Lavoro: “La riforma che Draghi chiede all’Europa vuole chiudere la stagione del mercato duale”. Intervista a Giuseppe Sabella

Intervenendo al vertice di Oporto sui diritti sociali, organizzato dalla presidenza portoghese del Consiglio dell’Unione europea, il primo ministro italiano Mario Draghi ha speso parole significative: “Troppi Paesi dell’Ue hanno un mercato del lavoro a doppio binario che avvantaggia i garantiti a spese dei non garantiti. Mentre i garantiti sono meglio retribuiti e godono di una maggiore sicurezza del lavoro, i non garantiti soffrono un vita lavorativa precaria. Questo sistema è profondamente ingiusto e costituisce un ostacolo alla nostra capacità di crescere e di innovare”. Si tratta di parole importanti, segno ulteriore della nuova stagione europea. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella.

Sabella, Draghi porta all’attenzione del consiglio europeo il tema del lavoro precario che, in particolare, è tale per giovani e donne. Come valuta questo affondo del premier italiano?
Credo che Draghi sia consapevole del rischio di disgregazione che corre l’Unione: non è soltanto questione della contingente contrazione economica dovuta all’emergenza sanitaria, il problema è che quando l’economia ripartirà di fatto saremo sempre più avviati alla trasformazione dell’industria. Il che significa non solo innovazione ma anche imprese che chiudono perché non riescono a tenere il passo, attività che vengono sostituite dalle macchine, prodotti il cui impiego diminuisce. Tutto ciò naturalmente comporterà erosione di posti di lavoro. Però attenzione: la trasformazione è tale per cui avremo nuove attività e nuovi prodotti. Prima della pandemia, i paesi che più avevano investito in tecnologia – Cina, Usa e Corea del sud – erano i paesi in cui il saldo occupazionale tra posti di lavoro persi e posti di lavoro creati era positivo, cosa che ci dice che non vi è alternativa a investire in innovazione. In sintesi, Draghi vuole rendere il lavoro meno precario e rafforzare non solo il sistema di protezione sociale ma anche quello delle politiche attive. È fondamentale questo passaggio, altrimenti questa volta si rischia davvero il disordine sociale.

Il premier italiano propone di rendere strutturale il programma SURE che, ad oggi, ha retto il sistema degli ammortizzatori sociali. È la strada giusta?
Naturalmente il welfare ha un costo. Quindi, la prima cosa è quella di darsi degli obiettivi e trovare un modo per renderli sostenibili. Da questo punto di vista, a Oporto ancora una volta si sono confrontate due posizioni: una più nazionale e una più comunitaria. Secondo alcuni paesi, la UE dovrebbe solo fissare obiettivi e poi lasciar fare alle politiche nazionali. Il presidente Draghi invece si è espresso dicendo “targets and national policies are not enough”: le politiche nazionali non sono abbastanza, ci vogliono politiche europee comuni come Next Generation EU e il fondo SURE (che già ha finanziato 27 miliardi della nostra cassa integrazione). Credo che insistere sul fondo SURE sia una buona ipotesi, va certamente rafforzata la sua missione. Va però detto che più di questo l’Europa non può fare. Bisogna poi che gli stati membri, in particolare il nostro, si attivino per far funzionare soprattutto le politiche attive del lavoro. Sin dai tempi delle prime riforme – mi riferisco alla legge Treu del ‘97 e alla legge Biagi del 2003 – è sempre stata questa la nostra debolezza. Si può naturalmente affermare che qualcosa poteva essere pensato meglio nell’impianto di riforma del lavoro, ma se avessero funzionato le politiche attive – cosa che tutt’ora dipende dalle regioni – il lavoro sarebbe certamente stato meno precario.

Cosa poteva essere pensato meglio nell’impianto di riforma del mercato del lavoro in Italia?
Da una parte, è vero che il nostro mercato del lavoro era piuttosto ingessato. Ma la repentina iniezione di flessibilità si è rivelata difficile da gestire. Inoltre, non vi è mai stata una riforma complessiva del sistema di ammortizzatori sociali: per fare qualche esempio, solo in tempo di pandemia si è trovata qualche iniziale soluzione anche per le partite iva – dopo 25 anni! – che in gran parte non sono lavoro autonomo ma bensì povero e precario; la stessa indennità di disoccupazione ha iniziato a funzionare soltanto nel 2015 con la Naspi. E poi, ad ogni governo che si susseguiva i ministri del lavoro dovevano per forza intestarsi la loro riforma. A ogni modo, il punto è che l’iniezione di flessibilità che si è attuata in nome del cambiamento dell’economia, si è prevalentemente rivelata come lavoro precario e meno pagato. Solo nel 2015 con il Jobs Act, al netto dei problemi e delle contraddizioni rilevate persino dalla Corte Costituzionale, si è posto il problema delle tutele e delle protezioni, senza peraltro che si completasse questa strada.

A tal proposito, Mario Draghi ha aggiunto che “già prima della pandemia le nostre società e i nostri mercati del lavoro erano frammentati: disuguaglianze generazionali, disuguaglianze di genere, disuguaglianze regionali. Questa non è l’Italia come dovrebbe essere, né l’Europa come dovrebbe essere. Il sogno europeo è di garantire che nessuno venga lasciato indietro”. Perché secondo lei, in particolare nel nostro Paese, si è creata questa situazione?
Guardi, come lei sa bene c’è chi accusa il legislatore di complicità con il capitalismo selvaggio. Io non sono tra questi. Penso invece che questo Paese spesso affronta problemi seri in modo ideologico, come in una guerra di religione. Nella fattispecie, quando in particolare nel 2002 si poneva il problema di intervenire nuovamente sul mercato del lavoro dopo il pacchetto Treu, in quell’occasione si scatenò il finimondo, tanto che Marco Biagi e la sua famiglia pagarono un prezzo altissimo. Questo perché da una parte vi erano l’ideologia e la violenza, che non hanno alcuna giustificazione e vanno condannate. Dall’altra, tuttavia, avanzava una nuova forma di ideologia, quella per cui “il mercato ci chiede”, peraltro distante dal pensiero del giuslavorista bolognese – basta leggere i suoi scritti – sempre orientato a coniugare flessibilità e sicurezza. La verità è che il lavoro è un terreno delicatissimo in cui non si deve mai far saltare l’equilibrio tra innovazione e protezione sociale. Anche perché, se conta solo ciò che “il mercato ci chiede”, non si capisce quale ruolo spetti al decisore politico e alle rappresentanze di impresa e lavoro. In quel caso l’equilibrio saltò, perché tutto veniva scritto nel segno della flessibilità. E così, come dice Draghi, ancor prima della crisi del 2008 il mercato scaricava la flessibilità prevalentemente sui più deboli, giovani e donne. D’altronde, ciò alle imprese conveniva: e, considerando che il 95% di imprese italiane ha meno di 10 addetti ed è stretto nella morsa di fisco e burocrazia, questa è stata la via d’uscita, per quanto miope. Da quel momento, questa tendenza è stata irreversibile, si è acuita con la crisi del 2008 ed è giunta ai nostri giorni. Oggi questo processo va corretto non solo per giustizia sociale ma anche perché i mercati che meglio funzionano sono quelli in cui donne e giovani sono più integrati: sono loro, infatti, i veri portatori di innovazione.

Secondo lei cosa va fatto oggi per riformare in meglio il nostro mercato del lavoro?
Partiamo da qui: il processo di trasformazione dell’industria, che naturalmente riguarda anche i servizi, sta sempre più avvicinando lavoro subordinato e lavoro autonomo. Lo vediamo nel caso dei nuovi lavori e delle piattaforme (es. riders) ma anche nei luoghi per eccellenza del lavoro dipendente: le fabbriche. L’ultimo rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, da questo punto di vista, ha riformato l’inquadramento professionale, prima fermo al 1973. Anche la contrattazione collettiva si orienta alle capacità cognitive e trasversali delle persone: autonomia, responsabilità, partecipazione al lavoro di gruppo, polivalenza, polifunzionalità, miglioramento continuo e innovazione. E poi vi è il tema dello smart working che non è il lavoro distanziato. In quest’ottica la contrattazione collettiva sta facendo cose importanti a livello aziendale – si pensi ai contratti Bayer, Leonardo, Sanofi, Poste italiane, Wind, Tim, Siemens, Sasol, etc. – che prima o poi avranno effetto a livello nazionale. Siamo a metà del guado, ma va detto che registriamo percorsi di qualità. Va scritto un nuovo statuto dei lavori, idea di cui Marco Biagi è precursore.

Pare questo un altro tassello di un nuovo corso europeo. Lei cosa ne pensa?
Si, è così. Il Green New Deal è anche questo. Del resto, l’innovazione – che è centrale nei nuovi obiettivi europei – ha bisogno della qualità del lavoro. Non possiamo pensare di crescere se non in ragione di un nuovo equilibrio nel lavoro che renda il mercato meno schizofrenico. Nel secondo dopoguerra le nazioni avviarono un trentennio – che si chiudeva nel ‘75 con l’inizio del periodo della stagflazione (e in Italia del terrorismo) – in cui la stabilità delle Istituzioni partiva dal lavoro: si pensi, ad esempio, al primo articolo della nostra carta costituzionale. Oggi siamo in un contesto molto diverso, la globalizzazione ci pone davanti a continui shock – l’11 settembre, la crisi del 2008, la pandemia, ora il pericolo della crisi ambientale – ma i decisori devono trovare il modo per restituire pace e stabilità alle nazioni e alle comunità sociali. Tra USA e Europa si sta riscrivendo una nuova alleanza atlantica: questo è fondamentale, ma non basterà a garantirci un trentennio di prosperità. Ai nostri giorni, i cicli dell’economia si sono di molto accorciati.