Ex Ilva: “Draghi risponde alla crisi dell’acciaio, ma lo Stato non può continuare a essere la bad bank di Arcelormittal”. Intervista a Giuseppe Sabella

Mentre gli operai della ex Ilva scioperano a sostegno del collega licenziato per il post su facebook e per una situazione sempre più insostenibile, con un comunicato congiunto firmato da Fincantieri, ArcelorMittal e Paul Wurth Italia si è resa nota la sottoscrizione di un memorandum d’intesa per la realizzazione di un progetto finalizzato alla riconversione del ciclo integrale esistente dell’acciaieria di Taranto secondo tecnologie ecologicamente compatibili, in attesa del perfezionamento degli accordi di dicembre 2020. Cosa sta succedendo attorno alla ex Ilva? Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella che segue dall’inizio la vicenda.

Sabella, questo Memorandum d’intesa si presenta come una cosa interessante. Resta tuttavia da capire quali siano le prospettive del polo siderurgico di Taranto. Lei cosa ne pensa?
La sensazione è che questa intesa sia indirettamente provocata da quello che il governo ha in mente circa il dossier Ilva. Tra pochi giorni sarà composto il nuovo consiglio di amministrazione della società AMI (ArcelorMittal Italia) – per il quale si è fatto il nome di Franco Bernabè – in virtù della finalizzazione delle intese di dicembre 2020. In questa vicenda, che è una delle grandi patologie del sistema Italia, l’unica svolta possibile può essere dettata da una volontà politica forte e chiara negli obiettivi. Può essere che, da questo punto di vista, il governo Draghi sia l’occasione giusta, considerando anche l’opportunità dei fondi europei che sono finalizzati proprio al rilancio delle nostre filiere produttive.

Da questo punto di vista la comunicazione di Mittal, Fincantieri e Paul Wurth ci dice qualcosa?
Si, ci dice qualcosa. Teniamo presente che un paio di mesi fa Danieli, Leonardo e Saipem firmavano un accordo quadro per proporsi assieme in progetti di riconversione sostenibile di impianti nel settore siderurgico, sia in Italia, in particolare nel mezzogiorno, sia all’estero. Il fatto che questi tre importanti player industriali mandassero qualche segnale del tipo “siamo disponibili a occuparci della ex Ilva” ha evidentemente mosso le acque. È probabile che la stessa Mittal sia stata sollecitata, capendo che il governo ha un’alternativa alla società franco-indiana. Inoltre, il 13 maggio vi è l’udienza in Consiglio di stato circa lo stop degli impianti (che è momentaneamente stato sospeso). Dare una svolta alla ex Ilva è necessario, anche in ragione del fatto che si sta aprendo una nuova fase per l’industria europea e la siderurgia italiana in questa partita ha molto da guadagnare.

Almeno sulla carta, come le sembra questa intesa tra Mittal, Fincantieri e Paul Wurth?
Mi sembra buona. L’accordo prevede l’implementazione di nuove tecnologie per migliorare l’impatto ambientale oltre all’individuazione di progetti innovativi per il contenimento delle emissioni. Inoltre, la presenza di Fincantieri significa sviluppo della produzione di acciaio per navi e grandi infrastrutture. Le idee chiare sono fondamentali per la riuscita dei progetti, poi vi è tutta la complessità di farle funzionare. Vedremo, ovviamente dobbiamo sperare nel successo di questa operazione perché, giusto per dare un numero, Ilva vale l’1% del nostro pil.

Dal punto di vista della produzione e del lavoro, com’è la situazione nella ex ilva?
L’anno scorso sono stati prodotti circa 3,5 milioni di tonnellate di acciaio, è il minimo storico. È vero anche che il 2020 è stata un’annata particolare, tra lockdown, crollo della produzione industriale e crisi dell’auto (meno 25% di immatricolazioni in UE). Attualmente la produzione viaggia al piccolo trotto e la cassa integrazione è estesa a tutto il personale fino a giugno, seppur in misure diverse a seconda dei reparti. In sintesi: l’economia va verso la ripresa come ci dice l’Ocse (e anche FMI): per l’Italia la crescita nel 2021 si stima attorno al +4,1% ed è superiore alla Germania (+3%) e alla media europea (+3,9%). È chiaro che è la manifattura a trainare questa crescita e l’acciaio ne è il cuore. Servono però idee chiare e, se fossi al posto di Draghi, cercherei di rinegoziare gli impegni che il governo Conte ha preso con ArcelorMittal, per quanto non sia semplice.

In che senso rinegozierebbe gli accordi tra governo italiano e ArcelorMittal per la ex Ilva?
Lo stato non può continuare a essere la bad bank dei grossi player e l’unico modo per contenere questo stillicidio di risorse è quello di condividere piani industriali con competenza e con politiche di innovazione. È questa l’unica strada per dare competitività all’industria, non ce n’è un’altra. Perché USA e Cina nel triennio che ha preceduto la crisi hanno continuato a crescere e l’Europa si è fermata? Perché l’industria europea ha un deficit di innovazione: ad esempio, l’85% di investimenti in intelligenza artificiale è stato realizzato in imprese americane e cinesi. Ora: mi piacerebbe molto che il governo Draghi condividesse finalmente con ArcelorMittal un innovativo piano di rilancio che porti la ex Ilva sulla strada della sostenibilità che significa in particolare decarbonizzazione. E, soprattutto, vorrei che governo rivedesse la sua partecipazione azionaria nell’assetto societario di AMI. Questa presenza massiccia dello stato nel capitale di AMI non ha nessuna utilità se non quella di alleggerire sempre di più l’impegno da parte dell’azienda, soprattutto se nel 2022 – quando scadranno i termini dell’affitto degli impianti e AMI ne diverrà proprietaria – la nuova società partecipata da Invitalia dovrebbe vedere il soggetto pubblico crescere le sue quote fino al 60%. Questo secondo me è molto sbagliato e pericoloso.

È il livello della presenza dello stato in AMI che la preoccupa o è in disaccordo in toto sulla partecipazione azionaria?
No, non sono in disaccordo in toto. Anche se preferirei che operazioni come questa siano finalizzate a far crescere aziende strategiche, ad esempio come ben fanno i francesi e come in qualche caso abbiamo fatto anche noi, per esempio con Eni, Fincantieri e Leonardo. Per intenderci, il signor Mittal non ha bisogno dei nostri soldi. Trovo tuttavia sbagliata e pericolosa questa massiccia partecipazione perché a questo punto mi chiedo quale sia l’interesse del privato. Quando il privato vede business, non vuole la partecipazione del pubblico, se non in minima parte. Cosa vede Mittal dentro questa alleanza che, secondo Arcuri, arriverà al 60%? E poi, non abbiamo manager pubblici oggi con competenze così sofisticate. L’industria, per via della digitalizzazione dei processi, ha raggiunto livelli di complessità altissimi che già il privato fatica a gestire. Lo vediamo con la vicenda Alitalia: è chiaro che se da 10 anni la compagnia di bandiera presenta questa patologia è perché non abbiamo competenze per sviluppare il trasporto aereo. E anche in questo caso: o si trovano queste competenze o non c’è alternativa al fallimento.