generale” e la preoccupazione per il proprio lavoro, sia quando riguarda la salute, produzioni nocive, inquinanti o belliche. In questo caso inoltre l’Azienda doveva conoscere la legge che regola il paese. Ci aspettiamo proposte di riconversione, di diversificazione non ricatto occupazionale. La pace è patrimonio del movimento dei lavoratori: i portuali di Genova si sono rifiutati di caricare materiale ad uso militare destinato all’Arabia Saudita, mentre al porto di Cagliari il carico delle bombe è stato realizzato da personale esterno, blindando ed isolando l’area portuale. Tutti i lavoratori coinvolti in queste commesse vivono situazioni di forte tensione e preoccupazione. Il Sulcis è un area di crisi industriale, è indispensabile ed urgente affrontare la questione occupazionale ma non solo, serve un piano di sviluppo locale, di valorizzazione e di riqualificazione del territorio, delle professionalità e delle competenze. E’ una responsabilità che va assunta da tutti, a partire dal governo nazionale fino alle autorità ed alla comunità locali. Nella bozza del PNRR sono stanziati 1,2 miliardi di Euro per definire nuove “strategie territoriali” per le due aree di Taranto e del Sulcis, debbono essere integrate da altre risorse per lo studio, la ricerca e l’avvio di piani e programmi di sviluppo di queste due aree. Ma, nel frattempo, ci devono essere le coperture necessarie per sostenere il reddito dei lavoratori. Non è accettabile che siano i lavoratori a pagare la “superficialità” di chi concede autorizzazioni e linee di produzione ad alto rischio, invece di preoccuparsi e di investire in produzioni sostenibili, pulite e generatrici di occupazione e di sviluppo locale.
Di recente i tre maggiori sindacati nazionali (CGIL, CISL e UIL) hanno aderito alle manifestazioni promosse da Rete italiana Pace e Disarmo per chiedere “Stop armi all’Egitto“. Una presa di posizione forte e unitaria che non si vedeva da tempo, tra l’altro sostenuta da un comunicato della CGIL: ce ne può parlare anche in riferimento alle trattative tra Roma e il Cairo per armamenti?
Seguiamo da anni ciò che accade in Egitto, attraverso la nostra attività internazionale, sia europea (CES) che mondiale (CSI) ecome all’OIL, denunciando le violazioni delle libertà sindacali, la repressione e le minacce nei confronti di lavoratori e lavoratrici che provano ad organizzare sindacati liberi ed indipendenti. Abbiamo visto come i militari hanno distrutto le speranze della popolazione, giovani e donne, contadini, operai, che nel 2011 avevano occupato le piazze e le strade delle principali città egiziane per dire basta al regime di Mubarak, chiedendo dignità, lavoro, giustizia, libertà, democrazia, ripristinando invece un nuovo regime, ancor più cinico e violento.
Le galere sono piene di oppositori, i processi non si fanno e se si fanno sono una farsa, la tortura e la violenza sono pratiche denunciate da tutti gli osservatori internazionali come dalle vittime stesse, quando riescono a fuggire dal paese, ma il regime copre, nasconde i colpevoli, garantendo loro l’immunità. Il caso di Giulio Regeni, sequestrato, torturato, abbandonato cadavere su un ciglio stradale, è una ferita che non si potrà mai chiudere, che esige verità e giustizia; come la detenzione dello studente Patrick Zaki, detenuto, in stato di fermo da un anno. Come loro migliaia di altri giovani. La violenza e gli stupri avvenuti nelle caserme e nei posti di polizia, delle giovani donne che hanno partecipato alle manifestazioni. Chiudere gli occhi sulle tremende violazioni di diritti umani in ragione di interessi economici ed investimenti, o del ruolo geo-politico che l’Egitto rivendica, è una scelta irresponsabile. Non può essere l’Italia, da sola, a risolvere la questione, occorre che l’Europa e gli stati membri prendano una posizione chiara e netta chiedendo alle istituzioni egiziane il rispetto dei diritti umani e di rispondere in sede internazionale, pena, denunce e misure sanzionatorie. Se è necessaria l’azione di ricerca di una linea politica comunitaria, comunque il nostro paese non può far finta di niente firmando accordi di forniture militari , mantenendo normali relazioni diplomatiche e commerciali. Anche in questo caso, la legge va applicata, e la nostra Legge 185 che regola la vendita di armi ai paesi terzi, e vieta di farlo a regimi che violano i diritti umani e sono coinvolti in guerre.
Infine, ci poniamo e poniamo una domanda: ma non è giunto il momento di fare una riflessione vera sulla politica estera, sulla cooperazione e sul futuro della regione del Mediterraneo, non è ora di valutare se vi possa essere un futuro di pace, di sicurezza, di benessere e di convivenza, e come lo si persegue se si continua a fare affari e sostenere regimi militari o religiosi, che opprimono le proprie popolazioni, negando libertà e diritti umani ?
La legge italiana che regola le esportazioni di armamenti prevede la “graduale differenziazione e riconversione” al civile dell’industria militare. Negli ultimi 20 anni, però, la maggiore azienda a controllo statale, Leonardo (ex Finmeccanica) ha via via dismesso i settori civili a favore di quelli per la difesa e la sicurezza. Ritiene auspicabile un confronto anche a livello sindacale sul “modello di sviluppo”? Soprattutto in questo momento in cui l’emergenza coronavirus ha fatto capire che la sicurezza non è solo e nemmeno principalmente un fattore militare?
Questa riflessione noi la stiamo facendo da tempo. Nel nostro ultimo congresso è stata approvata all’unanimità una risoluzione che pone la questione della pace e del disarmo come un tema dell’agenda politica globale e che deve essere affrontata anche dal nostro paese. Basterebbe seguire quanto espresso e previsto dall’Agenda 2030 e dagli obiettivi dello sviluppo sostenibile, lì non c’è spazio per lo sviluppo dell’industria bellica, perché la sostenibilità non la si costruisce con la deterrenza degli arsenali e degli eserciti, ma con la democrazia, con i diritti, con la giustizia sociale, con la cooperazione. Da decenni diciamo che il nostro paese non ha una politica industriale, come confermano tutti gli indicatori economici, sociali ed ambientali, che registrano il nostro declino industriale e manifatturiero, non è quindi una sorpresa che in assenza di una visione di lungo periodo, si siano fatte scelte di breve periodo o di opportunismo di mercato, ed il militare è un mercato che non conosce crisi. Abbiamo ora una grande opportunità, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, dove il tema del modello di sviluppo e quindi della riconversione è una delle sfide che dovremo vincere. Crediamo che sia chiaro a tutti, dopo le crisi finanziaria prima e sanitaria dopo, che il nemico da cui ci dobbiamo difendere non è un esercito invasore, ma sono le diseguaglianze, le povertà, la corruzione, il cambio climatico, le nuove malattie, le nuove e le vecchie forme di sfruttamento del lavoro, e quindi, se vogliamo lasciare un mondo migliore alle generazioni del futuro, dobbiamo investire le nostre intelligenze e le nostre risorse nelle persone e nel pianeta