
Enrico Letta (Ansa)
Enrico Letta è da pochi mesi Segretario Nazionale del Pd. Come si sta muovendo?
Quali sono i suoi obiettivi? Ne parliamo, in questa intervista, con Fabio Martini
inviato e cronista parlamentare del quotidiano La Stampa.
Fabio Martini, negli ultimi giorni ha fatto molto discutere la proposta di Enrico
Letta, segretario del PD, di dotare di un sussidio i giovani meno fortunati, da
finanziare con aumento di aliquota della tassa di successione per i redditi
milionari. Per alcuni settori di opinione pubblica la proposta, dati i tempi, è
scellerata. Eppure in altre democrazie occidentali, penso a Usa, Francia e
Germania, si torna a parlare, ma nel caso degli Usa è diventato un atto di
governo, di tassare grandi eredità e patrimoni multimilionari per aiutare la
ripresa, senza gridare al complotto neocomunista. Non trovi che quello di
Letta sia una battaglia di redistribuzione giusta? Oppure è stato un errore?
«La valutazione se sia un battaglia giusta o sbagliata, la faranno gli elettori. Si può
invece valutare se sia una proposta fondata, realizzabile, potenzialmente utile. Noi
sappiamo, ma forse una parte dell’opinione pubblica ancora non l’ha capito, che
assieme alla fase acuta della pandemia sta per finire anche la stagione della spesa
pubblica a pie’ di lista e bisognerà tornare a produrre più ricchezza “reale” e a
distribuirla nel modo migliore. La proposta di tassare le eredità dei super-ricchi
anticipa i tempi: dunque è potenzialmente utile. Fondata? Gli esempi che vengono dai
Paesi più evoluti dell’Occidente – Germania, Francia, Regno Unito, Stati Uniti – ci
dicono che la proposta è fondata. Realizzabile? Lo sarebbe dentro una riforma fiscale
più generale. Sull’utilizzo invece delle risorse (la dote da regalare al 50% dei
diciottenni e dunque anche a ragazzi abbienti), i requisiti di fondatezza, realizzabilità
e utilità diventano più controversi».

Fabio Martini (Contrasto)
Sappiamo la reazione della destra, alla proposta di Letta, è stata duramente
contraria. I renziani, con Rosato, addirittura hanno parlato di una proposta che
alimenta il conflitto tra ricchi e poveri. Ha sorpreso, per la modalità, la reazione
quella del Presidente del Consiglio. Ma lo stesso Draghi non aveva parlato di
progressività fiscale? Cosa non ha gradito?
«Da quel che trapela, Draghi ha considerato la proposta estemporanea, a lui
comunicata in “zona Cesarini” e inopportunamente diffusa da Letta nelle stesse ore
nelle quali il governo varava una manovra imponente da 40 miliardi, nella quale il Pd
ha avuto la sua parte».
Pensi che il rapporto tra Letta e Draghi sia sdrucito?
«Assolutamente no. Ma nelle ultime settimane si sono capite due cose: da una parte, i
partiti devono imparare a rapportarsi meglio con un capo del governo obiettivamente
di una levatura superiore a quella media della politica dei partiti, ma dall’altra anche
il presidente del Consiglio deve calibrare le sue reazioni: leader come Letta, o come
Salvini, hanno tutto il diritto di avanzare proposte e d’altra parte è parsa originale
anche l’aspettativa da parte di Draghi di mettere la sordina sul dibattito pubblico sulla
successione al Quirinale».
Torniamo ad Enrico Letta. Lui si sta battendo per ridare spessore al Pd. La
parola spessore indica identità. Paradossalmente un PD più a sinistra di
Zingaretti. È esagerata l’affermazione?
«Gli indizi ci sono. Letta – personaggio notoriamente lontano dalla tradizione post-
comunista dei D’Alema, Bersani e Zingaretti – sta provando a ricostruire il palinsesto
di un partito tradizionale, quello che una volta Pier Luigi Bersani definì “la ditta”. Ha
svolto un inedito referendum tra i Circoli, ha varato in tempi stretti una
tradizionalissima Segreteria, ha lanciato una campagna per il tesseramento, saranno
presto presentate una “Radio Pd”, un’Università democratica e le Agorà del Pd,
occasioni collettive nelle quali Letta intende attrarre aree un tempo vicine e che ora si
sono demotivate: intellettuali e associazionismo impegnato. Ma la scommessa più
impegnativa è capire se saprà ricostruire un senso e una missione ad una forza di
sinistra che sappia interpretare non soltanto i garantiti (la base attuale del partito) ma
una parte almeno di coloro che sono ai margini. Se non agli ultimi, quantomeno i
“penultimi”».
Massimo Giannini, sulla Stampa auspicava per la sinistra italiana un Biden
italiano. Un moderato capace di ricostruire un rapporto empatico con lo spirito
profondo dei democratici. Può essere lui, Enrico Letta, che ridà spessore al Pd?
«Il parallelo è centrato perché Biden è sempre stato un “centrista”, come lo è stato
Letta. E d’altra parte Democratici americani e italiani, mutatis mutandis, sono
chiamati a fronteggiare un fenomeno inedito: l’erosione dei propri elettorati da parte
di personalità e parole d’ordine populiste, che hanno mostrato di essere efficaci
contro le paure e nella raccolta del risentimento verso le elites. Con una differenza
fondamentale: i dem usa interpretano una coalizione sociale e “sentimentale” assai
vasta (ceti popolari “bianchi”, neri, middle class urbana, elite intellettuale e dello
spettacolo), mentre il Pd è lontano dalla sofferenza sociale più forte: quella
concentrata al Sud, che ha votato Cinque stelle e si sta spostando a destra. Il Pd
appare troppo “imborghesito” per interpretare una coalizione sociale larga come
quella dei dem Usa e le incursioni a sinistra serviranno a Letta per tenersi su quote
elettorali dignitose».
Il PD doveva essere l’anima del governo. Invece si vede l’anima di Draghi. Si
pone il problema della visibilità. C’è chi lo risolve come fa Salvini, con la tattica
del rialzo continuo, oppure come Renzi (appiattendosi sul premier e cercando, a
volte, la sponda leghista). Come si risolve il problema?
«Difficile coltivare una visibilità di partito dovendo convivere con una personalità
naturalmente carismatica come Mario Draghi. O immaginare di darsi un’identità,
affidandosi a proposte estemporanee. Enrico Letta avrebbe la maturità per conferire
al Pd una proposta politica con un’idea di Paese, un’identità meno generica, dalla
quale estrarre di volta in volta i jolly per tenere botta nella quotidiana battaglia a botte
di tweet. Che senza un background diventa effimera. La sfida di Letta? Saprà dare un
contenuto di sinistra alle battaglia ineludibile – quella per la competitività del
sistema-Italia – che serve per rimettere in piedi un Paese paralizzato da 20 anni?»
Per un partito di sinistra il banco di prova strategico sarà la fine della proroga
dei licenziamenti. Con gli annessi e i connessi. C’è consapevolezza di questo?
«Questione seria e angosciosa per migliaia di lavoratori, della quale si sono fatti
carico il sindacato e il Pd al governo. A settembre si faranno i conti e si verificherà se la “fame” di ripresa consentirà alle riprese di tenere più lavoratori possibile. Ma se il blocco dei licenziamenti aiuta sul breve chi lavora, ad libitum fiacca le imprese e può rivelarsi un boomerang. La soluzione, anche in questo caso, è nelle mani del Pd: spetta al ministro del Lavoro Orlando ridisegnare i nuovi ammortizzatori sociali».
A questo riguardo non pensi che Letta dovrebbe temere di più il populismo radicale della Meloni?
«E’ vero. Apparentemente non ci dovrebbero essere punti di contatti tra elettorati
così diversi. Ma Meloni, unica forza, di opposizione pesca ovunque. Anche per
questo ricostituire un’identità forte aiuterebbe la leadership pd a tenere botta meglio di quanto non accada ora»
Per ora la Pax interna al PD dura. Fino a quando durerà?
«Il Pd da più di tre anni vive una pace interna mai registrata prima. Una pace fondata sul principio del “quieta non movere”: i principali notabili garantiscono appoggio ai leader. chiedendogli di conservare assetti e posizioni in cambio di una relativa libertà di movimento politico. Se nelle cinque città più importanti dove si voterà il 20 settembre, i dem manterranno o andranno oltre i due sindaci già in dote, i notabili saranno rassicurati sul proprio personale futuro. E dunque Letta non solo continuerà a governare senza patemi , ma potrà dispiegare la propria impronta. Altrimenti partirà il logoramento».
Ultima domanda in realtà sarebbe la prima, ma hegelianamente la prima
contiene anche l’ultima. Come è il bilancio di questi mesi lettiani?
«Bilancio nitido, facilmente leggibile. Una partenza col turbo: imporre il cambio dei capigruppo conteneva un messaggio implicito: cari notabili e cari elettori, l’Enrico che sta sempre sereno non esiste più. Poi il “nuovo” Letta si è dovuto misurare con due realità poco conosciute al “grande pubblico”. Una macchina partito inceppata da 7 anni di non-governo da parte degli ultimi segretari e realtà locali – Torino, Roma, Napoli, Bologna – dove prosperano indisturbate camarille notabilari, insensibili al “bene comune”. Oltretutto, per stare al passo col “rullo” dei tweet, è capitato a Letta di snaturarsi. Come nel caso del suo appoggio a Fedez. Alla vigilia del traguardo dei primi 80 giorni da segretario, Letta sa di dover vigilare su un pericolo: quello di completare il suo “giro del mondo in 80 giorni”, ritrovandosi al punto di partenza».