Nasce un nuovo partito cattolico? Intervista a Don Rocco D’Ambrosio

Stefano Zamagni (Wikipedia)

Stefano Zamagni (Wikipedia)

Sta nascendo un nuovo partito cattolico? Pare di si. Il gruppo animato dal Professor Zamagni, Insieme questo il nome, sta facendo assemblee territoriali in vista dell’Assemblea generale che si terrà, stando ai loro documenti, alla fine di Giugno. Ma quali problemi porrà alla Chiesa? Ne parliamo, in questa intervista, con Don Rocco D’Ambrosio Professore di Filosofia della Politica alla Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Gregoriana di Roma.

 Don Rocco D’Ambrosio (Università Gregoriana di Roma)

Don Rocco D’Ambrosio (Università Gregoriana di Roma)

Don Rocco, stando ad alcune notizie apparse in alcuni organi locali, esempio il Corriere Del mezzogiorno, c’è stata una assemblea, rigorosamente on line, in Puglia, qualche giorno dopo anche in Sicilia, di “insieme” (il gruppo organizzato dal Prof. Zamagni). Sta nascendo un
nuovo partito cattolico (di “ispirazione cristiana” anche se aperto ai non credenti)? 

Sembra proprio di si, visto che era stato già annunziato l’anno scorso e che ora, da quanto capisco, si sta organizzando a livello territoriale.

Sappiamo che il prof. Zamagni è il presidente della Pontificia Accademia delle Scienze sociali. Insomma non è una cosa di poco conto. Il papa Francesco, stando a passate dichiarazioni, non sembra che sia nella linea di costruzione di un “partito cattolico”. L’iniziativa non rischia di creare confusione?
I due problemi che lei pone sono rilevanti. Partirei dal papa e dalla sua posizione sul partito di cattolici. E’ il 30 aprile 2015 quando le agenzie di stampa riportano le parole di papa Francesco, in un discorso a braccio nell’aula Paolo VI: “Si sente: ‘Noi dobbiamo fondare un partito cattolico!’: quella non è la strada. La Chiesa è la comunità dei cristiani che adora il Padre, va sulla strada del Figlio e riceve il dono dello Spirito Santo. Non è un partito politico. ‘No, non diciamo partito, ma … un partito solo dei cattolici’: non serve e non avrà capacità convocatorie, perché farà quello per cui non è stato chiamato (…) Ma è un martirio quotidiano: cercare il bene comune senza lasciarti corrompere”. E’ interessante notare come il papa sposta l’attenzione dalla questione “partito cattolico” a quella dl “martirio quotidiano nel cercare il bene comune”.
Non abbiamo bisogno di una nuova D,C, né di nuove formazioni politiche – del resto l’Italia ha fin troppi partiti – che si ispirino al Cristianesimo. Abbiamo solo bisogno di donne e uomini coerenti con la loro fede, come anche d’intere comunità locali, che testimonino il Vangelo nei tanti e difficili campi minati, politica in primis.
Del resto il Vaticano II e Paolo VI hanno ben chiarito diversi nodi. «Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi», scriveva Paolo VI nel 1971, sulla scia di Gaudium et Spes 76. L’affermazione conciliare pone fine a qualsiasi collateralismo fra comunità cristiana e partiti politici – vedi il caso DC in Italia – proprio perché presenta con chiarezza l’autonomia della sfera temporale da quella religiosa, restituendo alla comunità cristiana il suo proprio ruolo di profezia e coscienza critica, il suo evangelico servizio nei confronti dei detentori del potere e dell’intera comunità civile e politica.

E riguardo al prof. Zamagni…
Anch’io sono rimasto sorpreso dal coinvolgimento del prof. Zamagni, vista la carica di presidente Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. E non riesco a spiegarmi le motivazioni. Tuttavia resta fermo quanto insegna il Concilio: “La Chiesa, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico” (GS, 76). Forse un po’ più di chiarezza, da parte di tutti, non guasterebbe.

Come si pone la CEI nei confronti di ‘Insieme’? 
Che io sappia non ci sono stati pronunciamenti ufficiali in materia.

Insieme si ispira alla ‘dottrina sociale della chiesa’. Le chiedo: la ‘dottrina sociale’ ha bisogno di un partito?
Si tratta di una scelta storica e concreta che spetta all’autonomia dei laici cattolici di organizzarsi nella forma ritenuta più opportuna per testimoniare la fede. In nessuna di queste scelte possono dire di rappresentare la Chiesa; non a caso il Concilio precisa: “si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori” (GS, 76). Fatta questa debita distinzione bisogna chiedersi se le condizioni culturali, politiche, sociali ed economiche, come anche ecclesiali, del nostro Paese siano, per esempio, simili a quelle, che, nel secolo scorso, hanno portato prima alla fondazione del PPI di Sturzo e poi alla DC di De Gasperi. Secondo me no. Ma è una personalissima opinione.

“Insieme” però pone un problema: quello della rilevanza dei cattolici italiani in politica. Qual è, secondo lei, lo ‘stato dell’arte’ al riguardo?
La poca rilevanza dei cattolici in politica è certamente un fatto e un problema… ma non solo politico. E’ anche culturale, sociale, economico, istituzionale, sindacale e via dicendo. In altri termini si tratta di atteggiamenti che rientrano in quella che Paolo VI chiamava frattura tra “fede e vita” (EN, 29). La possiamo recuperare – anche in politica – solo nella misura in cui crediamo e ci formiamo alla luce del Vangelo che va annunciato a “tutta” la persona (nella suo essere fisico, intellettuale ed emotivo), a tutte le persone e in ogni ambiente, nessuno escluso.

Con quale strumento e stile può oggi un cattolico può essere efficace in politica
Lo ricorda papa Francesco nella Fratelli tutti: “L’impegno educativo, lo sviluppo di abitudini solidali, la capacità di pensare la vita umana più integralmente, la profondità spirituale sono realtà necessarie per dare qualità ai rapporti umani, in modo tale che sia la società stessa a reagire di fronte alle proprie ingiustizie, alle aberrazioni, agli abusi dei poteri economici, tecnologici, politici e mediatici”. In sintesi: un cattolico maturo ha il dovere sacrosanto di formarsi, partecipare e assumere responsabilità nel mondo. Solo cosi avremo cattolici “efficaci”, autentici.

Ultima domanda: si farà il Sinodo della Chiesa italiana? Se si su quale tema? 
Lei ricorderà che i temi li ha indicati il papa sollecitando più volte l’apertura del Sinodo e legandolo alla riflessione sulla “Evangelii gaudium”. Sono temi che riguardano la comunità cattolica sia al suo interno che nel rapporto con il mondo. Si farà? Non so. Me lo auguro vivamente. Finora non sono note né date né indicazioni sulle procedure – ci auguriamo sinodali e dal basso – per farlo partire. Speriamo bene!

“Il successo del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza può dare anche una svolta all’Europa”. Intervista a Marcello Messori

Mario Draghi (Ansa)

Ieri il Parlamento ha approvato il Recovery Fund. Come si sa non è stato un “parto”
facile. Adesso comincia la grande sfida per costruire un futuro positivo per l’Italia e per
l’Europa. Approfondiamo, in questa intervista, con il Professor Marcello Messori il
significato strategico per l’Italia e per l’Europa del PNRR. Marcello Messori è
professore di Economia al Dipartimento di ‘Economia e Finanza’ della LUISS (Roma) e
Senior Fellow della Luiss School of European Political Economy.

Professore, il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza, dopo un parto assai
complicato, è stato approvato ieri dal Parlamento. La Ue aveva fatto dei rilievi
riguardanti la concorrenza e il fisco. Può spiegarci cosa riguarda in
particolare?
Come è ovvio, non ho informazione specifica riguardo alle interlocuzioni informali
fra Commissione europea e Governo italiano in merito ai contenuti del Piano
Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Esaminando la  parte del PNRR
dedicata alle riforme, posso però sottolineare tre punti. Primo, questa parte compie
rilevanti passi in avanti rispetto alla versione del PNRR di metà gennaio 2021,
anche se la sfida rimane quella di attuare effettivamente le iniziative descritte in
termini di riorganizzazione della Pubblica amministrazione, snellimento delle
procedure giudiziarie e semplificazioni. Secondo, per fornire una  valutazione
specifica di ogni intervento di riforma  disegnato nel PNRR, sarebbe necessario
entrare nei dettagli; l’impressione da verificare è che, in vari casi, si privilegi
l’aspetto quantitativo rispetto a quello qualitativo (organizzativo). Terzo, il capitolo
dedicato alla concorrenza è ancora generico in quanto enuncia principi piuttosto
che indicare impegni puntuali di riforma; vero è che taluni di tali impegni emergono
dai progetti c. oncreti (per esempio, quelli relativi alle telecomunicazioni). Vorrei
infine notare che la riforma fiscale non può essere inscritta nel PNRR in quanto
comporta impegni di bilancio permanenti (o, comunque, ben oltre l’orizzonte del
2026). Pertanto, non mi pare cogente valutare quanto è detto al riguardo nel
PNRR.

Dunque c’è discontinuità del Piano Draghi con quello del Conte2?
Come ho già detto, vi sono forti elementi di discontinuità in termini di strategia
generale e di attenzione alle riforme. Inoltre, le due direttrici dell’innovazione
digitale e della transizione ecologica hanno contenuti più convincenti ed efficaci
rispetto alla precedente versione del Piano. In particolare, nell’ambito delle
innovazioni nel settore delle telecomunicazioni, le riforme e gli investimenti
disegnati hanno segno opposto rispetto ai progetti proposti a metà gennaio 2021.

Quale idea di Italia propone il piano?
Questo è il punto più rilevante di novità rispetto alla versione precedente del PNRR.
Specie se combinato con il Documento di Economia e Finanza (DEF)
recentemente varato dal governo Draghi, l’attuale versione del PNRR risponde a
una strategia ben definita: rafforzare il potenziale di crescita dell’economia italiana
dilatando la spesa pubblica e utilizzando tutte le risorse europee, perché solo così
sarà possibile rendere sostenibile sia la convergenza del nostro paese verso il

nucleo forte dell’euro area sia la dinamica del debito pubblico rispetto al PIL. Si
privilegia pertanto una forte spinta quantitativa agli investimenti pubblici e privati.
Tale scommessa è rischiosa perché, se la selezione degli investimenti non sarà
efficiente e se la loro realizzazione risulterà inadeguata, gli squilibri e i problemi
dell’ Italia si aggraveranno. Si tratta, comunque, di una scommessa forse inevitabile
che ha, come essenziale  garanzia, l’autorevolezza delle componenti governative
che gestiscono la politica economica e l’uso delle risorse europee.

Per il direttore del Foglio, Claudio Cerasa, questo Piano di Draghi, è un capolavoro neoliberista. Non trova esagerata questa affermazione?
La chiave di lettura del direttore del Foglio è interessante, ma non mi sento di
condividerla per almeno tre ragioni. Primo, non penso che la ‘ricetta’ efficace per
avviare l’economia italiana su un sentiero di sviluppo sostenibile sia il neo-
liberismo: i processi di innovazione, la conseguente riorganizzazione dell’apparato
produttivo e le necessarie protezioni sociali richiedono una complessa
combinazione fra intervento pubblico, efficiente funzionamento dei mercati,
appropriata regolamentazione e efficace spesa  sociale che è incompatibile con lo
schema del neo-liberismo. Secondo, l’opzione neo-liberista (peraltro mai realizzata
in Italia) non trova riscontro in molte parti del PNRR; come si è già detto, la parte
dedicata alla concorrenza è molto generica; le semplificazioni sono attente ai
vincoli e agli assetti istituzionali. Terzo, l’approccio neo-liberista non si afferma
neppure per la sua componente più positiva: l’eliminazione delle protezioni
pubbliche alle pervasive posizioni di rendita che connotano il nostro paese. Anche
nella sua attuale versione, il PNRR include troppi progetti; e alcuni di questi progetti
sono troppo esigui e troppo contingenti per accrescere l’efficienza dei mercati. Vi è
poi il rischio che tale tendenza si rafforzi rispetto ai progetti finanziati dal fondo
nazionale, costituito in parallelo al PNRR.

Parliamo della sei missioni del Piano: digitalizzazione, innovazione, competitività
e cultura, rivoluzione verde e transizione ecologica; istruzione e ricerca ;
inclusione sociale e coesione. Le chiedo:. Secondo lei tutte queste missioni
sono ben armonizzate? Oppure invece c’è una sproporzione. Per esempio sul
Sistema Sanitario, che in questa pandemia ha mostrato eccellenze ma anche
limiti enormi, non si poteva prevedere più risorse?
Non mi presterò al gioco di correggere l’allocazione delle risorse fra le sei missioni
perché questo sarebbe giustificato solo se il PNRR declinasse la chiara strategia
macroeconomica, su cui si fonda e di cui abbiamo già discusso (spinta alla crescita
mediante spesa pubblica), in un insieme ordinato di obiettivi microeconomici.
Viceversa, questa ulteriore declinazione più microeconomica non è resa esplicita,
ossia non vi è una chiara gerarchia in merito alle priorità da perseguire per
massimizzare il tasso macroeconomico di crescita; pertanto, sarebbero possibili e
ragionevoli molte allocazioni oltre quella fissata dal PNRR. Ciò mi spinge a formulare
due sole constatazioni. Primo, il PNRR soddisfa pienamente le soglie minime europee
in termini di risorse destinate alla  transizione ecologica e all’innovazione digitale. Qui
la scommessa per l’Italia sarebbe quella di saldare le due componenti. Il PNRR compie
qualche passo promettente in questa direzione; sarebbe stato ancora più efficace se
avesse inserito, per esempio, gli investimenti ‘verdi’ nell’alta velocità e nei trasporti
locali come fattore essenziale per la realizzazione di progetti di agglomerazione
territoriale per le innovazioni digitali. Secondo, le risorse destinate al capitolo sulla

sanità sono probabilmente inadeguate. Va, tuttavia, considerato che l’Italia ha ancora
la possibilità di accedere alle risorse ‘non condizionate’ offerte dallo speciale fondo
sanitario dell’ESM; e che molte traiettorie innovative  nella produzione di ‘beni’ sanitari
possono rientrare nella missione  dedicata alle innovazioni.

Sappiamo che il Piano cammina se si fanno riforme strutturali che consentono di attuarlo. Quale delle riforme previste è la più urgente?
Faccio fatica a definire il termine ‘strutturale’, se riferito alle riforme. In ogni caso,
credo che la realizzazione del PNRR richieda soprattutto riorganizzazioni puntuali
della Pubblica amministrazione e un’efficace combinazione fra riforme pro-
concorrenza e non distorsiva regolamentazione dei mercati in modo da superare i
blocchi costituiti dalle  pervasive posizioni di rendita che affliggono l’economia
italiana. A quest’ultimo riguardo, il PNRR risulta debole.

L’Italia, in Europa, non ha una bella fama nell’ambito della buona capacità di
spesa per i progetti europei. Una volta presentato, a Bruxelles, il Pnnr dovremo
affrontare il tema di come “mettere a terra” queste risorse. Un tema enorme.
Come superare questo problema?
Si tratta della giusta osservazione che non basta redigere un PNRR, che risponda
alle  esigenze europee e che prometta il superamento di alcuni dei ‘colli di bottiglia’
nazionali. L’attuale versione del PNRR soddisfa ambedue i requisiti, nonostante i
punti problematici sopra discussi. La sfida ancora più difficile è di realizzare i
progetti disegnati, secondo i tempi e nei costi fissati dal PNRR. A tale proposito,
sarà importante valutare la governance del PNRR che, tuttavia, necessita di
dettagli essenziali. Come è noto, tali dettagli saranno definiti dopo l’invio del PNRR
alla Commissione europea.

Ultima domanda: Lei è un europeista le chiedo: questo passaggio sul Recovery
Fund può diventare strutturale per l’Europa questa misura? Ovvero si supererà definitivamente la mentalità frugale?
L’Italia è il maggior beneficiario, in termini assoluti, sia del “Recovery and
Resilience Facility” (RRF) che del Next Generation – EU (NG-EU). L’approvazione
da parte del Consiglio della  Unione europea del PNRR di tutti i paesi dell’UE
rappresenta il passaggio essenziale per l’accesso ai fondi del RRF che, in totale,
ammontano a quasi il 90% di quelli di NG-EU. Non è pertanto esagerato affermare
che la possibilità di trasformare il NG-EU o il RRF nel primo passo di
un’unificazione fiscale (e non più solo monetaria) dell’Unione europea è legata al
successo del PNRR italiano in termini di disegno e – soprattutto – in termini di
esecuzione. Pertanto, prima di preoccuparci degli ostacoli che saranno posti da
alcuni paesi del Nord-Europa, dobbiamo acquisire la consapevolezza che l’Italia ha la responsabilità di aprire questa prospettiva di evoluzione europea. Sarebbe
imperdonabile non sfruttare l’occasione.

 

 

“La collaborazione di Grande Aracri può aprire scenari ampi per combattere la ‘ndrangheta”. Intervista a Claudio Cordova

Nicolino Grande Aracri (ANSA/UFFICIO STAMPA CARABINIERI)

Nicolino Grande Aracri (ANSA/UFFICIO STAMPA CARABINIERI)

Nella settimana scorsa è arrivata la notizia, clamorosa, della collaborazione con la giustizia di un importante boss della ‘ndrangheta. Stiamo parlando di Nicolino Grande Aracri, detto “mano
di gomma”, boss indiscusso di Cutro e della ‘ndrangheta in Emilia. Killer spietato, è stato condannato a diversi ergastoli. Non è solo un feroce assassino, ha dimostrato anche una capacità di infiltrazione nei centri di potere importanti come la Massoneria e a tessere
rapporti importanti con ambienti politici e con quelli vaticani. Insomma, ci troviamo di fronte ad un personaggio di elevato spessore criminale. Cerchiamo di approfondire quali potranno essere le conseguenze di questa collaborazione. Lo facciamo con Claudio Cordova, coraggioso Direttore della testata on line “il Dispaccio” di Reggio Calabria. Cordova è autore di un importante saggio, “GOTHA” (pubblicato dalla casa editrice del “Fatto Quotidiano”). Per la sua attività di giornalista investigativo gli è stato assegnato, nel 2019, il premio “Paolo Borsellino” per il giornalismo. Per il suo impegno di denuncia è stato più volte minacciato dalla ‘ndrangheta. 

 

Claudio Cordova (Facebook)

Claudio Cordova (Facebook)

 

Claudio, nella settimana appena passata, tra le notizie più clamorose c’è stata quella della collaborazione di Nicolino Grandi Aracri. Cerchiamo di approfondire  il possibile significato di questa collaborazione. Innanzitutto di quale cosca era il capo e perché è importante questa cosca?
Quella di Nicolino Grande Aracri può essere una collaborazione che segna una svolta nella lotta giudiziaria alla ‘ndrangheta, perché da anni è ai vertici di una delle cosche più importanti della criminalità organizzata calabrese, capace di muoversi sia sul territorio d’origine, ma con importanti proiezioni anche al Nord. In generale, Grande Aracri può essere inserito sicuramente ai primi posti in una ideale classifica sull’importanza dei boss della ‘ndrangheta. E avere una collaborazione di tale portata è insolito per un’organizzazione chiusa ermeticamente come la ‘ndrangheta, che raramente ha avuto dei capifamiglia tra chi ha deciso di collaborare con la giustizia. Quindi può aprire scenari molto ampi, non solo sugli affari dell’ala militare, ma anche sui rapporti con i “colletti bianchi”.

Grande Aracri è un killer spietato ma è anche un uomo d’affari. In quali
ambiti faceva affari?

La cosca Grande Aracri si arricchisce grazie alle attività “tradizionali” della ‘ndrangheta. Estorsioni e traffico di droga, in particolare, rappresentano il core business illegale del clan. In Calabria, in particolare, sono pressanti le richieste estorsive che gli uomini del clan effettuano soprattutto sulle attività ricettive, quali i resort, gli alberghi, i villaggi vacanze. Questo è molto grave perché, ovviamente, rappresenta una enorme zavorra per lo sviluppo turistico della regione. Con riferimento, invece, alle attività “lecite”, quello dell’edilizia è uno dei settori di maggiore interesse per il clan. Ma non solo. Una recente inchiesta della Dda di Catanzaro ha fatto emergere la capacità della cosca anche di sfruttare il mercato dei farmaci, anche attraverso connivenze istituzionali.

Oltre a Cutro, e il Crotonese, dove si estendeva il suo potere? In quali gangli del potere locale si annidava la sua influenza?
Già dagli anni ’80, Grande Aracri ha delocalizzato molte delle proprie attività economiche e illecite al Nord. Prima all’ombra della famiglia Dragone, poi, anche con una scia di sangue lasciata alle spalle, autonomamente. E’ ovviamente l’Emilia Romagna la regione dove Grande Aracri ha accumulato maggiore potere e più ingenti ricchezze. Non a caso, la sua figura è emersa in maniera prepotente con la maxi-inchiesta e il successivo processo “Aemilia”. Ma i grandi boss e le famiglie importanti non perdono mai il contatto con la casa madre calabrese.

Questo boss aveva rapporti con personaggi del Vaticano, faceva parte dell’Ordine dei templari (chi lo ha fatto entrare?), e con la massoneria. Della massoneria diciamo dopo. Parliamo un attimo del Vaticano, Come è possibile che la ‘ndrangheta abbia collegamenti con persone del Vaticano?
Il legame tra ‘ndrangheta e mondo ecclesiastico è storico. E’ lo stesso Grande Aracri, intercettato, a parlare di Templari, di Cavalieri di Malta. Quindi i riferimenti, che vengono dalla sua viva voce, sono ulteriormente genuini. Nelle conversazioni captate si fa riferimento un monsignore, nunzio apostolico e, nel 1995, “cappellano di sua Santità”. Un prelato che sarebbe capace di smuovere cardinali e non solo. In generale, la ‘ndrangheta da sempre vuole legarsi al potere, che sia politico, che sia imprenditoriale, che sia informativo. E il Vaticano, oltre agli aspetti di natura spirituale, è notoriamente un luogo dai grandi intrecci, sia sotto il profilo economico, sia sotto quello relazionale, che poi permette agli uomini di ‘ndrangheta di entrare in contatto con mondi e ambienti apparentemente inaccessibili.

Di quale loggia Massonica faceva parte?
Sempre richiamando le intercettazioni a cui facevo riferimento prima, Grande Aracri parla della massoneria di Genova. Il meccanismo è quello che nasce con la Santa. Grazie alla massoneria, alcuni soggetti, pur se non affiliati alla ‘ndrangheta, sono in grado di assicurare al sodalizio entrature nelle sedi istituzionali più disparate come quelle della Chiesa e della magistratura, per garantire, per esempio, pressioni e capacità di intervento circa le vicende processuali degli affiliati. E dalle indagini sul conto di Nicolino Grande Aracri emerge proprio il tentativo di condizionare persino l’operato della Suprema Corte di Cassazione.

Approfondiamo un poco la questione Massoneria. Tu hai scritto un libro bellissimo su questo tema, “Gotha”.Come è continuato, in questi ultimi anni, il rapporto Ndrangheta e Massoneria? La Magistratura è intervenuta?
Rispondo citando un parere molto più autorevole del mio. Nella prefazione alla mia inchiesta, il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, scrive: “È la massoneria il ponte per raggiungere quella “zona grigia” in cui convergono istituzioni, imprenditoria e criminalità organizzata. È soprattutto con i “pezzi” dello Stato, con gli infedeli appartenenti alle istituzioni che la ’ndrangheta assume un nuovo livello organizzativo”. Credo sia una sintesi perfetta per dimostrare come la massoneria deviata sia, almeno da 50 anni, una camera di compensazione, dove possiamo ritrovare le figure più disparate a dialogare con la criminalità organizzata. E’ sbagliato considerare la ‘ndrangheta “solo” un’organizzazione criminale. La ‘ndrangheta è quasi una setta, che si alimenta di ritualità e che non è “antistato”, ma “stato parallelo”. All’azione violenta preferisce il depistaggio, il vuoto di indagine, l’attacco ai magistrati impegnati, l’aggiustamento di processi; privilegia le relazioni con le istituzioni, ma anche con avvocati, commercialisti, medici, ingegneri, per penetrare negli ambienti in cui vengono assunte le decisioni.  La magistratura è ciclicamente intervenuta su questi legami, attualmente in corso a Lamezia Terme c’è il maxiprocesso “Rinascita-Scott”, che indaga anche questi rapporti. Ma essendo legami così occulti è molto difficile avere un quadro unitario e, per il momento, dobbiamo “accontentarci” di flash che vanno a illuminare questi rapporti oscuri.

Torniamo a Grande Aracri. Come reagirà la ‘ndrangheta? Qualcuno lo ha paragonato a Buscetta. È corretto il paragone?
Non è corretto paragonarlo a Buscetta, perché la collaborazione di Buscetta aprì dei mondi totalmente oscuri persino a magistrati capaci come Giovanni Falcone. Prima della collaborazione di Buscetta, noi non conoscevamo nemmeno l’appellativo “Cosa Nostra” per indicare la mafia siciliana. Grande Aracri è un boss di primissimo livello, che certamente potrà aggiungere un patrimonio conoscitivo importante, ma che dovrà essere capace di fornire riferimenti precisi al proprio narrato. Perché, soprattutto se si vogliono aggredire i livelli più alti del crimine, non può e non deve bastare l’approssimazione. Difficile dire quale potrà essere la reazione della ‘ndrangheta, che raramente ha adottato comportamenti eclatanti, ma di certo penso che, più che sull’ala militare dell’organizzazione, a essere colpita potranno essere soprattutto i legami imprenditoriali e politici.

Ultima domanda. Nella politica calabrese vedi qualche novità?
Purtroppo no. Vedo un’approssimazione imbarazzante e il modo di gestire l’attuale pandemia è emblematico della carenza qualitativa, non solo della politica, ma direi della classe dirigente calabrese. E ciò che appare all’orizzonte non sembra incoraggiante, anche per la mancanza di volontà di rinnovamento. L’incompetenza crea enormi danni e, cosa ancor più grave, anche sotto il profilo morale, è che la poca qualità spesso coincide con una maggiore permeabilità alla corruzione e agli accordi tra istituzioni e ‘ndrangheta. Se un tempo era la ‘ndrangheta a ricercare il politico, per chiedere favori, forse anche per “nobilitarsi”, oggi assistiamo al meccanismo opposto, con politici che, non appena firmano la propria candidatura vanno a consegnarsi mani e piedi ai boss pur di ottenere il risultato. La Calabria è stata per anni un “laboratorio criminale”, anche perché tradita da chi, invece, doveva tirarla fuori dalle secche con il proprio agire.

Ex Ilva: “Draghi risponde alla crisi dell’acciaio, ma lo Stato non può continuare a essere la bad bank di Arcelormittal”. Intervista a Giuseppe Sabella

Mentre gli operai della ex Ilva scioperano a sostegno del collega licenziato per il post su facebook e per una situazione sempre più insostenibile, con un comunicato congiunto firmato da Fincantieri, ArcelorMittal e Paul Wurth Italia si è resa nota la sottoscrizione di un memorandum d’intesa per la realizzazione di un progetto finalizzato alla riconversione del ciclo integrale esistente dell’acciaieria di Taranto secondo tecnologie ecologicamente compatibili, in attesa del perfezionamento degli accordi di dicembre 2020. Cosa sta succedendo attorno alla ex Ilva? Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella che segue dall’inizio la vicenda.

Sabella, questo Memorandum d’intesa si presenta come una cosa interessante. Resta tuttavia da capire quali siano le prospettive del polo siderurgico di Taranto. Lei cosa ne pensa?
La sensazione è che questa intesa sia indirettamente provocata da quello che il governo ha in mente circa il dossier Ilva. Tra pochi giorni sarà composto il nuovo consiglio di amministrazione della società AMI (ArcelorMittal Italia) – per il quale si è fatto il nome di Franco Bernabè – in virtù della finalizzazione delle intese di dicembre 2020. In questa vicenda, che è una delle grandi patologie del sistema Italia, l’unica svolta possibile può essere dettata da una volontà politica forte e chiara negli obiettivi. Può essere che, da questo punto di vista, il governo Draghi sia l’occasione giusta, considerando anche l’opportunità dei fondi europei che sono finalizzati proprio al rilancio delle nostre filiere produttive.

Da questo punto di vista la comunicazione di Mittal, Fincantieri e Paul Wurth ci dice qualcosa?
Si, ci dice qualcosa. Teniamo presente che un paio di mesi fa Danieli, Leonardo e Saipem firmavano un accordo quadro per proporsi assieme in progetti di riconversione sostenibile di impianti nel settore siderurgico, sia in Italia, in particolare nel mezzogiorno, sia all’estero. Il fatto che questi tre importanti player industriali mandassero qualche segnale del tipo “siamo disponibili a occuparci della ex Ilva” ha evidentemente mosso le acque. È probabile che la stessa Mittal sia stata sollecitata, capendo che il governo ha un’alternativa alla società franco-indiana. Inoltre, il 13 maggio vi è l’udienza in Consiglio di stato circa lo stop degli impianti (che è momentaneamente stato sospeso). Dare una svolta alla ex Ilva è necessario, anche in ragione del fatto che si sta aprendo una nuova fase per l’industria europea e la siderurgia italiana in questa partita ha molto da guadagnare.

Almeno sulla carta, come le sembra questa intesa tra Mittal, Fincantieri e Paul Wurth?
Mi sembra buona. L’accordo prevede l’implementazione di nuove tecnologie per migliorare l’impatto ambientale oltre all’individuazione di progetti innovativi per il contenimento delle emissioni. Inoltre, la presenza di Fincantieri significa sviluppo della produzione di acciaio per navi e grandi infrastrutture. Le idee chiare sono fondamentali per la riuscita dei progetti, poi vi è tutta la complessità di farle funzionare. Vedremo, ovviamente dobbiamo sperare nel successo di questa operazione perché, giusto per dare un numero, Ilva vale l’1% del nostro pil.

Dal punto di vista della produzione e del lavoro, com’è la situazione nella ex ilva?
L’anno scorso sono stati prodotti circa 3,5 milioni di tonnellate di acciaio, è il minimo storico. È vero anche che il 2020 è stata un’annata particolare, tra lockdown, crollo della produzione industriale e crisi dell’auto (meno 25% di immatricolazioni in UE). Attualmente la produzione viaggia al piccolo trotto e la cassa integrazione è estesa a tutto il personale fino a giugno, seppur in misure diverse a seconda dei reparti. In sintesi: l’economia va verso la ripresa come ci dice l’Ocse (e anche FMI): per l’Italia la crescita nel 2021 si stima attorno al +4,1% ed è superiore alla Germania (+3%) e alla media europea (+3,9%). È chiaro che è la manifattura a trainare questa crescita e l’acciaio ne è il cuore. Servono però idee chiare e, se fossi al posto di Draghi, cercherei di rinegoziare gli impegni che il governo Conte ha preso con ArcelorMittal, per quanto non sia semplice.

In che senso rinegozierebbe gli accordi tra governo italiano e ArcelorMittal per la ex Ilva?
Lo stato non può continuare a essere la bad bank dei grossi player e l’unico modo per contenere questo stillicidio di risorse è quello di condividere piani industriali con competenza e con politiche di innovazione. È questa l’unica strada per dare competitività all’industria, non ce n’è un’altra. Perché USA e Cina nel triennio che ha preceduto la crisi hanno continuato a crescere e l’Europa si è fermata? Perché l’industria europea ha un deficit di innovazione: ad esempio, l’85% di investimenti in intelligenza artificiale è stato realizzato in imprese americane e cinesi. Ora: mi piacerebbe molto che il governo Draghi condividesse finalmente con ArcelorMittal un innovativo piano di rilancio che porti la ex Ilva sulla strada della sostenibilità che significa in particolare decarbonizzazione. E, soprattutto, vorrei che governo rivedesse la sua partecipazione azionaria nell’assetto societario di AMI. Questa presenza massiccia dello stato nel capitale di AMI non ha nessuna utilità se non quella di alleggerire sempre di più l’impegno da parte dell’azienda, soprattutto se nel 2022 – quando scadranno i termini dell’affitto degli impianti e AMI ne diverrà proprietaria – la nuova società partecipata da Invitalia dovrebbe vedere il soggetto pubblico crescere le sue quote fino al 60%. Questo secondo me è molto sbagliato e pericoloso.

È il livello della presenza dello stato in AMI che la preoccupa o è in disaccordo in toto sulla partecipazione azionaria?
No, non sono in disaccordo in toto. Anche se preferirei che operazioni come questa siano finalizzate a far crescere aziende strategiche, ad esempio come ben fanno i francesi e come in qualche caso abbiamo fatto anche noi, per esempio con Eni, Fincantieri e Leonardo. Per intenderci, il signor Mittal non ha bisogno dei nostri soldi. Trovo tuttavia sbagliata e pericolosa questa massiccia partecipazione perché a questo punto mi chiedo quale sia l’interesse del privato. Quando il privato vede business, non vuole la partecipazione del pubblico, se non in minima parte. Cosa vede Mittal dentro questa alleanza che, secondo Arcuri, arriverà al 60%? E poi, non abbiamo manager pubblici oggi con competenze così sofisticate. L’industria, per via della digitalizzazione dei processi, ha raggiunto livelli di complessità altissimi che già il privato fatica a gestire. Lo vediamo con la vicenda Alitalia: è chiaro che se da 10 anni la compagnia di bandiera presenta questa patologia è perché non abbiamo competenze per sviluppare il trasporto aereo. E anche in questo caso: o si trovano queste competenze o non c’è alternativa al fallimento.

Scuola: le sfide da affrontare per un nuovo cammino. Un testo di Ivo Lizzola

Scuola elementare (Ansa)

Da domani saranno quasi 6,6 milioni gli alunni presenti a scuola sugli 8,5 milioni delle scuole statali e paritarie, 8 su 10. Quasi un milione in più della settimana scorsa, di cui ben 400 mila in Lombardia.

L’unica regione in controtendenza la Sardegna, dove 63 mila alunni di seconda e
terza media e delle superiori lasceranno le aule e si collegheranno da casa. In tutto
saranno quasi 2 milioni quelli ancora a casa in Dad.

Saranno tutti a scuola i bambini della scuola dell’infanzia e primaria, saranno l’87%
in classe gli alunni della scuola media, mentre solo il 38% dei ragazzi delle superiori
potrà frequentare, con la consueta alternanza del 50% e fino al 75% nelle regioni in
cui è consentito.

Sappiamo quanto sia strategico, per il nostro Paese, riaprire le scuole. Ma quali saranno le problematiche da affrontare in questa nuova fase? In questo testo, che pubblichiamo per gentile concessione dell’autore, Ivo Lizzola, docente ordinario di Pedagogia all’Università di Bergamo, ci offre molti spunti per la riflessione.

Ivo Lizzola (LaPresse)

Per ritrovare la scuola nei mesi segnati dalle ondate della pandemia ci si è dovuti cercare. Gli insegnanti, i dirigenti han dovuto cercare allievi e allieve, contattare famiglie, far giungere strumenti ed informazioni. Han dovuto cercare forme, proposte e organizzazioni, molti han cercato nuove didattiche. Han dovuto cercare nuova forza e rinnovate motivazioni. Mentre le loro stesse vite erano provate da lutto o da incertezze, ridisegnate nelle relazioni e nella cura.
Gli allievi e le allieve, gli studenti han dovuto cercare la scuola, i loro compagni, gli insegnanti. Han dovuto cercarli, connettersi, esporsi. E farsi trovare: bisognava in questo un po’ volerlo e un po’ cercare forza, e senso. Non era semplice nella prova, nell’incertezza, e messi allo scoperto da timori e senso di vuoto.
Ci si è dovuti cercare: e a volte non ci si è trovati. Perché qualcuno si è sottratto, o non aveva strumenti e possibilità; o perché la vita aveva ferito o schiacciato. Ma altre volte ci si è trovati: ed è stata scuola.
Certamente la scuola si è riscoperta un luogo di incontro e di rielaborazione di vissuti, di valore particolare se questi sono stati destabilizzati. Li si può accogliere in narrazioni dirette; e li si può “incontrare” attraverso l’accostamento di opere letterarie, di riflessioni culturali; o nell’impegno di un progetto, nell’affrontare questioni, nel ridisegnare problemi.
Una difficile danza di relazioni e reciprocità, di disponibilità e di responsabilità, di interazioni e servizi resi, cooperazioni ha accompagnato in qualche territorio e città questa scuola cercata. Tra momenti comuni, inventati tra presenza e distanza, rielaborazioni personali solitarie; e poi di nuovi confronti, integrazioni e approfondimenti.
Un decisivo e attentamente curato rinvio continuo tra lavoro di studio, ricerca attorno a  oggetti culturali su problemi e linguaggi e lavoro riflessivo su di sé, sul vissuto personale, sulla assunzione del proprio compito di crescita, di sviluppo. Nella consapevolezza, chiara negli insegnanti e da fare sbocciare negli allievi, che raccogliere in noi una questione (un oggetto di studio, un problema, …) è sempre accogliere anche la sua carica e attesa di senso, l’avventura dell’umano che in questa si gioca; è raccogliersi in essa. Entrarci, divenendone in qualche modo parte.
Per anni si dovranno fare i conti con memorie e vissuti destabilizzati, sostenendo nel tempo anche soglie di sofferenza personale e sociale. Cosa ben conosciuta da chi si trova nelle periferie sociali ed esistenziali a provare a fare scuola da sempre.
La didattica a distanza ha “messo a nudo” la scuola. A più livelli. In primo luogo ha mostrato quale e quanta scuola si è preoccupata di restare presente e significativa nelle vite e nelle storie dei minori, e degli adolescenti. Sentendo responsabilità, cura, attenzione. In secondo luogo la scuola è entrata nei tempi e negli spazi (nelle case) di vita degli allievi: è diventata visibile, si è mostrata e proposta sotto gli occhi di allievi e familiari. A volte restando densamente impermeabile e cieca nella sua autoreferenzialità, a volte proponendosi come luogo di riflessione, ricerca, co-formazione, “utilizzando” discipline e linguaggi per leggere ed elaborare quanto la vita “imponeva”. In terzo luogo la distanza ha chiesto attenzione, una ad una, per le condizioni e le storie di allieve ed allievi, oltre le generiche retoriche inclusive. Ha chiesto alleanze sensibili con famiglie così diverse, e diversamente attrezzate, e diversamente provate.
Ritrovare nelle tecnologie, nelle loro potenzialità e nei loro limiti una via per “tenersi in contatto”, per affinare attenzioni e linguaggi, le può fare invece “riscoprire” criticamente. Ma è la presenza che va ricercata: la scuola telematica non è scuola.
La scuola, scrive l’ottimo Fulvio De Giorgi, si costruisce attorno a “diritti pedagogici”: quello all’attivazione, all’osservazione, alla partecipazione; quello alla maturazione, alla rimotivazione, alla valorizzazione delle potenzialità ed al sostegno interattivo nelle difficoltà; quello alla capacità cooperativa, al senso critico, all’esperienza di dialogo e di ricerca; quello all’esercizio di responsabilità, di servizio, di progettazione. Occorrerà ri praticare tutto questo, in presenza responsabile, e in distanza; con esposizioni condivise e sensate. Nei luoghi diversi d’una scuola più diffusa nella comunità e nei suoi tempi, nei suoi vissuti concreti, collegati al mondo.
Le modalità virtuali potranno restare come integrative anche nei mesi a venire.
Ma servirà una rinnovata, o nuova, alleanza tra adulti.
Nella pandemia l’esperienza della conoscenza si deve ridisegnare e non solo perché il conoscere come (solo) operare una presa di controllo conoscitivo e tecnico sul mondo è passato nel fuoco della crisi risultando demitizzato. Riemergendo come luogo di confronto con il limite e come luogo di posizionamento in responsabilità.
Conoscere è domanda e coglimento, coltivazione del senso, del riguardo, del mistero, conoscere è umiltà di un pensiero che osa cercare, e lo fa senza presunzione e rigidità. Conoscere (nella fatica, nel riguardo cui la distanza conduce, nella prova, ..) soprattutto è (ri)diventato co-naissance, esperienza di co-nascita, tra adulti e minori, e tra loro e la realtà, il mondo. Potremmo sottoscrivere quanto sostiene l’allievo di Paul Ricoeur, Philippe Secretan: “Il senso è la relazione di co-nascita/conoscenza (co-naissance) attraverso la quale il mondo diventa umano e l’essere umano familiare con il mondo”. Per via formativa e co-formativa, che è via pratica di esercizio di convivialità, si apprende l’umano, e la nonviolenza.
Preadolescenti e soprattutto adolescenti protagonisti quindi responsabili del loro tempo, del cammino della loro comunità. In una scuola che fa dell’apprendimento-servizio (il service learning per dirla all’inglese) una cultura diffusa, non solo una strategia didattica. E lo affianca a pratiche costanti di tutorato e di educazione tra pari.
Da qualche tempo si sta facendo strada una proposta (vedi gli interventi di Luigi Bobba su Avvenire) di alternanza scuola-servizio civile, rivolta in particolare a ragazzi e ragazze tra i 16 e i 18 anni. Punta a impegnare tutti i giovanissimi che frequentano la scuola superiore e la formazione professionale per almeno due mesi nell’anno, in un servizio volontario e di utilità sociale presso servizi ed enti del terzo settore nel
quadro di politiche e progettualità sociali. Esperienze di educazione civica sul campo: un modo per qualificare e per rafforzare l’appartenenza alla comunità, per coltivare competenze, saperi e sensibilità nel campo dell’organizzazione della convivenza e delle sue istituzioni e servizi.
Esperienze di cittadinanza attiva e matura; esperienze di formazione ed apprendimento; percorsi di tirocinio in équipes di lavoro di ricerca e di promozione sociale.
Una alternanza da inserire nel curriculum delle giovani e dei giovani, con l’acquisizione non solo di crediti formativi ma anche di orientamenti verso la scelta di un Servizio civile europeo da scegliere, maggiorenni, alla conclusione dei percorsi di formazione, con riconoscimento, professionalizzante, svolto nei luoghi della tenuta sociale, della ricerca, della impresa civile, delle organizzazioni non governative, della cura dei beni comuni e di quelli ambientali.
Fasce d’età numericamente minoritarie e più deboli di quelle adulte e anziane potrebbero, così, avere da un lato luoghi di presenza, proposta e pensiero non marginali; potrebbero, poi, in questo modo orientare un mondo dei saperi e dei poteri che è prevalentemente in mano ad over 40/50 verso attenzioni e pensieri di futuro. Verso il rispetto dei cosiddetti “diritti intergenerazionali”.

Sapere è cambiare, cambiare conoscendo. Oggi è importante ritrovarsi arginando solitudini e abbandoni; tenere, grazie alla scuola, ragazze e ragazzi in contatto tra loro. Portarli a star bene con la letteratura, la matematica, l’arte, facendoli uscire, rendendoli protagonisti del capire e del cercare, dello scoprire e dello scegliere. Scoprendo parti di sé per “rimbalzo culturale” come indica Franco Lorenzoni. Ed anche per un lavoro in una comunità di apprendimento che avvia periodicamente percorsi di servizio di alternanza non solo scuola-lavoro ma anche scuola-servizio.

Un luogo, la scuola, in certo modo di “resistenza” umana, di incontro e dialogo dialogale, ma anche di desiderio: desiderare come immaginare insieme, creare, pensare insieme e dedicarsi a ciò che vale. Oggi bambine e ragazze, bambini e ragazzi hanno un grande bisogno di confrontarsi con grandi temi, profondi e difficili, di sostare nelle domande e di approfondire. Non di recuperare contenuti e programmi ma di fare meno e andare in profondità con la riflessione e il confronto. Occorre pensare bene e trovare gli oggetti culturali per questo tempo, scandagliare memorie e patrimoni, da scambiarsi, da indagare. Tutti siamo educati dalla vulnerabilità, da un sapere amante e responsabile, da capacità di tenere coprogettazioni e interazioni aperte e generative.

Il diritto alla crescita, al futuro, alla compagnia tra generazioni vale più del diritto allo studio. Fare sentire il legame tra generazioni e diversità; fare sentire l’aperto del possibile, della vita; fare andare nel profondo delle radici dell’origine, delle realtà; far sentire le consegne ricevute insieme alle capacità: questa l’acqua dell’oasi, necessaria per il cammino.

Esposti, come dice Julia Kristeva, a processi di dis-oggettivazione molte e molti adolescenti derivano verso incapacità di legami, di risonanze dell’incontro con altri, di pensare di lasciare segni insieme ad altri. Forme di un nuovo, profondo e silenzioso nichilismo.
L’incontro reale e forte con la diversità adulta con quella di coetanei delle vite senza riparo ed esposte può provocare, anche a scuola un benefico “urto” con il tempo presente, con il tempo altro, con sogni incastonati nelle memorie, e immaginazioni di futuro. Urto e pratica di parole, scelte, sperimentazioni di “inattualità” e creativo anacronismo, di partecipazione, dedizione, senso di consegne ricevute. Essere a cuore e, criticamente, a distanza dal proprio tempo.
Vi sono, poi, questioni aperte dell’umano che, di generazione in generazione, scavano e riconfigurano l’umano stesso perché lì si sente, insieme, il vuoto e l’aperto, l’appoggio e il mistero. Realtà e questioni non “saturabili” con il definire, lo sciogliere spiegazioni, il prendere controllo con concetti e formalizzazioni, lo specialismo delle riduzioni. Di generazione in generazione ci si ritrova a confrontarsi, ad incontrare, a vivere la realtà e la questione delle sofferenze, del dolore e della morte. E ci si trova a sentire la forza e la tenerezza delicatissima del dono, della cura e dell’more. Questioni, queste, sui confini delle quali si segnano le ferite della distanza e dell’abbandono e le fioriture del per dono e dell’offerta. “Insaturabile” è anche la realtà, e la questione, della bellezza, della danza e del cantico della natura, vivente e inorganica. E lo è pure la meraviglia
del nascente e di ogni inizio, l’aprirsi di a venire in ogni rigenerazione.

Incontrarsi, tra generazioni, “facendo” l’esperienza della scuola, in momenti riflessivi e  di ascolto, di parola, di silenzio, di visone attorno all’insaturabile può permettere di attrezzarsi a stare nella vulnerabile nudità dell’umano, e di resistere quando il tempo erode il sentire fino all’anestesia e sfilaccia le relazioni nello scetticismo cinico e nella sfiducia. Maria Zambrano parla di momenti in cui occorre “trovare la misura del
proprio esistere (…) la direzione e il ritmo del proprio camminare nel tempo”.
Scrive Francesco, papa, del bisogno “di una rinnovata stagione di impegno educativo, che coinvolga tutte le componenti della società, poiché l’educazione è il naturale antidoto alla cultura individualistica, che a volte degenera in vero e proprio culto dell’io e nel primato dell’indifferenza. Il nostro futuro non può essere la divisione, l’impoverimento delle facoltà di pensiero e d’immaginazione, di ascolto e di dialogo, di mutua comprensione”. (Discorso al Corpo Diplomatico – marzo 2021) Chi fa scuola  oggi assume una precisa responsabilità – sia verso una memoria, una storia, soprattutto verso un futuro di altri: della generazione, che assume il proprio compito di sviluppo, e proverà a “rimettere al mondo il mondo” usando un’espressione di Maria Zambrano.
Porre al centro la questione generazionale, riscoprendo che educare è sempre accompagnare ad immaginare e ad aprire un futuro possibile, nel quale sapere scegliere tra possibile e possibile, è entrare in un radicale cambio di paradigma. Non più un impegno, rivolto a singoli, di una trasmissione di saperi e strumenti, di abilità e competenze per entrare in una dinamica di soci che condividono interessi, innovano, si confrontano e competono, che conquistano spazi di autodeterminazione, di potere, di ricchezza e di fruizione, e affermano e contendono diritti. Bensì un impegno nuovo (e antico) volto a promuovere riconoscimento e legame, relazione e interazione tra sguardi, saperi e competenze in un orizzonte fraterno e per un orizzonte di vita comune, di vita messa in comune. Riscoprendo memorie cariche di sogni di coltivazione e di giustizia, saperi e patrimoni simbolici capaci di incontro e di dignità della differenza, pratiche e riconoscimenti di diritti nati da obbligazioni e destinazioni.
Segni del bisogno, ora primario, di una amicizia sociale capace di assumere e attraversare conflitti, sofferte ricomposizioni e rigenerazioni di legame; oltre che di offerte di futuro. Bisogno verso cui si vanno orientando filoni di ricerca delle scienze umane e sociali. Bisogno espresso da arti e filosofia. Ricerca che può ben trovare riverberi in un lavoro educativo e formativo al cuore di comunità in cui pulsa ormai il mondo intero: con il senso umile e concreto dell’artigianalità, la necessità di riscoperte continue. Da svolgere mentre le comunità speriamo vivano una stagione di generosità che è anche perdono, di ricostruzione quotidiana del legame in “oasi di fraternità” (come le chiama Morin nell’ultimo libro) dove dissetarsi, un po’ sostare per poi continuare cammini.
Una scuola come oasi, e come soglia di presidio di fronte al rischio di una catastrofe educativa. Quella che travolgerà anche la scuola se questa resta incastonata nei palazzi della cultura individualista e securitaria, delle chiusure identitarie e della formazione dei funzionari della economia della spoliazione e dello scarto, della prestazione e del successo. Ci vuole visione lucida, saldezza dei criteri di riferimento, volontà politica precisa, specie attorno ai temi della diversità e della vulnerabilità: circa l’impegno della composizione e dell’incontro delle diversità, circa l’attenzione e l’interdipendenza tra capacità e vulnerabilità.
In un periodo come questo il luogo educativo è un “attendamento” in cui si pratica e si immagina un futuro buono e abitabile. Se non ci sono luoghi in cui si fa pratica dell’immaginazione di futuri, davvero è catastrofe educativa.
La catastrofe educativa è l’incapacità profonda di assumere la prospettiva “di generazione in generazione”, che è il vero spazio della libertà. Educare è sempre assunzione necessaria del limite, la delimitazione della presa/pretesa sul presente per lasciare aperte possibilità di futuro, per non consumare tutto il presente e non imparare a calcolare solo sulle prospettive a breve termine. Ormai abbiamo raggiunto il limite estremo di consumo del pianeta, delle possibilità di presentificazione di tutto. Bisogna riprendere la capacità generativa, di andare oltre, di “traboccare”. Questa è una parola che papa Francesco usa spesso: desborde, traboccamento, generosità.
In una scuola c’è sempre un traboccamento verso il futuro, si reimmaginano sempre cose nuove. Come quando nasce un bambino si torna alla prima settimana del mondo, anche quando si educa e si insegnano i linguaggi, le tecniche, i saperi della tradizione è come se li si riprovasse da capo nella loro capacità di dire il mondo, di trasfomarlo e di condividerlo. A volte nella scuola questo è perso e ci si concentra solo sul linguaggio, la tecnica, l’apprendimento e sulla capacità di farne prestazioni: questa apre alla catastrofe educativa.

La scuola come dovrebbe assumere questa sfida? Da tanti anni la scuola si vive in rincorsa rispetto alla velocità del modificarsi delle tecnologie e del mondo lavoro. La scuola, invece, deve essere anticipo, luogo collocato sull’orizzonte: come una bandiera continuamente spostata sull’orizzonte in cui tutte le memorie e le consegne del passato vengono praticate immaginandone una funzione futura, buona, fraterna. Bisogna
ripensare la scuola non in rincorsa ma in avanti, come annuncio. Quando tu insegni una disciplina a scuola ne insegni le grandi possibilità di trasformazione del mondo, non insegni la disciplina come esercizio di misurazione o di potere. Pensiamo, poi, a quanti bambini e adolescenti nel mondo crescono in situazioni di guerra, di incertezza, di uso autoritario della forza, senza adulti che di loro abbiano cura. Il mondo è pieno di
minori non accompagnati e di adulti sopraffatti da problemi di sopravvivenza che non possono accompagnarli. Ci sono anche adulti che li sfruttano e li usano, non se ne curano per giochi del potere e di economia che sfigurano l’umano e la vita del pianeta.
Educare in oasi come la scuola, in cui respira il mondo ed il futuro, non la particolarità che prepara al conflitto distruttivo, e vedere l’altro come nemico e minaccia, decostruendo il nemico, facendo abitare l’altro presso di sé e abitando l’orizzonte dell’altro: è ricerca e fatica, ma è anche compito adulto, di presidio, scoperta e impegno di pace e bellezza.