“La scommessa più impegnativa per Letta è quella di dare credibilità ad un PD di sinistra”. Intervista a Fabio Martini

Enrico Letta (Ansa)

 

 

Enrico Letta è da pochi mesi Segretario Nazionale del Pd. Come si sta muovendo?
Quali sono i suoi obiettivi? Ne parliamo, in questa intervista, con Fabio Martini
inviato e cronista parlamentare del quotidiano La Stampa.

Fabio Martini, negli ultimi giorni ha fatto molto discutere la proposta di Enrico
Letta, segretario del PD, di dotare di un sussidio i giovani meno fortunati, da
finanziare con aumento di aliquota della tassa di successione per i redditi
milionari. Per alcuni settori di opinione pubblica la proposta, dati i tempi, è
scellerata. Eppure in altre democrazie occidentali, penso a Usa, Francia e
Germania, si torna a parlare, ma nel caso degli Usa è diventato un atto di
governo, di tassare grandi eredità e patrimoni multimilionari per aiutare la
ripresa, senza gridare al complotto neocomunista. Non trovi che quello di
Letta sia una battaglia di redistribuzione giusta? Oppure è stato un errore?
«La valutazione se sia un battaglia giusta o sbagliata, la faranno gli elettori. Si può
invece valutare se sia una proposta fondata, realizzabile, potenzialmente utile.  Noi
sappiamo, ma forse una parte dell’opinione pubblica ancora non l’ha capito, che
assieme alla fase acuta della pandemia sta per finire anche la stagione della spesa
pubblica a pie’ di lista e bisognerà tornare a produrre più ricchezza “reale” e a
distribuirla nel modo migliore. La proposta di tassare le eredità dei super-ricchi
anticipa i tempi: dunque è potenzialmente utile. Fondata? Gli esempi che vengono dai
Paesi più evoluti dell’Occidente – Germania, Francia, Regno Unito, Stati Uniti – ci
dicono che la proposta è fondata. Realizzabile? Lo sarebbe dentro una riforma fiscale
più generale. Sull’utilizzo invece delle risorse (la dote da regalare al 50% dei
diciottenni e dunque anche a ragazzi abbienti), i requisiti di fondatezza, realizzabilità
e utilità diventano più controversi».

 

Fabio Martini (Contrasto)

Sappiamo la reazione della destra, alla proposta di Letta, è stata duramente
contraria. I renziani, con Rosato, addirittura hanno parlato di una proposta che
alimenta il conflitto tra ricchi e poveri. Ha sorpreso, per la modalità, la reazione
quella del Presidente del Consiglio. Ma lo stesso Draghi non aveva parlato di
progressività fiscale? Cosa non ha gradito?
«Da quel che trapela, Draghi ha considerato la proposta estemporanea, a lui
comunicata in “zona Cesarini” e inopportunamente diffusa da Letta nelle stesse ore
nelle quali il governo varava una manovra imponente da 40 miliardi, nella quale il Pd
ha avuto la sua parte».

 

Pensi che il rapporto tra Letta e Draghi sia sdrucito? 
«Assolutamente no. Ma nelle ultime settimane si sono capite due cose: da una parte, i
partiti devono imparare a rapportarsi meglio con un capo del governo obiettivamente
di una levatura superiore a quella media della politica dei partiti, ma dall’altra anche
il presidente del Consiglio deve calibrare le sue reazioni: leader come Letta, o come
Salvini, hanno tutto il diritto di avanzare proposte e d’altra parte è parsa originale
anche l’aspettativa da parte di Draghi di mettere la sordina sul dibattito pubblico sulla
successione al Quirinale».

Torniamo ad Enrico Letta. Lui si sta battendo per ridare spessore al Pd. La
parola spessore indica identità. Paradossalmente un PD più a sinistra di
Zingaretti. È esagerata l’affermazione?
«Gli indizi ci sono. Letta – personaggio notoriamente lontano dalla tradizione post-
comunista dei D’Alema, Bersani e Zingaretti – sta provando a ricostruire il palinsesto
di un partito tradizionale, quello che una volta Pier Luigi Bersani definì “la ditta”. Ha
svolto un inedito referendum tra i Circoli, ha varato in tempi stretti una
tradizionalissima Segreteria, ha lanciato una campagna per il tesseramento, saranno
presto presentate una “Radio Pd”, un’Università democratica e le Agorà del Pd,
occasioni collettive nelle quali Letta intende attrarre aree un tempo vicine e che ora si
sono demotivate: intellettuali e  associazionismo impegnato. Ma la scommessa più
impegnativa è capire se saprà ricostruire un senso e una missione ad una forza di
sinistra che sappia interpretare non soltanto i garantiti (la base attuale del partito) ma
una parte almeno di coloro che sono ai margini. Se non agli ultimi, quantomeno i
“penultimi”».

Massimo Giannini, sulla Stampa auspicava per la sinistra italiana un Biden
italiano. Un moderato capace di ricostruire un rapporto empatico con lo spirito
profondo dei democratici. Può essere lui, Enrico Letta, che ridà spessore al Pd?
«Il parallelo è centrato perché Biden è sempre stato un “centrista”, come lo è stato
Letta. E d’altra parte Democratici americani e italiani, mutatis mutandis, sono
chiamati a fronteggiare un fenomeno inedito: l’erosione dei propri elettorati da parte
di personalità e parole d’ordine populiste, che hanno mostrato di essere efficaci
contro le paure e nella raccolta del risentimento verso le elites. Con una differenza
fondamentale: i dem usa interpretano una coalizione sociale e “sentimentale” assai
vasta (ceti popolari “bianchi”, neri, middle class urbana, elite intellettuale e dello
spettacolo), mentre il Pd è lontano dalla sofferenza sociale più forte: quella
concentrata al Sud, che ha votato Cinque stelle e si sta spostando a destra. Il Pd
appare troppo “imborghesito” per interpretare una coalizione sociale larga come
quella dei dem Usa e le incursioni a sinistra serviranno a Letta per tenersi su quote
elettorali dignitose».

Il PD doveva essere l’anima del governo. Invece si vede l’anima di Draghi. Si
pone il problema della visibilità. C’è chi lo risolve come fa Salvini, con la tattica
del rialzo continuo, oppure come Renzi (appiattendosi sul premier e cercando, a
volte, la sponda leghista). Come si risolve il problema?
«Difficile coltivare una visibilità di partito dovendo convivere con una personalità
naturalmente carismatica come Mario Draghi. O immaginare di darsi un’identità,
affidandosi a proposte estemporanee. Enrico Letta avrebbe la maturità per conferire
al Pd una proposta politica con un’idea di Paese, un’identità meno generica, dalla
quale estrarre di volta in volta i jolly per tenere botta nella quotidiana battaglia a botte
di tweet. Che senza un background diventa effimera. La sfida di Letta? Saprà dare un
contenuto di sinistra alle battaglia ineludibile – quella per la competitività del
sistema-Italia – che serve per rimettere in piedi un Paese paralizzato da 20 anni?»

Per un partito di sinistra il banco di prova strategico sarà la fine della proroga
dei licenziamenti. Con gli annessi e i connessi. C’è consapevolezza di questo?
«Questione seria e angosciosa per migliaia di lavoratori, della quale si sono fatti
carico il sindacato e il Pd al governo. A settembre si faranno i conti e si verificherà se la “fame” di ripresa consentirà alle riprese di tenere più lavoratori possibile. Ma se il blocco dei licenziamenti aiuta sul breve chi lavora, ad libitum fiacca le imprese e può rivelarsi un boomerang. La soluzione, anche in questo caso, è nelle mani del Pd: spetta al ministro del Lavoro Orlando ridisegnare i nuovi ammortizzatori sociali».

A questo riguardo non pensi che Letta dovrebbe temere di più il populismo radicale della Meloni?
«E’ vero. Apparentemente non ci dovrebbero essere punti di contatti tra elettorati
così diversi. Ma Meloni, unica forza, di opposizione pesca ovunque. Anche per
questo ricostituire un’identità forte aiuterebbe la leadership pd a tenere botta meglio di quanto non accada ora»

Per ora la Pax interna al PD dura. Fino a quando durerà?
«Il Pd da più di tre anni vive una pace interna mai registrata prima. Una pace fondata sul principio del “quieta non movere”: i principali notabili garantiscono appoggio ai leader. chiedendogli di conservare assetti e posizioni in cambio di una relativa libertà di movimento politico. Se nelle cinque città più importanti dove si voterà il 20 settembre, i dem manterranno o andranno oltre i due sindaci già in dote, i notabili saranno rassicurati sul proprio personale futuro. E dunque Letta non solo continuerà a governare senza patemi , ma potrà dispiegare la propria impronta. Altrimenti partirà il logoramento».


Ultima domanda in realtà sarebbe la prima, ma hegelianamente la prima
contiene anche l’ultima. Come è il bilancio di questi mesi lettiani?

«Bilancio nitido, facilmente leggibile. Una partenza col turbo: imporre il cambio dei capigruppo conteneva un messaggio implicito: cari notabili e cari elettori, l’Enrico che sta sempre sereno non esiste più. Poi il “nuovo” Letta si è dovuto misurare con due realità poco conosciute al “grande pubblico”. Una macchina partito inceppata da 7 anni di non-governo da parte degli ultimi segretari e realtà locali – Torino, Roma, Napoli, Bologna – dove prosperano indisturbate camarille notabilari, insensibili al “bene comune”. Oltretutto, per stare al passo col “rullo” dei tweet, è capitato a Letta di snaturarsi. Come nel caso del suo appoggio a Fedez. Alla vigilia del traguardo dei primi 80 giorni da segretario, Letta sa di dover vigilare su un pericolo: quello di completare il suo “giro del mondo in 80 giorni”, ritrovandosi al punto di partenza».

Quali sono le sfide in Israele aperte dalla guerra con Hamas? Intervista ad Ariel David

Benjamin Netanyahu (AP Photo/Sebastian Scheiner, Pool)

Benjamin Netanyahu (AP Photo/Sebastian Scheiner, Pool)

Ariel David

Ariel David

Fonti internazionali affermano che la tregua sia imminente. Intanto  continuano i lanci di razzi e i bombardamenti. Con Ariel David, giornalista italo-israeliano, che vive a Tel Aviv e collabora col quotidiano Haaretz, facciamo il punto della situazione.  

Ariel, anche ieri sono andati avanti bombardamenti e lanci di razzi (anche dal confine con il Libano). Una catena di violenza fatta di reazioni e contro reazioni che produce distruzione e dolore. Gaza è allo stremo. L’obiettivo è dare una “lezione dura ad Hamas”, Netanyahu è andato oltre? Cosa vuole ancora?
Non dimentichiamo che ci sono due attori principali in questa tragedia, Hamas e il governo Netanyahu, ed entrambi hanno degli obiettivi e agiscono per raggiungerli – spesso ad un costo molto pesante per la propria gente. Hamas è entrata prepotentemente nell’escalation inizialmente focalizzata su Gerusalemme per riproporsi come leader della causa palestinese rispetto all’Autorità Nazionale Palestinese, soprattutto dopo l’ennesima cancellazione delle elezioni da parte del presidente Abu Mazen. In altre parole, non potendo prendere il potere con il voto, Hamas usa le armi per presentarsi come l’unica vera forza capace di portare avanti la lotta palestinese e guidare la “resistenza” contro Israele. In questi giorni, Hamas sta raggiungendo questo obiettivo strategico, dimostrando di poter continuare a lanciare razzi, colpire civili e soldati israeliani e paralizzare buona parte dello Stato ebraico malgrado gli intensi bombardamenti israeliani. Se si capisce questo, si capisce specularmente anche che cosa “vuole ancora” Netanyahu e perché non sia particolarmente pronto a un cessate il fuoco. Il premier israeliano cerca una qualche vittoria che possa spendere politicamente, soprattutto in vista dell’ormai probabile ritorno alle urne in Israele (per la quinta volta in due anni). Come in passato, gli obiettivi israeliani in questi conflitti con Gaza sono piuttosto limitati e confinati al piano tattico: ristabilire la deterrenza nei confronti di Hamas, limitare la sua capacità offensiva, colpire i suoi vertici, militanti e scorte di missili. Si potrebbe parlare a lungo della mancanza da parte di Israele di una visione strategica e di lungo periodo sul problema di Gaza, ma sta di fatto che Netanyahu non può nemmeno vantare di aver raggiunto questi obiettivi tattici limitati, dal momento che Hamas continua a lanciare centinaia di razzi al giorno contro la popolazione civile israeliana. Netanyahu quindi spinge l’esercito a colpire Hamas ancora più duramente e ad allargare il suo raggio d’azione, il che però ovviamente aumenta il numero dei morti tra i civili palestinesi – o per errore o perché si vanno a colpire obiettivi che Hamas ha profondamente integrato nel tessuto urbano di Gaza. Alcune fonti governative riferiscono che Netanyahu vorrebbe legare il cessate il fuoco alla restituzione di due cittadini israeliani tenuti prigionieri da Hamas e dei resti di due soldati catturati e uccisi durante il conflitto del 2014. Se riuscisse in questo intento, sarebbe una vittoria politica significativa per il premier agli occhi del suo elettorato.

Ma è vero che Netanyahu sta pensando a una nuova annessione di Gaza? Propaganda? 
Probabilmente si tratta di pura retorica. Hamas non vede l’ora di avere a portata di mano soldati israeliani da rapire o uccidere, e rioccupare Gaza avrebbe un costo enorme in termini di vite da entrambe le parti. Netanyahu lo sa e sa anche che la società israeliana non è disposta a pagare questo prezzo in termine di vite di soldati, soprattutto quando, come dicevo prima, non c’è alcun orizzonte di lungo periodo per una soluzione della questione di Gaza – e men che meno del conflitto più ampio con i palestinesi. Al contrario che in passato, anche tra gli esponenti della destra israeliana non ho sentito inviti particolarmente forti alla rioccupazione di Gaza, e non credo ci sia la volontà di condurre una simile operazione anche da parte dei vertici dell’esercito.

Sul quadro politico israeliano che ricaduta avrà?
Dipenderà dagli esiti dello scontro. Nell’immediato Netanyahu sta beneficiando della situazione, perché l’escalation di violenza ha messo fine ai negoziati per la formazione di un governo da parte dell’opposizione che avrebbe dovuto includere anche uno dei partiti che rappresentano la minoranza arabo-israeliana. Allo stesso tempo, Netanyahu sta ora intessendo nuovi contatti con parti dell’opposizione, soprattutto i suoi ex alleati di destra Gideon Saar e Naftali Bennett, sperando di convincerli a formare un governo in nome dell’emergenza nazionale. Resta da vedere se riuscirà nel suo intento, o se nelle more di un cessate il fuoco l’opposizione guidata dal moderato Yair Lapid avrà un’altra chance per ricompatterei il fronte anti-Netanyahu o se lo stallo politico che attanaglia Israele da due anni proseguirà e il Paese andrà di nuovo alle urne.

La comunità internazionale si è mossa colpevolmente in ritardo. Si parla di una tregua imminente. Cosa deve accadere per arrivare ad una tregua si spera stabile?
Come hai detto, la comunità internazionale si è mossa lentamente, complice forse il crescente disinteresse per questione israelo-palestinese e la sfida globale posta dalla pandemia di Covid 19. Per raggiungere una tregua saranno ora decisive le pressioni degli Stati Uniti su Israele e di Egitto e Qatar su Hamas (ricordiamo che il Qatar, con il consenso di Israele, trasferisce a Gaza milioni di dollari ogni anno per il pagamento degli stipendi agli impiegati del regime di Hamas nella Striscia).

Parliamo degli effetti sociali  di questo conflitto. Sappiamo che dopo i fatti del quartiere di Gerusalemme est, sono scoppiate violenze tra ebrei israeliani e arabi israeliani. In particolare  nelle città di Lod, Akko, Haifa, Giaffa e TEL Aviv. Per non dire della situazione di Gerusalemme Est. Insomma la società Israeliana rischia di pagare a caro prezzo questo conflitto?
La violenza inter-etnica all’interno di Israele è l’elemento di grande novità di questo round del conflitto. La maggior parte degli israeliani con cui ho parlato sono molto più preoccupati da questo sviluppo che dall’intensità senza precedenti dei bombardamenti di Hamas. La sorpresa è dovuta in parte al fatto che negli ultimi anni i palestinesi con cittadinanza israeliana (cioè quelli che vivono all’interno di Israele e non in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, e che costituiscono circa il 20 percento della popolazione del Paese) hanno dato segnali di una volontà di integrazione nella società israeliana, partecipando maggiormente alle elezioni, alla politica e ad altri aspetti della vita democratica del Paese, e con diversi sondaggi che hanno mostrato come più della metà degli arabi-israeliani si dice “fiero di essere israeliano”. Pertanto in molti si sono sorpresi quando le tensioni a Gerusalemme (non certo le prime nell’ambito conflitto israelo- palestiniese) hanno scatenato dei veri e proprio “pogrom” nelle città e nei quartieri a popolazione mista. Luoghi dove c’era una convivenza magari difficile ma comunque possibile hanno visto sinagoghe bruciate, cimiteri profanati, attività economiche distrutte e linciaggi di ebrei per le strade. L’estrema destra israeliana, per parte sua, non ha mancato di gettare benzina sul fuoco, attuando gli stessi metodi nei confronti di cittadini arabi, le loro attività e luoghi di culto. Ci vorrà molto tempo per riparare le ferite sociali di questi scontri e molti qui si interrogano sulle cause di questa impennata di violenza. Forse l’integrazione di questa minoranza, spesso discriminata ed economicamente svantaggiata, non è stata abbastanza rapida. Forse ci sono elementi all’interno della comunità arabo- israeliana, tutt’altro che monolitica, che non vedono di buon occhio proprio questa tendenza verso l’integrazione. Si pensi per esempio al fatto che Mansour Abbas, leader della Lista Araba Unita (uno dei partiti che doveva entrare nel nuovo governo anti- Netanyahu) ha visitato le sinagoghe distrutte di Lod e ha condannato i disordini che sono avvenuti nella cittadina e nel resto del Paese. Per tutta risposta, Abbas è stato attaccato da una folta ala del suo stesso partito, che lo ha invitato alle dimissioni. Insomma, anche fra gli arabi-israeliani ci sono forti divisioni, e la vera sfida per Israele è ora quella di recuperare il rapporto con la maggioranza silenziosa di questa comunità che è favore della convivenza.

Ci sono tentativi di pacificazione sociale? Gli uomini del dialogo (intellettuali) cosa stanno facendo?
Parto dall’editoriale di mercoledì su Haaretz, giornale per cui scrivo, che titola semplicemente “Enough” – Basta. È un invito esplicito ad addivenire a un cessate il fuoco prima che l’operazione militare “causi ancora più morti e distruzione. La sua prosecuzione non offrirà alcun vantaggio, sicuramente non per Israele, ma alimenterà solo la paura, l’odio, l’umiliazione e la sete di vendetta.” Simili appelli sono arrivati da intellettuali e gente comune, e sono state numerose le manifestazioni congiunte di ebrei e arabi a Gerusalemme, Jaffa e nelle altre città miste particolarmente colpite dagli scontri etnici. Solitamente, in Israele, nei momenti di guerra cala il sipario sul dibattito politico e il Paese si unisce per appoggiare gli sforzi dell’esercito. Ciò è in parte avvenuto anche in questa crisi, ma ho sentito anche tante voci di israeliani che criticano l’operazione militare e considerano l’ultimo round di violenza come uno scontro che avvantaggia solo Hamas e Netanyahu.

Un tempo, in Israele, c’era un forte movimento pacifista. Che fine ha fatto?
Esiste ancora, ma il Paese si è spostato inesorabilmente a destra, soprattutto tra i giovani. È la generazione che è cresciuta dopo gli Accordi di Oslo o durante la Seconda Intifada, quando gli autobus con cui andavano a scuola venivano fatti saltare in aria dai terroristi suicidi palestinesi, o che ha visto il ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza ricambiato, anno dopo anno, con le piogge di razzi di Hamas. Il resto lo ha fatto lo strapotere politico e ideologico della destra e di Netanyahu, che ha saputo utilizzare e alimentare l’immagine del processo di pace come foriero di morte e terrorismo. Complici anche le divisioni palestinesi tra ANP e Hamas, Netanyahu ha potuto “congelare” il conflitto in uno status-quo che non offre una soluzione definitiva alla questione israelo palestinese ma che, dal punto di vista degli israeliani, ha il vantaggio di mantenere relativamente basso il livello di violenza – se si escludono ovviamente le periodiche fiammate come quella delle ultime settimane. La maggioranza degli israeliani sembra preferire questo stallo precario perché teme che se dovesse ritirarsi dalla Cisgiordania – unilateralmente o a seguito di un accordo di pace – anche questo territorio cadrebbe in mano ad Hamas e diventerebbe una nuova Gaza, solo molto più grande e a pochi chilometri dal cuore del Paese. La sinistra e i moderati sono divisi, hanno perso consensi e non hanno mai veramente trovato una soluzione convincente a questo dilemma scaturito dal fallimento del processo di pace e dalla presa del potere di Hamas a Gaza. Per quanto vi siano ancora forti voci per la pace, buona parte di ciò che rimane del centro-sinistra preferisce focalizzarsi su questioni sociali interne, come il crescente divario tra ricchi e poveri o le accuse di corruzione a Netanyahu, piuttosto che spingere per una ripresa seria dei negoziati con i palestinesi.

Parliamo dei Palestinesi. La loro leadership è debolissima. A chi guardano i palestinesi?
I palestinesi hanno vissuto un processo simile a quello descritto per Israele. Dal loro punto di vista, le vessazioni dell’occupazione militare in Cisgiordania, l’espansione degli insediamenti israeliani nella West Bank, l’isolamento di Gaza e i periodici attacchi israeliani nella Striscia sanciscono il fallimento della politica relativamente moderata dell’ANP e trasformano Hamas sempre di più in un punto di riferimento della causa palestinese. La mancanza di progressi nei negoziati e le mosse israeliane per delegittimare l’ANP (a cui si sono aggiunte quelle degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Trump) non fanno che contribuire all’indebolimento di Abu Mazen e del suo partito Al Fatah. L’annullamento delle elezioni legislative palestinesi, che dovevano tenersi questo mese per la prima volta dal 2006, ha mostrato ancora una volta la debolezza di un’amministrazione già ampiamente percepita come corrotta e inefficace. Oggi i palestinesi, oltre che ad Hamas e alle sue organizzazione alleate, come la Jihad Islamica, guardano a leader di Fatah più giovani. Fra i più popolari ci sono Marwan Barghouti, condannato a diversi ergastoli per il suo coinvolgimento in alcuni attentati suicidi durante la Seconda Intifada, che dal carcere in Israele continuaad esercitare una forte influenza sulla politica palestinese; e Mohammed Dahlan, ex leader di Fatah a Gaza ora in esilio per i suoi contrasti col presidente Abu Mazen. Probabilmente solo l’uscita di scena dell’84enne presidente palestinese creerà un vuoto politico che potrà essere colmato da una nuova leadership.

In che modo le componenti moderate potranno riprendere l’egemonia?
La soluzione dei due stati, malgrado sia oggi molto snobbata da diverse parti politiche a destra e a sinistra (per ragioni diametralmente opposte), rimane l’unica praticabile, ma al momento la sfiducia reciproca tra le parti in conflitto è ai massimi livelli. È anche molto difficile immaginare una risoluzione del conflitto senza prima affrontare quelle forze più ampie in Medio Oriente che su questo conflitto soffiano per i propri interessi: l’Iran, la Siria, l’Hezbollah libanese e la Turchia. Internamente, per Israele sarà molto importante lavorare sul rapporto con gli arabi israeliani, il cui riavvicinamento in anni recenti (salvo gli avvenimenti delle ultime settimane) rappresenta forse l’unica novità positiva nel panorama del conflitto, e questa comunità potrebbe in futuro fungere da modello di convivenza e da ponte fra gli ebrei e i palestinesi.

Gli “accordi di Abramo” sono superati?
Il mondo arabo, e in particolare i Paesi del Golfo, hanno reagito all’attuale round di violenza con la stessa lentezza del resto del mondo. A meno che la crisi non si allarghi drammaticamente o che il ventilato cessate il fuoco tardi particolarmente a materializzarsi non credo che i rapporti tra Israele e i firmatari degli “accordi di Abramo” subiranno danni irreparabili. D’altronde questi accordi non hanno fatto molto altro che formalizzare rapporti ufficiosi che in realtà esistevano già da anni e che avevano già superato simili crisi. Questi accordi sono stati ampiamente, forse anche giustamente, criticati, per la loro natura prettamente economica e la quasi totale mancanza di una  dimensione politica che includesse una risoluzione della questione palestinese. Però,  nel complesso scenario mediorientale, forse si può anche leggere questi accordi come un segnale positivo di un crescente desiderio da parte del mondo arabo di convivere con Israele – un segnale simile e parallelo a quello lanciato internamente dagli arabi israeliani: una rara fonte di speranza in un quadro altrimenti piuttosto desolante.

“Qualsiasi sia il calcolo politico non vale il prezzo di uno solo dei bambini ammazzati a Gaza”. INTERVISTA A PAOLA CARIDI

attacco aereo israeliano su Gaza City (Ansa)

Continua l’operazione militare “Il guardiano delle mura”. L’esercito
israeliano ha lanciato lunedì notte un’altra forte ondata di attacchi aerei
sulla Striscia di Gaza: secondo il bollettino militare sono stati distrutti
altri dei tunnel sotterranei che collegano la Striscia all’Egitto e le case di
nove comandanti di Hamas. Intanto continuano i tardivi sforzi della
diplomazia internazionale per porre fine alla guerra che dura già da una
settimana e ha ucciso centinaia di persone: ma finora i progressi sono
limitati. Ma stando agli ambienti diplomatici statunitensi, nelle prossime
ore, si dovrebbe raggiungere una tregua. Lo speriamo davvero. Per
approfondire questa ennesima guerra mediorientale abbiamo intervistato
la giornalista Paola Caridi, grande esperta di Medioriente. Tra le sue
opere ricordiamo : Gerusalemme senza Dio: ritratto di una città
crudele (Ed. Feltrinelli).

Paola, come sappiamo le radici di questa guerra tra Hamas e il governo di Israele
sono ben più antiche della scellerata decisione, Israeliana, di cacciare i residenti
palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est, per insediare,
usando uno escamotage giuridico, cittadini ebrei. Una colonizzazione del territorio.
Tu affermi: “per capire questo conflitto bisogna capire quello che è successo in
questi ultimi anni a Gerusalemme”. Cosa è successo in questi anni a
Gerusalemme?

Quando tempo abbiamo? Difficile riassumerlo in poche battute. Eppure, le
cancellerie lo sanno, le organizzazioni internazionali lo sanno. Gerusalemme è una
realtà urbana estremamente complessa, almeno dal 1948 in poi. Negli ultimi anni, la
presenza dei coloni israeliani dell’estrema destra religiosa ha reso ancora più
complicata la situazione. Il loro obiettivo dichiarato è di “redimere la terra”, e cioè di
rendere sempre più israeliani i quartieri palestinesi della parte occupata di
Gerusalemme. La parte orientale, che comprende anche la Città Vecchia e i luoghi
santi. La tensione c’è da molti anni, acuita – stavolta – dalla decisione della polizia
israeliana di transennare il cuore della Gerusalemme palestinese, la Porta di
Damasco, durante il ramadan e poi di intervenire con violenza sulla Spianata delle
Moschee. I lacrimogeni e i gas assordanti sparati dalla polizia dentro la Moschea di
Al Aqsa, terzo luogo santo per l’islam globale, hanno fatto il giro del mondo. Alzando
alle stelle la tensione.

Per un attimo vorrei chiederti dell’aspetto simbolico o religioso. Sappiamo quanto
sia importante, in quella terra, il simbolismo religioso. In particolare questo vale per
Gerusalemme. Una città che si basa su un equilibrio simbolico tra le grandi religioni
monoteiste. Non c’è il rischio che questo conflitto metta in discussione questo
equilibrio simbolico?

Per essere precisi, si tratta di un conflitto politico che usa i simboli religiosi. Li abusa
e li dissacra nello stesso tempo. Per essere più precisi, non sono affatto convinta
che sia giusto utilizzare un termine come “conflitto”, che sottende uno scontro tra due soggetti su un piano di parità. Gerusalemme est, per la legalità internazionale e
le risoluzioni ONU, è occupata.

Torniamo al conflitto odierno. Israele continua a rispondere ai lanci missilistici di
Hamas con continui attacchi aerei (bombardamenti). Dietro questa scia di sangue c’è
un calcolo politico ben preciso sia per Hamas che per Israele (o per meglio dire
Benjamin Netanyahu). Qual è secondo te questo calcolo?

Possiamo fare solo delle ipotesi, al limite della dietrologia, sui calcoli politici. I fatti
certi sono: le telecamere si sono spostate da Gerusalemme, dove le dinamiche
umani sociali e politiche molto diverse, verso Gaza e Tel Aviv, riproponendo il
confronto armato che abbiamo visto nel 2008, nel 2012, nel 2014, e ora nel 2021.
Razzi sparati da Gaza. Bombardamenti massicci da parte dell’aviazione e
dell’artiglieria israeliana. L’ennesima guerra asimmetrica. In mezzo, i civili, dall’una e
dall’altra parte. Il risultato? Una fiammata di violenza, con un numero di morti a Gaza
che è già impossibile da sopportare per qualsiasi persona che abbia a cuore
l’umanità, la dignità, il rispetto della vita umana. Qualsiasi sia il calcolo politico, per
me, non vale il prezzo di uno solo dei bambini ammazzati a Gaza.

La rete dei sostenitori di Hamas, per  Israele si tratta terroristi, si estende dal Qatar
alla Turchia, passando per l’Iran. Erdogan fomenta il conflitto. Quale obiettivo si
pone? Ai palestinesi conviene questo appoggio di Erdogan?

Sono molti gli attori regionali che provano a capitalizzare, ad aver un guadagno
politico da quello che succede in Israele/Palestina.

La polarizzazione Hamas – Israele mette in crisi l’Olp. Perché questa debolezza della Olp? Come può rientrare in gioco?

La debolezza dell’OLP è figlia della divisione interna palestinese, non certo della
polarizzazione Israele-Hamas. Cosa rappresenta l’OLP? Questa è la vera domanda.
Per molti palestinesi, l’OLP è ormai il retaggio di una storia che non ha più un
legame con la realtà sul terreno.

Questo conflitto ha fatto da detonatore drammatico contro la convivenza tra cittadini
ebrei israeliani e cittadini arabi israeliani. Pensi che la democrazia israeliana riuscirà
a sanare la ferita?

Non credo, a meno che non faccia una seria e profonda riflessione sulle ragioni che
hanno condotto agli scontri e alle violenze di queste ultime settimane. La
convivenza, dappertutto, si regge sulla difesa dei diritti di ciascuno e di tutti. Laddove
non succede, il vulnus è profondo, la ferita è difficilissima da ricucire. È una
riflessione che va alle origini, soprattutto al 1948: i cittadini israeliani riconoscono il
legame con la stessa terra dei palestinesi con cittadinanza israeliana? Ne
riconoscono la storia?

Che fine faranno i così detti accordi di Abramo? Quali sono i limiti? Per Biden sono ancora validi?

Lo capiremo solo tra un po’ di tempo. Di certo, gli accordi di Abramo rispondono a
una logica verticistica, che nessun rapporto ha con una delle parti in causa. I
palestinesi. In più, alcuni dei paesi, come gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, che
hanno firmato gli accordi di Abramo, non rispettano i diritti civili e la libertà di
espressione dei propri cittadini. Per non parlare del coinvolgimento degli EAU nella
guerra in Yemen.

Per la comunità internazionale, un tempo, l’obiettivo era : “due popoli e due Stati”. Tu dici, invece, che l’obiettivo deve essere uno stato confederale. In che senso? Ma è davvero più realistico della prima opzione?

Il problema non è il realismo. Anche la soluzione dei due Stati, proposta dal
processo di Oslo, sembrava essere un compromesso possibile perché pragmatico,
pur nelle estreme difficoltà di mettere insieme le due parti. È fallito. L’ipotesi di una
confederazione, allo studio da anni soprattutto da figure che vivono in Israele e
Palestina, parte non solo dal fallimento di Oslo. Parte dalla necessità di condividere
la terra a cui tutti appartengono, israeliani e palestinesi. Due Stati sì, due Stati
indipendenti, ma intrecciati, come ora sono intrecciati ma in modo asimmetrico.
Occupante e occupato. Chi detiene il monopolio della forza e chi no. Non è possibile
reggere una situazione che oramai tutti, comprese le associazioni di difesa dei diritti
umani e civili, considerano di apartheid.

Ultima domanda: un tempo vi erano grandi leader (Rabin, Arafat). Oggi chi c’è?

Rispondo con un’altra domanda: dove? In quale parte della Palestina? Se si parla,
per esempio, di Gerusalemme est, la protesta delle ultime settimane non ha avuto
leadership, né sentito il bisogno di averne. La maggior parte dei giovani palestinesi
di Gerusalemme est è lontana e distaccata dalla leadership dell’Autorità Nazionale a
Ramallah. Altrettanto lontana e distaccata è da Gaza.

 

 

 

 

 

 

 

“La lettera di Ladaria farà bene alla democrazia americana”. Intervista a Stefano Ceccanti

Sta facendo discutere l’opinione pubblica cattolica, statunitense ed europea, la lettera del Cardinale Ladaria, prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, al presidente dei Vescovi americani Gomez, ultraconservatore. Lettera che stoppa radicalmente l’iniziativa clamorosa da parte dell’ala conservatrice di negare la comunione al Presidente Biden (in quanto favorevole alla legislazione pro aborto). In questa intervista con il costituzionalista, e deputato PD, Stefano Ceccanti cerchiamo di approfondire i contenuti di questa lettera.

Professor Ceccanti, i termini della lettera non sono per niente teneri nei confronti dei conservatori: tra le righe si denuncia il comportamento strumentale dell’iniziativa di Gomez. È così professore? 

Veda, io partirei da un po’ più lontano, dall’anniversario che si celebrerà domani. Il 14 maggio 1971, 50 anni fa, Paolo VI scrisse al Cardinale Roy la lettera Octogesima Adveniens, per gli 80 anni dalla Rerum Novarum. Il parametro per le nostre questioni è quello perché essa rappresenta il punto di arrivo della riflessione conciliare sul tema dei rapporti tra Chiesa e politica. Infatti, pur avendo la Gaudium et Spes, la Costituzione conciliare, espresso alcune scelte significative, tra cui il riconoscimento dell’opzione preferenziale per la democrazia (paragrafo 31), lo specifico capitolo 4 ebbe una trattazione del tutto insufficiente perché essa coincise con la giornata del ritorno di Paolo VI dall’Onu, il 5 ottobre 1965, e i lavori dell’assemblea furono concentrati sul suo discorso. Fu questa la ragione per la quale Paolo VI rifece il punto con la Octogesima Adveniens ed in particolare nei punti 4 e 50.

Il punto 4 fa due affermazioni molto importanti che deideologizzano l’insegnamento sociale: la prima è che “Di fronte a situazioni tanto diverse, ci è difficile pronunciare una parola unica e proporre una soluzione di valore universale” e la seconda è che le comunità cristiane attingono da esso “principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione” che consentono di giungere a conclusioni concrete. L’elemento comune di principi, criteri e direttive è il fatto che essi hanno dei margini di elasticità rispetto alle soluzioni concrete. Margini che evidentemente non sono infiniti, l’elastico oltre una certa soglia si rompe, ma ciò non di meno essi esistono, le soluzioni concrete non coincidono con essi. E’ per questo che, come chiarisce il n. 50: “Nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili” con “uno sforzo di reciproca comprensione per le posizioni e le motivazioni dell’altro”.

Dietro queste affermazioni si coglie tutta la finezza di un papa che per storia familiare conosceva la concretezza della vita politico-parlamentare che è fatta non di referendum su princìpi, ma di continue mediazioni tra più princìpi che entrano in gioco nella stessa decisione, tra princìpi e realtà sociale concreta e tra diverse visioni che sono rappresentate in una società aperta. Solo così si evitano approcci strumentali.

Lei quindi ritrova questo approccio che viene da lontano nella lettera del Prefetto, ovvero specificamente nel punto in cui si afferma che né il tema dell’aborto, né quello della eutanasia possono essere usati come ‘unica materia in cui si richiede il pieno livello di responsabilità da parte dei cattolici. Una gran picconata al “partito dei valori non negoziabili”? Ma quello non veniva dal pontificato di Giovanni Paolo II e dalla Nota dottrinale del 2002 della medesima Congregazione che però Ladaria cita come fondamento della sua critica?

Anche nell’enciclica Evangelium vitae” di Giovanni Paolo II del 1995 (che aveva confermato l’opzione prefrenziale per le democrazie liberali nella Centesimus Annus del 1991) si riscontrano almeno due importanti passaggi nella medesima direzione della Octogesima Adveniens. Il primo (par. 71) ricorda sulla base dell’insegnamento di Tommaso (su cui a lungo aveva riflettuto Jacques Maritain) che la difesa e lo sviluppo di alcuni principi e valori non coincide con la massima estensione possibile del diritto penale per punire comportamenti che li neghino:” la pubblica autorità può talvolta rinunciare a reprimere quanto provocherebbe, se proibito, un danno più grave”. Se un principio o un valore siano concretamente sviluppati in un ordinamento dipende da una serie di incentivi, da un insieme di politiche pubbliche: può darsi che un diritto penale meno esteso accompagnato da politiche sociali positive più consistenti abbiano in un determinato contesto storico, effetti ben più positivi. Il secondo (par. 73) tende a valorizzare comportamenti politico-parlamentari tesi alla riduzione del danno.

Viceversa questo senso della complessità non sembra riprodotto per intero nella Nota dottrinale della Congregazione per la Dottrina della Fede del 2002 perché essa sembra presupporre che vi siano ambiti in cui “l’azione politica viene a confrontarsi con principi morali che non ammettono deroghe, eccezioni o compromesso alcuno” (par. 4) in cui cioè lo schema sia bianco-nero, tutto-nulla, verità-errore. Qui sta il problema teorico, che poi è anche un serio problema pratico: infatti la Nota risulta a tutt’oggi del tutto disapplicata e non per volontà dei singoli, ma perché in questi termini è sostanzialmente inapplicabile. Ora alcuni vescovi americani, i primi che concretamente vogliano farlo sia pure arrivando a conclusioni sulla Comunione non direttamente previste nel testo, credono di interpretare correttamente la Nota ritenendo che questo ragionamento riguardi un particolare ambito materiale, in particolare i temi dell’aborto e dell’eutanasia perché sarebbero i primi citati nel testo. Il cardinale Ladaria, a nome della Congregazione, reagisce segnalando che scegliere un preciso ambito materiale finirebbe per selezionare arbitrariamente alcune materie a danno di altre: “sarebbe fuorviante dare l’impressione che l’aborto e l’eutanasia da soli siano gli unici temi centrali della Dottrina Sociale cattolica, che richiedono il più alto livello di rendiconto da parte dei cattolici”.

Il cardinale Ladaria, così facendo, evita opportunamente un doppio standard tra materie diverse, ma logicamente gli esiti possibili sono due e sono opposti. O si conferma che sia possibile teorizzare che rispetto a tutti i principi e valori che si vogliano difendere e sviluppare vadano rifiutati compromessi, ma allora diventa sostanzialmente impossibile fare politica specie nelle sedi parlamentari, si arriva a un non expedit generalizzato o, viceversa, si ammette che esistono sempre margini di elasticità. Ovviamente tutte le istanze sociali, comprese quelle ecclesiali, hanno il diritto di ritenere che nei casi concreti l’elasticità sia usata oltre i limiti ragionevoli e possono benissimo contestare i concreti compromessi raggiunti, ma non possono disconoscerne a priori l’esistenza. Questo nodo non può essere aggirato. E’ la nota del 2002 come tale che non funziona su quell’aspetto, difforme rispetto all’impostazione dellOctogesima Adveniens, che la rende inapplicabile e che, qualora si tenti di applicarla, crea conflitti non risolubili.

Pensa che questo intervento rasserenerà l’episcopato americano, o, invece, alimenterà contrasti (fomentati dai vari Bannon e Viganò)?

Come ho cercato di spiegare prima per esteso chiarendo il parametro (l’Octogesima Adveniens) e ciò che fa problema (la Nota del 2002) la linea dell’episcopato americano è insostenibile. Peraltro si tratta in questo momento e da molti anni dell’unico episcopato che sta tentando un’applicazione intransigente di quella Nota. Farebbe bene a riflettere sul suo isolamento non solo rispetto al Papa, ma anche alla Chiesa universale.

Cosa può significare per la politica americana questo intervento? 

Mentre l’intervento della Conferenza episcopale si inseriva in quella logica di over partisanship, di eccesso di partigianeria che segna quel paese da vari anni e che tanto nuoce alla democrazia americana, l’intervento del cardinal Ladaria si presta ad un più positivo rapporto con la politica. Non è in questione il diritto di esprimere posizioni critiche in pubblico secondo le regole del diritto di libertà religiosa in una società aperta, ma la Chiesa cattolica deve decidere se in una situazione già segnata da molte polarizzazioni vuole essere vista come parte del problema o parte della soluzione. Un certo intransigentismo finisce non col portare un contributo nella vita politica ma con l’esasperare le differenze politiche dentro la Chiesa.

 Non si può non vedere anche un riverbero per l’Italia, la patria del “ruinismo”…… Anche lei vede questo? 

In Italia quel periodo è tramontato irreversibilmente da tempo, prima sul piano politico e poi su quello ecclesiale. Accantonerei pertanto le polemiche sul passato e mi concentrerei sulla ricerca di una linea che raccolga in positivo la spinta innovativa del pontificato. Una linea che va sapientemente costruita.

Consumare il mondo o salvaguardare il mondo? Paradigmi opposti. Un testo di Leonardo Boff

 

La pandemia ci mette, sempre più, davanti ai limiti del nostro paradigma capitalistico. In questo breve, intenso, testo, che pubblichiamo per gentile concessione dell’autore, il teologo brasiliano Leonardo Boff ci offre spunti per un diverso paradigma
etico-sociale.

Leonardo Boff (ANSA)

“Consumare il mondo” o “salvaguardare il mondo” sono una metafora, frequente in bocca ai leader indigeni, che mettono in discussione il paradigma della nostra civiltà, la cui violenza li ha quasi fatti scomparire. Ora è stato messo sotto scacco dal Covid-19. Il virus ha colpito come un fulmine il paradigma del “consumare il mondo”, ovvero sfruttare senza limiti tutto ciò che esiste in natura in un’ottica di crescita / arricchimento senza fine. Il virus ha distrutto i mantra che lo sostengono: centralità del profitto, raggiunto attraverso la concorrenza, la più agguerrita possibile, accumulato privatamente, a scapito delle risorse naturali. Se obbediamo a questi mantra, saremmo sicuramente sulla strada sbagliata. Ciò che ci salva è ciò che è nascosto e invisibile nel paradigma del “consumare il mondo”: la vita, la solidarietà, l’interdipendenza tra tutti, la cura della natura e l’uno dell’altro. È il paradigma imperativo della “salvaguardia del mondo”.

Il paradigma del “consumare il mondo” è molto antico. Proviene dall’Atene del V secolo a.C., quando lo spirito critico irruppe e ci fece percepire la dinamica intrinseca dello spirito, che è la rottura di ogni limite e la ricerca dell’infinito. Tale scopo era pensato dai grandi filosofi, dagli artisti, compare anche nelle tragedie di Sofocle, Eschilo ed Euripide ed è praticato dai politici. Non è più il medén ágan del tempio di Delfi: “niente di troppo”.

Questo progetto di “mangiarsi il mondo” ha preso forma nella stessa Grecia con la creazione dell’impero di Alessandro Magno (356-323), che all’età di 23 anni fondò un
impero che si estendeva dall’Adriatico al fiume Indo in India.

Questo “consumare il mondo” si è approfondito nel vasto Impero Romano, rafforzato nella moderna era coloniale e industriale e culminato nel mondo contemporaneo con la globalizzazione della tecno-scienza occidentale, espansa in tutti gli angoli del pianeta. È l’impero senza limiti, tradotto nello scopo (illusorio) del capitalismo / neoliberismo con la crescita illimitata verso il futuro. Basta prendere come esempio, di questa ricerca di crescita illimitata, il fatto che nell’ultima generazione sono state bruciate più risorse energetiche che in tutte le precedenti generazioni dell’umanità. Non c’è luogo che non sia stato sfruttato per l’accumulo di merci.

Ma ecco, è emerso un limite insormontabile: la Terra, limitata come pianeta, piccola e
sovrappopolata, con beni e servizi limitati, non può sostenere un progetto illimitato. Tutto ha dei limiti. Il 22 settembre 2020, le scienze della Terra e della vita lo hanno identificato come l’Earth Overshoot Day, ovvero il limite dei beni e dei servizi naturali rinnovabili, fondamentali per mantenere la vita. Si sono esauriti. Il consumismo, non accettando limiti, porta alla violenza, togliendo alla Madre Terra ciò che non può più dare. Stiamo consumando l’equivalente di una Terra e mezzo. Le conseguenze di questa estorsione si manifestano nella reazione dell’esausta Madre Terra: aumento del riscaldamento globale, erosione della biodiversità (circa centomila specie eliminate ogni anno e un milione in pericolo), perdita di fertilità del suolo e crescente desertificazione, tra altri fenomeni estremi.

Attraversare alcuni dei nove confini planetari (cambiamento climatico, estinzione di specie, acidificazione degli oceani e altri) può causare un effetto sistemico, facendo crollare i nove e inducendo così il collasso della nostra civiltà. L’emergere del Covid-19 ha messo in ginocchio tutti i poteri militaristici, rendendo inutili e ridicole le armi di distruzione di massa. La gamma di virus precedentemente annunciata, se non modifichiamo il nostro rapporto distruttivo con la natura, potrebbe sacrificare diversi milioni di persone e assottigliare la biosfera, essenziale per tutte le forme di vita.

Oggi l’umanità è presa dal terrore metafisico di fronte ai limiti insormontabili e alla
possibilità della fine della specie. Il Great Reset del sistema capitalista è illusorio. La Terra lo farà fallire.

È in questo drammatico contesto che emerge l’altro paradigma, quello della “salvaguardia del mondo”. È stato allevato in particolare da leader indigeni come Ailton Krenak, Davi Kopenawa Yanomani, Sônia Guajajara, Renata Machado Tupinambá, Cristine Takuá, Raoni Metuktire e altri. Per tutti loro c’è una profonda comunione con la natura, di cui si sentono parte. Non hanno bisogno di pensare alla Terra come alla Grande Madre, Pachamama e Tonantzin perché la sentono così. Proteggono naturalmente il mondo perché è un’estensione del proprio corpo.

L’ecologia del profondo e dell’integrale, come si riflette nella Carta della Terra (2000), nelle Encicliche di Papa Francesco Laudato SI: come prendersi cura della nostra casa comune (2015) e Fratelli tutti (2020), e il programma “Pace, Giustizia e Preservazione del Creato” del Consiglio Ecumenico delle Chiese, tra gli altri gruppi, hanno assunto la “salvaguardia del mondo”. Lo scopo comune è quello di garantire le condizioni fisico chimico-ecologiche che sostengono e perpetuano la vita in tutte le sue forme, in particolare la vita umana. Siamo già nella sesta estinzione di massa e l’Antropocene la sta intensificando. Se non leggiamo emotivamente, con il cuore, i dati della scienza sulle minacce che pesano sulla nostra sopravvivenza, difficilmente ci impegneremo a salvaguardare il mondo.

Papa Francesco ha seriamente ammonito nella Fratelli tutti: “O ci salviamo insieme o nessuno si salva” (n. 32). È un avvertimento quasi disperato se non si vuole “gonfiare il corteo di chi va alla propria tomba” (Z. Bauman). Facciamo il salto della fede e crediamo in ciò che dice il Libro della Sapienza: “Dio è l’amante appassionato della vita” (11,26). Se è così, non ci permetterà di scomparire così miseramente dalla faccia della Terra. Lo crediamo e lo speriamo.

Leonardo Boff ha scritto: Cuidar la Tierra-Proteger la vida, cómo evitar el fin del mundo, Record 2010; Covid-19, la Madre Tierra contraataca a la Humanidad: advertencias de la pandemia, Vozes 2020.

(Traduzione dal portoghese di Gianni Alioti).