Quali sono le sfide in Israele aperte dalla guerra con Hamas? Intervista ad Ariel David

Benjamin Netanyahu (AP Photo/Sebastian Scheiner, Pool)

Benjamin Netanyahu (AP Photo/Sebastian Scheiner, Pool)

Ariel David

Ariel David

Fonti internazionali affermano che la tregua sia imminente. Intanto  continuano i lanci di razzi e i bombardamenti. Con Ariel David, giornalista italo-israeliano, che vive a Tel Aviv e collabora col quotidiano Haaretz, facciamo il punto della situazione.  

Ariel, anche ieri sono andati avanti bombardamenti e lanci di razzi (anche dal confine con il Libano). Una catena di violenza fatta di reazioni e contro reazioni che produce distruzione e dolore. Gaza è allo stremo. L’obiettivo è dare una “lezione dura ad Hamas”, Netanyahu è andato oltre? Cosa vuole ancora?
Non dimentichiamo che ci sono due attori principali in questa tragedia, Hamas e il governo Netanyahu, ed entrambi hanno degli obiettivi e agiscono per raggiungerli – spesso ad un costo molto pesante per la propria gente. Hamas è entrata prepotentemente nell’escalation inizialmente focalizzata su Gerusalemme per riproporsi come leader della causa palestinese rispetto all’Autorità Nazionale Palestinese, soprattutto dopo l’ennesima cancellazione delle elezioni da parte del presidente Abu Mazen. In altre parole, non potendo prendere il potere con il voto, Hamas usa le armi per presentarsi come l’unica vera forza capace di portare avanti la lotta palestinese e guidare la “resistenza” contro Israele. In questi giorni, Hamas sta raggiungendo questo obiettivo strategico, dimostrando di poter continuare a lanciare razzi, colpire civili e soldati israeliani e paralizzare buona parte dello Stato ebraico malgrado gli intensi bombardamenti israeliani. Se si capisce questo, si capisce specularmente anche che cosa “vuole ancora” Netanyahu e perché non sia particolarmente pronto a un cessate il fuoco. Il premier israeliano cerca una qualche vittoria che possa spendere politicamente, soprattutto in vista dell’ormai probabile ritorno alle urne in Israele (per la quinta volta in due anni). Come in passato, gli obiettivi israeliani in questi conflitti con Gaza sono piuttosto limitati e confinati al piano tattico: ristabilire la deterrenza nei confronti di Hamas, limitare la sua capacità offensiva, colpire i suoi vertici, militanti e scorte di missili. Si potrebbe parlare a lungo della mancanza da parte di Israele di una visione strategica e di lungo periodo sul problema di Gaza, ma sta di fatto che Netanyahu non può nemmeno vantare di aver raggiunto questi obiettivi tattici limitati, dal momento che Hamas continua a lanciare centinaia di razzi al giorno contro la popolazione civile israeliana. Netanyahu quindi spinge l’esercito a colpire Hamas ancora più duramente e ad allargare il suo raggio d’azione, il che però ovviamente aumenta il numero dei morti tra i civili palestinesi – o per errore o perché si vanno a colpire obiettivi che Hamas ha profondamente integrato nel tessuto urbano di Gaza. Alcune fonti governative riferiscono che Netanyahu vorrebbe legare il cessate il fuoco alla restituzione di due cittadini israeliani tenuti prigionieri da Hamas e dei resti di due soldati catturati e uccisi durante il conflitto del 2014. Se riuscisse in questo intento, sarebbe una vittoria politica significativa per il premier agli occhi del suo elettorato.

Ma è vero che Netanyahu sta pensando a una nuova annessione di Gaza? Propaganda? 
Probabilmente si tratta di pura retorica. Hamas non vede l’ora di avere a portata di mano soldati israeliani da rapire o uccidere, e rioccupare Gaza avrebbe un costo enorme in termini di vite da entrambe le parti. Netanyahu lo sa e sa anche che la società israeliana non è disposta a pagare questo prezzo in termine di vite di soldati, soprattutto quando, come dicevo prima, non c’è alcun orizzonte di lungo periodo per una soluzione della questione di Gaza – e men che meno del conflitto più ampio con i palestinesi. Al contrario che in passato, anche tra gli esponenti della destra israeliana non ho sentito inviti particolarmente forti alla rioccupazione di Gaza, e non credo ci sia la volontà di condurre una simile operazione anche da parte dei vertici dell’esercito.

Sul quadro politico israeliano che ricaduta avrà?
Dipenderà dagli esiti dello scontro. Nell’immediato Netanyahu sta beneficiando della situazione, perché l’escalation di violenza ha messo fine ai negoziati per la formazione di un governo da parte dell’opposizione che avrebbe dovuto includere anche uno dei partiti che rappresentano la minoranza arabo-israeliana. Allo stesso tempo, Netanyahu sta ora intessendo nuovi contatti con parti dell’opposizione, soprattutto i suoi ex alleati di destra Gideon Saar e Naftali Bennett, sperando di convincerli a formare un governo in nome dell’emergenza nazionale. Resta da vedere se riuscirà nel suo intento, o se nelle more di un cessate il fuoco l’opposizione guidata dal moderato Yair Lapid avrà un’altra chance per ricompatterei il fronte anti-Netanyahu o se lo stallo politico che attanaglia Israele da due anni proseguirà e il Paese andrà di nuovo alle urne.

La comunità internazionale si è mossa colpevolmente in ritardo. Si parla di una tregua imminente. Cosa deve accadere per arrivare ad una tregua si spera stabile?
Come hai detto, la comunità internazionale si è mossa lentamente, complice forse il crescente disinteresse per questione israelo-palestinese e la sfida globale posta dalla pandemia di Covid 19. Per raggiungere una tregua saranno ora decisive le pressioni degli Stati Uniti su Israele e di Egitto e Qatar su Hamas (ricordiamo che il Qatar, con il consenso di Israele, trasferisce a Gaza milioni di dollari ogni anno per il pagamento degli stipendi agli impiegati del regime di Hamas nella Striscia).

Parliamo degli effetti sociali  di questo conflitto. Sappiamo che dopo i fatti del quartiere di Gerusalemme est, sono scoppiate violenze tra ebrei israeliani e arabi israeliani. In particolare  nelle città di Lod, Akko, Haifa, Giaffa e TEL Aviv. Per non dire della situazione di Gerusalemme Est. Insomma la società Israeliana rischia di pagare a caro prezzo questo conflitto?
La violenza inter-etnica all’interno di Israele è l’elemento di grande novità di questo round del conflitto. La maggior parte degli israeliani con cui ho parlato sono molto più preoccupati da questo sviluppo che dall’intensità senza precedenti dei bombardamenti di Hamas. La sorpresa è dovuta in parte al fatto che negli ultimi anni i palestinesi con cittadinanza israeliana (cioè quelli che vivono all’interno di Israele e non in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, e che costituiscono circa il 20 percento della popolazione del Paese) hanno dato segnali di una volontà di integrazione nella società israeliana, partecipando maggiormente alle elezioni, alla politica e ad altri aspetti della vita democratica del Paese, e con diversi sondaggi che hanno mostrato come più della metà degli arabi-israeliani si dice “fiero di essere israeliano”. Pertanto in molti si sono sorpresi quando le tensioni a Gerusalemme (non certo le prime nell’ambito conflitto israelo- palestiniese) hanno scatenato dei veri e proprio “pogrom” nelle città e nei quartieri a popolazione mista. Luoghi dove c’era una convivenza magari difficile ma comunque possibile hanno visto sinagoghe bruciate, cimiteri profanati, attività economiche distrutte e linciaggi di ebrei per le strade. L’estrema destra israeliana, per parte sua, non ha mancato di gettare benzina sul fuoco, attuando gli stessi metodi nei confronti di cittadini arabi, le loro attività e luoghi di culto. Ci vorrà molto tempo per riparare le ferite sociali di questi scontri e molti qui si interrogano sulle cause di questa impennata di violenza. Forse l’integrazione di questa minoranza, spesso discriminata ed economicamente svantaggiata, non è stata abbastanza rapida. Forse ci sono elementi all’interno della comunità arabo- israeliana, tutt’altro che monolitica, che non vedono di buon occhio proprio questa tendenza verso l’integrazione. Si pensi per esempio al fatto che Mansour Abbas, leader della Lista Araba Unita (uno dei partiti che doveva entrare nel nuovo governo anti- Netanyahu) ha visitato le sinagoghe distrutte di Lod e ha condannato i disordini che sono avvenuti nella cittadina e nel resto del Paese. Per tutta risposta, Abbas è stato attaccato da una folta ala del suo stesso partito, che lo ha invitato alle dimissioni. Insomma, anche fra gli arabi-israeliani ci sono forti divisioni, e la vera sfida per Israele è ora quella di recuperare il rapporto con la maggioranza silenziosa di questa comunità che è favore della convivenza.

Ci sono tentativi di pacificazione sociale? Gli uomini del dialogo (intellettuali) cosa stanno facendo?
Parto dall’editoriale di mercoledì su Haaretz, giornale per cui scrivo, che titola semplicemente “Enough” – Basta. È un invito esplicito ad addivenire a un cessate il fuoco prima che l’operazione militare “causi ancora più morti e distruzione. La sua prosecuzione non offrirà alcun vantaggio, sicuramente non per Israele, ma alimenterà solo la paura, l’odio, l’umiliazione e la sete di vendetta.” Simili appelli sono arrivati da intellettuali e gente comune, e sono state numerose le manifestazioni congiunte di ebrei e arabi a Gerusalemme, Jaffa e nelle altre città miste particolarmente colpite dagli scontri etnici. Solitamente, in Israele, nei momenti di guerra cala il sipario sul dibattito politico e il Paese si unisce per appoggiare gli sforzi dell’esercito. Ciò è in parte avvenuto anche in questa crisi, ma ho sentito anche tante voci di israeliani che criticano l’operazione militare e considerano l’ultimo round di violenza come uno scontro che avvantaggia solo Hamas e Netanyahu.

Un tempo, in Israele, c’era un forte movimento pacifista. Che fine ha fatto?
Esiste ancora, ma il Paese si è spostato inesorabilmente a destra, soprattutto tra i giovani. È la generazione che è cresciuta dopo gli Accordi di Oslo o durante la Seconda Intifada, quando gli autobus con cui andavano a scuola venivano fatti saltare in aria dai terroristi suicidi palestinesi, o che ha visto il ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza ricambiato, anno dopo anno, con le piogge di razzi di Hamas. Il resto lo ha fatto lo strapotere politico e ideologico della destra e di Netanyahu, che ha saputo utilizzare e alimentare l’immagine del processo di pace come foriero di morte e terrorismo. Complici anche le divisioni palestinesi tra ANP e Hamas, Netanyahu ha potuto “congelare” il conflitto in uno status-quo che non offre una soluzione definitiva alla questione israelo palestinese ma che, dal punto di vista degli israeliani, ha il vantaggio di mantenere relativamente basso il livello di violenza – se si escludono ovviamente le periodiche fiammate come quella delle ultime settimane. La maggioranza degli israeliani sembra preferire questo stallo precario perché teme che se dovesse ritirarsi dalla Cisgiordania – unilateralmente o a seguito di un accordo di pace – anche questo territorio cadrebbe in mano ad Hamas e diventerebbe una nuova Gaza, solo molto più grande e a pochi chilometri dal cuore del Paese. La sinistra e i moderati sono divisi, hanno perso consensi e non hanno mai veramente trovato una soluzione convincente a questo dilemma scaturito dal fallimento del processo di pace e dalla presa del potere di Hamas a Gaza. Per quanto vi siano ancora forti voci per la pace, buona parte di ciò che rimane del centro-sinistra preferisce focalizzarsi su questioni sociali interne, come il crescente divario tra ricchi e poveri o le accuse di corruzione a Netanyahu, piuttosto che spingere per una ripresa seria dei negoziati con i palestinesi.

Parliamo dei Palestinesi. La loro leadership è debolissima. A chi guardano i palestinesi?
I palestinesi hanno vissuto un processo simile a quello descritto per Israele. Dal loro punto di vista, le vessazioni dell’occupazione militare in Cisgiordania, l’espansione degli insediamenti israeliani nella West Bank, l’isolamento di Gaza e i periodici attacchi israeliani nella Striscia sanciscono il fallimento della politica relativamente moderata dell’ANP e trasformano Hamas sempre di più in un punto di riferimento della causa palestinese. La mancanza di progressi nei negoziati e le mosse israeliane per delegittimare l’ANP (a cui si sono aggiunte quelle degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Trump) non fanno che contribuire all’indebolimento di Abu Mazen e del suo partito Al Fatah. L’annullamento delle elezioni legislative palestinesi, che dovevano tenersi questo mese per la prima volta dal 2006, ha mostrato ancora una volta la debolezza di un’amministrazione già ampiamente percepita come corrotta e inefficace. Oggi i palestinesi, oltre che ad Hamas e alle sue organizzazione alleate, come la Jihad Islamica, guardano a leader di Fatah più giovani. Fra i più popolari ci sono Marwan Barghouti, condannato a diversi ergastoli per il suo coinvolgimento in alcuni attentati suicidi durante la Seconda Intifada, che dal carcere in Israele continuaad esercitare una forte influenza sulla politica palestinese; e Mohammed Dahlan, ex leader di Fatah a Gaza ora in esilio per i suoi contrasti col presidente Abu Mazen. Probabilmente solo l’uscita di scena dell’84enne presidente palestinese creerà un vuoto politico che potrà essere colmato da una nuova leadership.

In che modo le componenti moderate potranno riprendere l’egemonia?
La soluzione dei due stati, malgrado sia oggi molto snobbata da diverse parti politiche a destra e a sinistra (per ragioni diametralmente opposte), rimane l’unica praticabile, ma al momento la sfiducia reciproca tra le parti in conflitto è ai massimi livelli. È anche molto difficile immaginare una risoluzione del conflitto senza prima affrontare quelle forze più ampie in Medio Oriente che su questo conflitto soffiano per i propri interessi: l’Iran, la Siria, l’Hezbollah libanese e la Turchia. Internamente, per Israele sarà molto importante lavorare sul rapporto con gli arabi israeliani, il cui riavvicinamento in anni recenti (salvo gli avvenimenti delle ultime settimane) rappresenta forse l’unica novità positiva nel panorama del conflitto, e questa comunità potrebbe in futuro fungere da modello di convivenza e da ponte fra gli ebrei e i palestinesi.

Gli “accordi di Abramo” sono superati?
Il mondo arabo, e in particolare i Paesi del Golfo, hanno reagito all’attuale round di violenza con la stessa lentezza del resto del mondo. A meno che la crisi non si allarghi drammaticamente o che il ventilato cessate il fuoco tardi particolarmente a materializzarsi non credo che i rapporti tra Israele e i firmatari degli “accordi di Abramo” subiranno danni irreparabili. D’altronde questi accordi non hanno fatto molto altro che formalizzare rapporti ufficiosi che in realtà esistevano già da anni e che avevano già superato simili crisi. Questi accordi sono stati ampiamente, forse anche giustamente, criticati, per la loro natura prettamente economica e la quasi totale mancanza di una  dimensione politica che includesse una risoluzione della questione palestinese. Però,  nel complesso scenario mediorientale, forse si può anche leggere questi accordi come un segnale positivo di un crescente desiderio da parte del mondo arabo di convivere con Israele – un segnale simile e parallelo a quello lanciato internamente dagli arabi israeliani: una rara fonte di speranza in un quadro altrimenti piuttosto desolante.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *