“Francesco sta costruendo l’arca della fratellanza umana”. Intervista a Franco Ferrari

In questi giorni Papa  Francesco conclude  l’ottavo anno del suo pontificato, iniziato il 13 marzo 2013. Anni non semplici, pieni di avvenimenti che hanno scosso e rivitalizzato la Chiesa. Ne parliamo con Franco Ferrari, caporedattore della rivista “Missione Oggi” e autore di uno degli ultimi libri sul pontificato del papa argentino (Francesco, il papa della riforma, Paoline, Milano 2020), a partire dal

33° viaggio apostolico che Francesco ha appena compiuto in Iraq (5-8 marzo 2021), una terra martoriata dalle guerre e dal terrorismo del settarismo religioso.

Qual è il senso di questo viaggio, che il papa ha voluto mantenere fermo nonostante le molte ragioni avverse?

Francesco realizza il sogno di Giovanni Paolo II, che nei pellegrinaggi del Grande giubileo del 2000 (Sinai, Terra santa) aveva inserito anche quello ad Ur dei Caldei, impedito dal mancato accordo con il governo di Saddam Hussein. Si tratta di un viaggio con un triplice scopo. Strettamente religioso e spirituale: visitare la terra da dove è iniziata l’”avventura” di Abramo, il patriarca riconosciuto dalle tre grandi religioni abramitiche, appunto: ebraismo, islam e cristianesimo. Poi, un obiettivo più finemente politico. Da un lato, portare sostegno alla minoranza cristiana – che nel tempo, a causa in particolare della persecuzione del califfato Daehs, si è ridotta, secondo le stime, da 1 milione 400mila a poco meno di 400mila unità -, nella speranza che la visita inneschi il ritorno dei molti che sono fuggiti. Dall’altro, proseguire nella realizzazione del dialogo con l’islam nello spirito della Dichiarazione sulla Fratellanza umana…

Proprio di questa Dichiarazione, firmata nel 2019 con il Grande imam di al-Azhar (Al-Tayyib), si è da poco celebrato il secondo anniversario. Due giorni fa, il 6 marzo, durante il viaggio in Iraq, c’è stato anche l’incontro con il Grande Ayatollah Al-Sistani. Cosa spiega questa grande attenzione del Vescovo di Roma nei confronti dell’islam?

Francesco ha una visione geopolitica della situazione internazionale e la sua lettura si può dire che anticipi e porti a livello di coscienza aspetti che i politici sembrano non voler vedere. Pensiamo all’immagine della “terza guerra mondiale a pezzi” utilizzata per definire una micro-conflittualità endemica in molte regioni del mondo. Lo stesso dicasi per “la cultura dell’odio” che Bergoglio vede come conseguenza del populismo e del sovranismo, ma anche del fondamentalismo religioso. Le religioni e le teologie non sono innocenti rispetto alla violenza, per questo Francesco cerca di disinnescare una delle possibili micce della nuova violenza religiosa. E il dialogo, come ha scritto ai cristiani del Medio Oriente, è “il migliore antidoto alla tentazione del fondamentalismo religioso”, in particolare poi il dialogo interreligioso, là dove le situazioni sono più difficili.

Per evitare una conflittualità distruttiva, Bergoglio propone alle Chiese cristiane e agli esponenti delle varie fedi di “entrare insieme, come un’unica famiglia, in un’arca che possa solcare i mari in tempesta del mondo”. Quest’arca si chiama “arca della fratellanza umana”.

Francesco sta lavorando alla costruzione di quest’arca. L’imam e l’ayatollah che lei ha citato sono entrambi importanti esponenti dell’islam: Al-Tayyib della corrente sunnita e Al-Sistani dell’islam sciita.

Questo papa, come mai prima in modo così aperto e virulento, è al centro di continui attacchi e contestazioni. Da cosa è generato questo clima conflittuale e in particolare chi sono i nemici di Francesco?

Dobbiamo considerare un aspetto che, a otto anni dalla sua elezione, si tende a dimenticare cioè le condizioni in cui versava la Chiesa al momento delle dimissioni di Benedetto XVI. Ci sono almeno tre questioni che vanno ricordate: la credibilità della Chiesa era compromessa per una serie di gravi scandali; la curia mandava segnali di cattivo funzionamento e di lotte intestine neanche troppo nascoste; il clima crepuscolare e il diffuso disagio che si respirava per la mancata risposta ai molti e prepotenti segni dei tempi e per l’attardarsi sulla questione se il Vaticano II avesse segnato o meno una discontinuità con il passato.

Negli incontri preparatori del Conclave i cardinali avevano chiesto a gran voce un’azione di riforma in particolare della curia romana. Il papa “venuto dalla fine del mondo” è andato però alla radice dei problemi e ha avviato una riforma che riguarda sia le strutture, sia la pastorale, sia l’impegno missionario e la conversione personale. Tutti temi che, affrontati in modo molto diretto come fa Francesco, stanno scuotendo un’istituzione che non riesce a stare al passo con i tempi; cambiamenti che generano paure, divisioni. Interventi che hanno ridato fiato, soprattutto, agli ambienti conservatori e reazionari, ma hanno anche suscitato perplessità in coloro che vorrebbero un cambiamento. Perciò i “nemici” sono una categoria trasversale e non facilmente catalogabile.

Questi oppositori fanno un fronte comune o sono una galassia frammentata? E, soprattutto, quanto contano realmente, al di là della risonanza mediatica?

Si può osservare che l’opposizione al papa ha una grande varietà di attori: si va dai blog e siti reazionari, ai media con una linea editoriale conservatrice, ai “giornalisti attivisti” con i loro blog (per l’Italia si possono citare Magister, Valli, Rusconi, Tosatti), a vescovi (ma anche a Conferenze episcopali), a cardinali per giungere a gruppi di pressione sostenuti economicamente da esponenti del mondo economico-finanziario ed imprenditoriale, particolarmente presenti negli Stati Uniti.

Secondo un osservatore attento come il vaticanista Marco Politi questo fronte è valutato in un “buon trenta per cento”. Una consistente minoranza, certamente agguerrita e molto forte sui social e in alcuni suoi filoni (è il caso di vescovi e cardinali) può essere presente in gangli vitali dove non conta il numero, ma l’ambito di potere e di autorità che si esercitano.

Nel titolo e nel sottotitolo del tuo libro utilizzi i termini “riforma” e “conversione”: Che rapporto c’è tra i due e a quale riforma pensa Francesco?

Ogni conversione è già di per sé una riforma e viceversa ogni riforma richiede una conversione. Sono come due facce della stessa medaglia.

Bergoglio nell’affrontare il compito di riformare ha un ordine di priorità, come ha indicato nella prima intervista concessa a “La Civiltà Cattolica”: “Le riforme organizzative e strutturali sono secondarie, cioè vengono dopo. La prima riforma deve essere quella dell’atteggiamento”, cioè la conversione spirituale personale, perché ogni riforma per essere efficace si attua «con uomini “rinnovati” e non semplicemente con “nuovi” uomini».

Per questo il tema della conversione personale è sempre al centro dell’attenzione di Francesco: dalle omelie di santa Marta alla denuncia delle quindici malattie della Curia (qualcuno con ironia ha commentato che sono “più delle dieci piaghe d’Egitto”); dall’invito a vescovi e presbiteri ad abbandonare la “mondanità spirituale” alla richiesta di utilizzare i conventi vuoti per i poveri che sono la “carne di Cristo”.

Una costante revisione di vita, un ritorno al Vangelo per tutta la Chiesa; un intervento nella carne viva che non è indolore. La conversione spirituale, si pone quasi come una pre-condizione per realizzare gli elementi centrali della riforma, che sono la conversione pastorale e missionaria.

Bergoglio ritorna spesso al tema della sinodalità. Ha già indetto quattro sinodi e nel prossimo anno ve ne sarà un quinto dedicato proprio a questo tema. Perché questa scelta?

La scelta della via sinodale sottintende un modello di chiesa che si caratterizza: per l’ascolto dei fedeli e del loro “fiuto” cioè del loro senso della fede; per un’autorità e per un potere intesi come servizio; per una diversa modalità di intendere il ruolo del papa. Una Chiesa caratterizzata dalla sinodalità potrebbe favorire anche un ripensamento delle forme con le quali il Vescovo di Roma esercita la sua autorità e i suoi poteri.

Si tratta di instaurare una circolarità della comunicazione tra i fedeli e la gerarchia con un duplice movimento dal basso verso l’alto e viceversa.

La via sinodale è anche un percorso “educativo”. Bergoglio crede che un confronto vero aiuti la maturazione reciproca e possa favorire la conversione pastorale richiesta dal “cambiamento d’epoca”. Non è senza significato il fatto che i temi dei sinodi abbiano riguardato questioni sulle quali la vita pastorale è in grave crisi: la famiglia, i giovani e la situazione di una terra di missione come l’Amazzonia.

Francesco tra l’altro ha varato una riforma del Sinodo che responsabilizza fortemente i vescovi anche sul piano dell’elaborazione del magistero. Ora diversamente dal passato, a conclusione dei lavori, i padri sinodali devono produrre un documento organico sul tema in discussione, che il papa potrebbe anche assumere direttamente nel suo magistero.

Non si può però ignorare che una nutrita minoranza di vescovi, manifestatasi in tutti e quattro i sinodi, non sembra favorevole al metodo della sinodalità.

Francesco ha preso di petto due questioni: l’abuso sui minori e la riorganizzazione degli organismi economici della Santa Sede, ma quali risultati ha ottenuto fino ad ora?

Gli interventi relativi alla legislazione sulla giustizia hanno consentito di scrivere un nuovo capitolo circa la condanna degli abusi sui minori e le persone vulnerabili da parte del clero. Significativi l’obbligo di denuncia alla giustizia civile e l’Istruzione (2019) con la quale si toglie il segreto pontificio per le denunce, i processi e le decisioni riguardanti gli abusi.

Inoltre, non si deve sottovalutare l’Incontro dei presidenti di tutte le Conferenze episcopali del mondo per un pubblico esame di coscienza sul tema e aiutarli a superare in proposito la “cultura del silenzio”. Dobbiamo anche essere consapevoli che ora per completare questa dolorosa operazione verità molto dipende dalla volontà e dalle scelte delle Conferenze episcopali nazionali.

Circa la gestione economica credo non sia di poco conto il fatto che gli interventi di riorganizzazione dei vari organismi (Ior, Apsa, …) e l’aggiornamento della normativa hanno fatto sì che lo Stato della Città del Vaticano sia stato tolto prima dalla lista nera dei paesi “paradisi fiscali” e, in un secondo tempo, da quella dei paesi con una legislazione inadeguata per contrastare il riciclaggio.

Una caratteristica dell’azione pastorale di Francesco è la dimensione sociale dell’evangelizzazione, fino a dare vita agli Incontri Mondiali dei Movimenti Popolari (Immp). Qual è il senso di una scelta così forte?  

A differenza dei suoi predecessori, il papa argentino non si limita a condannare l’ingiustizia sociale, invita a trarne anche le conseguenze operative. Per liberare i popoli dalle ingiustizie e dalle marginalità il Popolo di Dio non può limitarsi a “fare la carità”. Non ci si può limitare ad una risposta individuale “ad una mera somma di piccoli gesti personali”, occorre collaborare con tutti “per risolvere le cause strutturali della povertà e per promuovere lo sviluppo integrale dei poveri”. Una sorta di invito alla rivoluzione, che con Paolo VI abbiamo imparato a chiamare “promozione umana”.

La dimensione sociale dell’evangelizzazione rimarca Francesco, in continuità con Paolo VI, è nel cuore stesso del Vangelo che propone la vita comunitaria e l’impegno per gli altri.

In quest’ottica va collocato il sostegno agli Incontri Mondiali dei Movimenti Popolari, che si presenta come una strategia “per promuovere l’organizzazione degli esclusi” al fine di costruire il cambiamento sociale dal basso.

In questi giorni ricorre l’ottavo anniversario dell’elezione di Bergoglio al soglio di Pietro e in molti, anche di coloro che non gli sono ostili, sembrano delusi dal governo di Francesco. Molti dossier aperti senza che se ne veda la possibile conclusione….

Non mi sento di condividere queste valutazioni. Non si può sottovalutare il fatto che in un tempo breve Francesco abbia rimesso la Chiesa in cammino su molte strade e abbia avviato un processo che, per quanto aperto e incompleto, ha innescato la dinamica del cambiamento.

L’osservazione però rimanda al metodo di governo che Francesco utilizza; la risposta credo stia nel primo dei quattro principi esposti nell’Evangelii gaudium: il tempo è superiore allo spazio. Ciò significa avviare processi, mettersi in cammino. È il principio fondamentale che consente, strada facendo di tenere conto delle situazioni e di adeguare il percorso prima di giungere alla decisione finale. In una istituzione dove c’è una tradizione secolare di pensiero strutturato tutto questo indubbiamente disorienta.

Non si può, però, dire che Francesco non governi. Pensiamo alle decisioni riguardanti tutta la partita della riorganizzazione degli organismi economici e degli abusi nei confronti dei minori di cui abbiamo parlato prima.

Occorre considerare che i diversi processi avviati si possono dispiegare solo in un tempo lungo. Alcuni di questi li potrà concludere lui stesso, la conclusione di altri saranno nelle mani del suo successore. L’intento riformatore di Francesco è di tale ampiezza che necessariamente eccede il suo pontificato.

“È tempo di scuotere la polvere dai vostri calzari. Lettera ai fratelli e alle sorelle espulsi da Bose”. Un testo di Riccardo Larini e un comunicato di Enzo Bianchi

Enzo Bianchi (Ansa)

La vicenda della Comunità di Bose, e del suo Fondatore (Enzo Bianchi), ha segnato, nei giorni scorsi, un’altra tappa molto dolorosa per Enzo Bianchi. Infatti alla vigilia della partenza per il viaggio apostolico in Iraq, nel corso dell’udienza, avvenuta due giorni fa, a padre Amedeo Cencini, delegato Pontificio per la Comunità monastica di Bose, con il Priore della medesima, Fr. Luciano Manicardi, papa Francesco “ha manifestato la sua sollecitudine nell’accompagnare il cammino di conversione e di ripresa della Comunità secondo gli orientamenti e le modalità definite con chiarezza nel Decreto singolare del 13 maggio 2020, i cui contenuti il Papa ribadisce e dei quali chiede l’esecuzione”, riferisce un comunicato della Santa Sede. Il Pontefice ha pertanto confermato che il fondatore Enzo Bianchi deve lasciare la Comunità. La reazione, al provvedimento Vaticano, è stata, per i tanti amici di Enzo Bianchi, di profonda amarezza e dolore. La vicenda ha, ancora, lati non chiari. Di seguito pubblichiamo, per gentile concessione di Riccardo Larini, il testo di una lettera aperta a Enzo Bianchi scritta dallo stesso Larini (teologo ed ex monaco di Bose). Pochi minuti fa Enzo Bianchi, sul suo sito, ha pubblicato un comunicato in cui da la sua spiegazione dei fatti. Lo pubblichiamo, in fondo alla lettera di Larini, per completezza d’informazione

Caro Enzo,
inizio col rivolgermi a te, non per fare graduatorie di merito o ignorare (come hanno fatto in troppi) gli altri fratelli e sorelle che sono stati, inutile usare un eufemismo, espulsi da Bose, ma perché è palese che è soprattutto a causa tua (il che non vuol dire per colpa tua) che si sono riversati anche sugli altri l’odio e la furia dei parabolani/talebani che hanno preso in mano i destini della comunità che tu hai fondato, supportati da un’istituzione ecclesiale che sembra aver dimenticato ormai del tutto il vangelo e che ha optato palesemente per il ricorso a strumenti totalitari, degni dei peggiori regimi al mondo. Il tutto, infine, sotto gli occhi compiacenti e in larga misura complici di una stampa cattolica che conferma l’attuale abbandono della traiettoria conciliare da parte della chiesa italiana.

Non intendo con questa lettera aperta gettarmi in ulteriori analisi delle divisioni occorse e delle tue eventuali corresponsabilità, che mai ho negato e che non sono il punto fondamentale della questione. Già mi sono espresso con molta chiarezza dalle pagine del mio blog e non solo, e da persona franca e libera quale sono non ho nascosto nulla mentre imperversavano in rete le fazioni, e soprattutto ho sempre detto direttamente in faccia a tutti (te compreso, come ben sai) quelle che ritenevo essere deviazioni dal vangelo, esortando tutti e ciascuno unicamente alla carità, al dialogo e alla riconciliazione.
Voglio dirti innanzitutto che ammiro profondamente la lealtà alle vostre chiese di appartenenza che tu, Antonella, Goffredo e Lino avete sempre mostrato, confermandola anche in questa occasione. Siete cattolici, alla chiesa cattolica avete dedicato sempre in primis la vostra appassionata opera di testimonianza e di riflessione, e ad essa avete deciso di appellarvi anche in questi travagliatissimi mesi.

Come sai io non mi riconosco da oltre un decennio in alcuna chiesa, e pur avendo sperato che il Vaticano II avesse avviato un cammino di risanamento dell’enorme vulnus inferto al vangelo dal Vaticano I, mi sono convinto da tempo che una vera riforma sia intrinsecamente impossibile nel cattolicesimo istituzionale, e che si possa essere pienamente cristiani anche senza appartenere formalmente a una confessione o senza fare riferimento ad alcuna autorità ecclesiale.

Il mio essere “diversamente cristiano” non mi porta tuttavia mai a fare “il tifo contro” nessuna chiesa o comunità, ma soltanto a cercare di favorire i semi di vangelo e di riconciliazione sparsi ovunque. Ciò nonostante, se un tempo ritenevo, con il grande teologo anglicano Richard Hooker, che si potesse parlare di infallibilità della chiesa “eventually”, prima o poi (dunque senza alcuna certezza o strumento incrollabile), sono ormai convinto che l’unica cosa che sia veramente infallibile è il vangelo, e l’unica figura umana pienamente degna di fiducia sia Gesù di Nazareth.

Caro Enzo, non so se posso chiamarti “amico”, nel senso che l’amicizia è fatta di intimità, di rapporti preferenziali, di complicità che non so se ho mai intrattenuto con te. Sicuramente, però, ti posso e ti voglio chiamare “fratello”. Sei fratello perché da te ho imparato molte delle cose più importanti in assoluto per la mia vita, in primis il primato del vangelo e l’importanza della misericordia, oltre alla passione per la conoscenza e la fatica del pensare. E con me hanno imparato queste cose dalla tua testimonianza personale decine di migliaia di persone, in Italia e non solo.

Carissimi Antonella, Enzo, Goffredo, Lino,
e voi tutti fratelli e sorelle di Bose che vi riconoscete ancora nei valori fondamentali del vangelo ma ora vi sentite contraddetti, avviliti o perfino umiliati, io non ho e non avrò mai l’ardire di dirvi: “Fatevi carico di questa croce”. Come ho già scritto altrove, solo il Signore può dirvelo, e solo voi potete riconoscere la sua voce e decidere cosa sia e cosa non sia una sua croce da portare. Se altri cercano di identificare per voi le vostre croci, oltre a essere superficiali e inumani, sono molto vicini alla bestemmia. Dio vuole che viviamo, non che moriamo, oppure è un idolo in cui non bisogna credere neppure un istante.

Posso solo ricordarvi, umilmente, come vostro fratello, ciò che Enzo stesso ci ha insegnato e ha spesso ripetuto, e cioè che nessuno può impedirci di vivere il vangelo, neppure la chiesa. Voglio perciò innanzitutto ringraziarvi pubblicamente per avere cercato un dialogo, da veri cristiani, con chi vi colpiva in maniera potenzialmente mortale. La ragione, infatti, non sta mai da una parte sola, e pur compiendo anche voi i vostri errori sono pienamente cosciente della vostra costante ricerca e attesa di soluzioni più umane e cristiane alla crisi profonda che ha colpito la vostra (oso dire “nostra”) comunità.

Voglio ringraziarvi per avere cercato una ricomposizione in primo luogo per vie ecclesiali e non per tribunali. Si tratta di una scelta per nulla scontata. Il diritto a un processo equo è infatti uno dei capisaldi della Dichiarazione Fondamentale dei Diritti Umani del 1948, e il diritto canonico contiene (e fa uso di) strumenti in chiarissimo contrasto con questo documento fondamentale dell’umanità. La vostra decisione è ancor più degna di rispetto perché sicuramente, in sede civile, risulterebbe impossibile privarvi di ciò che avete largamente contribuito a realizzare sul piano materiale. E aggiungo che se anche decideste di appellarvi in futuro ai tribunali secolari, compirete un atto legittimo che non cambierà certamente la mia considerazione per voi.

Giunti a questo punto, però, visto che dall’altra parte si è voluta sancire antievangelicamente la definitività dell’allontanamento di alcuni di voi o l’inaccettabilità delle vostre posizioni o addirittura dei vostri dubbi in generale, credo che l’unico modo che avete per continuare a vivere il vangelo sia, come dice Gesù, prendere congedo da Bose “scuotendo la terra di sotto i vostri piedi a testimonianza per loro” (Mc 6,11).
Scuotendo la polvere si affermano infatti due cose fondamentali.

Innanzitutto è un gesto che avviene dopo che si è annunciato e chiesto di condividere uno stile evangelico e si è ricevuto in risposta un diniego. Perciò non solo è lecito ma è anzi un bene andare a vivere altrove il vangelo, senza sprecare energie in logiche di distruzione o di morte, o anche solo di tristezza e di impoverimento spirituale.

Ma è anche una chiara presa di distanza, in cui si dice: vi lasciamo anche la polvere di questo suolo, perché è suolo arido che non sentiamo più nostro.
Il monachesimo ha portato splendori ma anche talvolta oscurantismi nella storia umana e dello spirito. Ha prodotto figure meravigliose e gruppi di fanatici pronti a lacerare una donna straordinaria come Ipazia sull’altare delle loro chiese.

C’è un modo altro, però, di vivere il radicalismo cristiano, carissimi fratelli e sorelle. Il “siamo semplici cristiani” è l’intuizione forse più cruciale di chi ha dato vita all’esperienza di Bose, sulla scia di esperienze esemplari come quella di sorella Maria a Campello, a cui vi invito a tornare come fonte e ispirazione, pur con i tratti tipici delle vostre ricche personalità.

Sono certo che saprete continuare a essere semplici cristiani e a testimoniare il vangelo. Io sarò sempre al vostro fianco, perché sono vostro fratello nel Signore

Riccardo Larini

Dal sito: https://riprenderealtrimenti.wordpress.com/2021/03/06/e-tempo-di-scuotere-la-polvere-dai-vostri-calzari-lettera-ai-fratelli-e-alle-sorelle-espulsi-da-bose/?fbclid=IwAR3oxM73IfWNKDluDqDPnamTEHWFdsjU1E3A4r4YObHguT_VjL6FnpxAEZs

Comunicato di fr. Enzo Bianchi, fondatore di Bose

Questo comunicato è stato redatto per essere pubblicato il 9 febbraio 2021 in risposta al comunicato dello stesso giorno del delegato pontificio e a quello apparso sul sito di Bose. Tuttavia, per obbedienza, e ripeto solo per obbedienza, ho continuato a mantenere il silenzio fino ad oggi.

Silenzio sì, assenso alla menzogna no!

Nel Decreto del Segretario di Stato consegnatoci il 21 maggio 2020, veniva chiesto a me, a due fratelli e a una sorella l’allontanamento da Bose a causa di comportamenti a noi mai indicati e spiegati che avrebbero intralciato l’esercizio del ministero del priore di Bose, fr. Luciano Manicardi. Pur non avvallando le calunnie espresse nel Decreto, coscienti che non ci era consentito l’esercizio del diritto fondamentale alla difesa (come sancito dalla Carta dei diritti umani e dalla Convenzione europea) abbiamo obbedito al Decreto.

Ho immediatamente iniziato la ricerca di un’abitazione adatta a me e alla persona che mi assiste, dove poter anche trasferire la vasta biblioteca necessaria al mio lavoro e l’ampio archivio personale. Dopo mesi di ricerca condotta anche da agenzie specializzate, ricerca complicata altresì dall’emergenza sanitaria del Covid-19, non ho trovato nulla di confacente alle mie esigenze. I costi per l’acquisto di una casa in campagna (sempre superiore a 500.000 euro) o di un affitto di un alloggio in città restavano eccessivamente elevati rispetto alle mie possibilità economiche e alla scelta di una vita sobria che ho sempre condotto.

A queste difficoltà si aggiungono la mia età avanzata e le precarie condizioni di salute: gravissime difficoltà di deambulazione causata da una seria sciatalgia, una grave insufficienza renale che non permette alcun intervento chirurgico risolutivo, ai quali si aggiunge una patologia cardiaca. É a seguito di questa situazione e non per altre ragioni, che non ho potuto lasciare l’eremo nel quale vivo da più di quindici anni e si trova dietro alla collina della Comunità di Bose. Alla consegna del Decreto ho da subito interrotto ogni rapporto con i membri della Comunità, incontrando soltanto un fratello incaricato dal priore per la mia assistenza quotidiana. Pertanto, l’allontanamento concreto l’ho realizzato ma non abbastanza lontano come indicato dal Decreto.

Nell’ottobre 2020, direttamente dal cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin mi è giunta la proposta di trasferirmi presso la fraternità di Bose a Cellole, sita in S. Gimignano (Si), insieme ad alcuni fratelli e sorelle che si sarebbero resi disponibili, così da attuare pienamente il Decreto e trovare una soluzione per la mia residenza fuori comunità.

A questa proposta, il priore di Bose, l’economo della comunità e il delegato pontificio hanno da subito posto alcune condizioni, tra le quali la perdita di tutti i diritti monastici per i fratelli e le sorelle che si sarebbero trasferiti a Cellole nella condizione di extra domum. Fu mia premura informare il Segretario di Stato che la condizione alla quale venivano ridotti questi fratelli e sorelle era in aperta contraddizione con il can. 665 com. 1 del Diritto canonico vigente, avvalorato dall’interpretazione data dal documento “Separazione dall’Istituto. Extra domum, esclaustrazione e secolarizzazione” redatto dal Gruppo Segretari/e di Roma del 12 novembre 2013.

Il 13 novembre del 2020, il Cardinale Parolin, in una lettera a me indirizzata, accoglieva le mie osservazioni, chiedendomi di trasferirmi a Cellole con alcuni fratelli e sorelle disponibili, da me scelti in intesa con il priore di Bose, i quali avrebbero vissuto come monaci extra domum ma conservando tutti i loro diritti monastici. Cellole non sarebbe stata più una fraternità di Bose ma comunque una fraternità monastica in cui era possibile la presenza di un fratello presbitero per la celebrazione eucaristica.
Tuttavia, l’8 gennaio 2021 mi giungeva il decreto del delegato pontificio con le disposizioni per il trasferimento a Cellole, e in allegato un contratto di comodato d’uso gratuito precario che avrei dovuto firmare immediatamente. Il contratto, ideato e redatto dell’economo di Bose fr. Guido Dotti e approvato del priore di Bose fr. Luciano Manicardi e del delegato pontificio, poneva le seguenti condizioni:

1. Il decreto del delegato pontificio ingiunge a fr. Enzo Bianchi di trasferirsi a Cellole senza sapere né identità né numero dei fratelli e delle sorelle che sarebbero andati a vivere con lui.
2. Nel contratto di comodato si prevede che l’Associazione Monastero di Bose, nel suo rappresentante legale fr. Guido Dotti, può cacciare da Cellole in ogni momento, su semplice richiesta e senza motivarne le ragioni, fr. Enzo Bianchi e quanti vi risiedono con lui.
3. Il contratto di comodato d’uso concede gli edifici del priorato di Cellole stralciando però intenzionalmente i terreni annessi all’edificio e necessari per la coltivazione, per l’orto e per la provvigione dell’acqua durante l’estate.
4. Si dichiara che ai monaci e alle monache di Bose che vivranno a Cellole è vietato non solo fare riferimento a Bose, ma anche affermare di condurre vita monastica o cenobitica: potranno semplicemente definirsi come coloro che danno assistenza a fr. Enzo Bianchi, pertanto ridotti a meri “badanti”.

Anche alla mia richiesta che a Cellole ci fosse un fratello idoneo designato a guidare la comunità, il delegato pontificio ha risposto che “non c’è alcun priore, né responsabile, né presidente del gruppo a Cellole, né vita monastica né vita cenobitica”. Ai monaci e alle monache di Bose presenti con me a Cellole ai quali erano riconosciuti dal Segretario di Stato tutti i diritti monastici era tuttavia espressamente vietata la vita monastica. Con tutta evidenza, questa imposizione risulta lesiva della dignità personale e dei diritti monastici fondamentali di questi fratelli e sorelle che vivono a Bose anche da quarant’anni. Se a Cellole è loro vietato di condurre vita monastica, essi cosa vivono? Vengono loro riconosciuti i diritti monastici ma è loro espressamente vietata la sostanza della vita monastica.

A queste condizioni, che non sono mai state rese note alla comunità, io non ho mai dato il mio assenso, perché mi sembrano disumane e offensive della dignità dei miei fratelli e delle mie sorelle. Il decreto del delegato pontificio pone con tutta evidenza me e quanti con me vivono a Cellole in una condizione di radicale precarietà, obbligandoci a vivere perennemente nell’angoscia di essere cacciati in ogni momento e per qualsiasi ragione. Se alle indicazioni del Segretario di Stato avrei sempre potuto ubbidire, alle modalità di realizzazione dettate in particolare da fr. Guido Dotti non ho mai potuto dare il mio assenso.

Per queste ragioni, per la quarta volta, il 2 febbraio scorso ho comunicato al delegato pontificio e al priore, tramite lettera consegnata nelle sue mani, la mia decisione di non trasferirmi a Cellole alle condizioni poste da loro. Inoltre, per amore della Chiesa e in particolare della diocesi di Volterra, del suo vescovo Alberto Silvagni padre veramente premuroso, di tutte le persone che da otto anni frequentano l’eucaristia domenicale e la liturgia delle ore quotidiana e che hanno tessuto vincoli ecclesiale e spirituali con la fraternità di Cellole, non posso in coscienza accettare che una fraternità di così grande valore monastico fosse chiusa al semplice scopo di diventare una casa privata destinata a me e a chi mi assiste. Ribadisco tutto il mio dolore per una chiusura decisa improvvisamente e in questa modalità e non certo per volontà mia. Il delegato pontificio e il priore di Bose, ignorando questa mia decisione a loro tempestivamente comunicata per iscritto di non trasferirmi a Cellole, hanno ugualmente pubblicato il 9 febbraio 2021 i rispettivi comunicati ufficiali, omettendo gravemente di rendere nota la mia decisione, anzi dicendo che io avevo accettato di trasferirmi a Cellole, alterando in tal modo la verità dei fatti.

Per questo, dall’inizio di febbraio, ho ricominciato la ricerca di una dimora in cui poter vivere la vita monastica e praticare l’ospitalità come sempre ho fatto tutta la mia vita a Bose: alla mia vocazione non intendo rinunciare.

Non ho nulla in più da comunicare almeno PER ORA. GIUDICATE VOI!

Di quanto qui scritto sono disposto a mostrare i documenti che lo provano.

Fr. Enzo Bianchi
fondatore di Bose

DAL SITO.
https://www.ilblogdienzobianchi.it/blog-detail/post/114743/comunicato-di-fr-enzo-bianchi-fondatore-di-bose?fbclid=IwAR0TpzKcLfrAuYLf-6e99dHeO_krXkJcUbUS3fiwFWX9mZxg8wkco0fjQ3c

“Europa beffata da Usa e Big Pharma. Ma alla produzione dei vaccini si doveva pensare un anno fa”. Intervista a Giuseppe Sabella

vaccino covid-19 (Ansa)

Mentre una nuova ondata del contagio sta stressando in maniera diversa l’Europa intera, la Commissione è stata travolta dai ritardi delle Big Pharma più volte venute meno agli accordi presi con l’Unione. La politica comunitaria dell’acquisto dei vaccini doveva essere un pilastro del corso Von Der Leyen ma qualcosa è andato storto, tanto che ora c’è chi procede in modo autonomo (vedi Austria e Danimarca che produrranno i vaccini insieme a Israele ma anche i Paesi dell’area Visegrad che acquistano il vaccino da Russia e Cina). In questo quadro, la Commissione sta lavorando per potenziare l’industria farmaceutica e la sua capacità produttiva, progetto che vede l’Italia in prima linea. Proprio oggi, il Commissario Europeo all’industria Thierry Breton è a Roma e ha incontrato il Ministro dello sviluppo economico Giancarlo Giorgetti. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0.

Sabella, com’è andato questo incontro di stamattina tra Breton e Giorgetti?

Si è trattato di un incontro proficuo, del resto a Bruxelles c’è ampia contezza del ruolo importante che l’Italia può giocare a livello di riorganizzazione dell’industria europea, essendo il nostro Paese secondo solo dopo la Germania in termini di produzione manifatturiera e particolarmente eccellente proprio nel comparto della farmaceutica. A ogni modo, Giorgetti ha aggiornato Breton circa quello che concretamente potrà fare l’Italia, quanti impianti potrà attivare e in quanto tempo (informazioni ancora coperte da riservatezza). Il problema degli impianti per la produzione dei vaccini è un problema europeo e la mole di risorse del Recovery Fund serve proprio a ricostruire l’industria continentale con la finalità non solo di innovarla ma anche di rendere l’UE più indipendente da USA e Cina. Da questo punto di vista, Breton è stato infatti fra i primi a cogliere l’urgenza dell’autonomia vaccinale su scala europea, capendo le insidie della dipendenza dalle Big Pharma che oggi, ahimè, stiamo pagando.

Come si spiega questo incidente che oggi vede la Commissione Europea sotto scacco dalle Big Pharma?

Al di là del fatto che l’Unione in questa fase sta facendo una pessima figura perché questa è un’operazione che non doveva conoscere intoppi – cosa che ancora una volta alimenta come stiamo vedendo le spinte nazionaliste – non possiamo però non dire che Pfizer e Moderna sono inadempienti contrattualmente, al di là del fatto che qualcuno dica che non siano previste penali per le mancate consegne di vaccini. Io mi limito a dire che nessuno conosce quegli accordi perché sono secretati nei punti chiave. Il punto vero però è un altro ed è ciò che Breton ha capito benissimo: qui non è solo questione di Big Pharma, è questione che gli USA hanno investito 3,5 miliardi di dollari in finanziamenti per ricerca e preacquisti di vaccini. Come non vedere dietro questa inadempienza anche un aspetto politico? È ovvio che in questa fase complicatissima, gli USA – la cui campagna vaccinale sta funzionando meglio che in Europa – vaccinato il 15,8% della popolazione contro il 6,3% UE, fonte Ocse – pensino a loro. In questo senso, è ancora America First, al di là del fatto che Biden sarà più amico dell’Europa di quanto lo sia stato Trump. Chi prima uscirà dall’emergenza sanitaria, prima uscirà dall’emergenza economica. E in una fase di potente riconfigurazione della globalizzazione, nessuno fa favori a nessuno, se non per un interesse diretto. Come, per esempio, stanno facendo Russia e Cina.

Si riferisce ai vaccini Sputnik e Sinopharm?

Si, mi riferisco al fatto che Russia e Cina, che hanno meno problemi dell’Europa in capacità produttiva, attraverso la cessione dei loro vaccini proseguono nella loro politica di penetrazione in Europa.

Ma perché l’Europa si trova in questa situazione di scarsa capacità produttiva dei vaccini?

Perché nella sua politica industriale l’Europa non ha considerato che produrre vaccini era una cosa strategica. Non che l’industria farmaceutica in Europa sia debole, tutt’altro. Si pensi a colossi come Bayer, Novartis, Sanofi, ma anche alle nostre Menarini, Chiesi, Angelini, Dompé, Bracco, Zambon, etc. Il punto è che per produrre vaccini ci vogliono impianti specifici di cui al momento scarseggiamo. Ci stiamo pensando ora, meglio tardi che mai. L’errore vero è stato quello di non pensarci un anno fa. E le ragioni che dovevano spingerci a farlo sono diverse. Ma, sappiamo, l’Europa è una lenta burocrazia.

A cosa si riferisce in particolare?

Mi riferisco non solo al contingente problema della pandemia, non ne usciamo senza il vaccino. Ma, inoltre, il fabbisogno di vaccini potrebbe crescere anche in ragione di un mondo sempre più abitato dai microbi. A causa dello scioglimento dei ghiacciai, si stanno diffondendo virus debellati o sconosciuti: di recente, una ricerca condotta da scienziati statunitensi e cinesi ha infatti ritrovato virus sepolti nei ghiacci risalenti a circa 15 mila anni fa (studio pubblicato sulla rivista bioRxiv a gennaio 2020). Inoltre, ad aprile dell’anno scorso, la Società italiana di Medicina ambientale ha reso noto che tracce di coronavirus sono state ritrovate nelle polveri sottili: il particolato atmosferico trasporta quindi i microbi. Benché non sia rilevata l’efficacia del contagio per via aerea, a questo punto, in un mondo stressato dal problema dell’inquinamento, dobbiamo sempre più difenderci da virus e microbi. È questa la ragione per cui la ricerca in ambito farmaceutico negli ultimi 10 anni ha molto investito in questa direzione, cosa che ha probabilmente agevolato la realizzazione del vaccino per il Sars-Cov-2 a tempo di record.

Oltre che per aspetti di carattere sanitario, da un punto di vista industriale qual è l’importanza di questa operazione europea per il nostro Paese?

Intanto, predisporre impianti per la produzione del vaccino – ex novo o attraverso la riconversione degli stabilimenti che producono l’antinfluenzale – vuol dire non solo costruire un percorso di politica sanitaria ma generare condizioni per lo sviluppo di lavoro e occupazione. Pensiamo anche al fatto che sarà necessario produrre macchine come bioreattori e fermentatori, cosa che a loro volta genererà opportunità occupazionali. Questo significa rispondere ai bisogni emergenti. In questo quadro mi sembra interessante far notare anche che vi è un progetto del Cluster Alisei –
supportato da Farmindustria, Federchimica ed Eguaglia – di back reshoring (recuperò attività produttive) dalla Cina e dall’India che coinvolgerà circa 60 industrie e favorirà la creazione di 11.000 posti di lavoro (secondo i calcoli di Alisei), progetto che dà evidenza alla “riconfigurazione delle catene del valore” di cui si parla da tempo. in sintesi, la farmaceutica è l’inizio dell’attuazione del Recovery Plan in Italia, oltre che in Europa naturalmente.