“Per la Chiesa cattolica sarà determinante il prossimo Sinodo mondiale dei vescovi”. Intervista a Marco Politi


Papa Francesco è nell’ottavo anno di Pontificato. Moltissimi processi, nel senso di nuovi cammini, sono stati avviati. Si pensi ad esempio alla bellissima lettera sulla fratellanza universale, firmata insieme al grande Iman Ahmad Al-Tayyeb, che ha ispirato  grande enciclica “Fratelli tutti”. Per non dire della “Laudato si”. Tutto questo è un grande arricchimento per la Chiesa cattolica. Però all’interno vi sono inquietudini e “lamentazioni” (critiche). Per esempio ha colpito molto una recente presa di posizione, assai dura, di un importante intellettuale cattolico, il professor Alberto Melloni. Lo storico della Chiesa ha scritto un articolo, apparso su Repubblica, dal titolo assai significativo : Francesco e il giugno nero della Chiesa. Nell’articolo si prendono di mira alcune decisioni del papa (dalla lettera al cardinale Marx, fino alla vicenda di Bose e di Becciu).”c’è un filo tra questi atti? (…)Fossero anche eventi slegati il loro accumularsi è un fatto  che prepara tempesta”. Ma com’è lo stato della Chiesa cattolica? Ne parliamo, in questa intervista, con il vaticanista Marco Politi. Politi è stato per diversi anni vaticanista di “Repubblica” e attualmente è editorialista del “Fatto Quotidiano”. E’ autore di diversi saggi. L’ultimo è uscito per Laterza : Francesco. La peste, la rinascita (pagg. 114, 2020).

 

 

Marco, cosa pensi dell’analisi di Melloni  ?

Non credo che la gran massa del miliardo e trecento milioni di cattolici sparsi per il mondo avverta questo giugno cosiddetto nero. La peste del Covid è in pieno corso in moltissime nazioni, il 70 per cento dei londinesi è vaccinato, mentre in Africa solo il 2 per cento. Tanto per capire la drammaticità della situazione. Nei paesi del Primo Mondo, dove le cose vanno meglio, c’è una economia da ricostruire
, diseguaglianze crescenti da superare. In molte regioni asiatiche aumenta la schiavitù, in altre cresce lo sfruttamento brutale del lavoro minorile. Chi se ne importa di una recognitio alla Congregazione del Clero o di un audit al Vicariato di Roma o di una perquisizione nella diocesi di Ozieri, di cui la maggioranza degli stessi italiani ignora l’esistenza.

 

 Cosa conta allora ?

Ciò che suscita l’attenzione del mondo cattolico sono gli eventi fondamentali. La cacciata del cardinale Becciu dal suo posto in curia perché la mala amministrazione non può essere tollerata al vertice della Chiesa. L’inaudita opposizione dell’ex papa Ratzinger e del cardinale Sarah all’ipotesi di un clero non celibatario. Il gesto di Francesco che accoglie in Vaticano un transessuale spagnolo con la sua partner: gesto che rimarrà quando il responso del Sant’Uffizio sul divieto alle benedizioni delle coppie gay sarà già caduto nel dimenticatoio.

 

Qual è il limite della presa di posizione di Melloni?

Ogni analisi è un contributo prezioso. Ma ritengo che vada rovesciata la prospettiva. Inutile fissare solo lo sguardo sul pontefice regnante. I papi non sono onnipotenti. Il loro potere è o sembra assoluto solo quando sono conservatori. Chi riforma si scontra con resistenze, paure, pigrizie mentali. Lo sguardo a rivolto alla magmatica transizione in corso da oltre mezzo secolo in seno al cattolicesimo. Il vecchio modello tridentino non funziona più, il modello sinodale, aperto alle profonde trasformazioni della psiche sociale, non si è ancora né delineato né tantomeno affermato.

 

L’attacco di Melloni è  stato ripreso dall’ala ultra conservatrice della Chiesa. Uno di loro, Antonio Socci, uno dei più duri e ostili a papa Francesco, ha affermato che l’analisi di Melloni è il segnale che i progressisti stanno “scaricando” Francesco. Socci termina il suo articolo con l’esortazione a papa Francesco “a riprendere la via eroica di papa Wojtyla e Ratzinger”. Cosa pensi di questa affermazione?

 I falchi conservatori non creano il futuro e non capiscono il presente. Il manifesto sulla libertà della Chiesa, firmato dal cardinale Mueller e dall’ex nunzio Viganò, per contrastare le misure sul Covid è stato un flop. La cosa essenziale oggi è cercare di cogliere non quello che succede tra i “generali” ma nella massa del cattolicesimo. Perché non c’è stato tra i preti italiani un movimento di protesta – come nei paesi del Nord Europa – contro il divieto di benedizione delle coppie gay? Perché tra i vescovi italiani non ce n’è stato uno che abbia chiesto che una personalità come Enzo Bianchi sia nuovamente valorizzata? Perché tra i vescovi e i cardinali del mondo non si sono avute pubbliche prese i posizione contro la pattuglia conservatrice internazionale (incluso Ratzinger) che ha voluto legare le mani a papa Francesco sulle misure auspicate dal sinodo dell’Amazzonia? Perché tre quarti dei vescovi americani in queste ore si contrappongono alla linea papale, fissati con l’idea di punire con l’esclusione dall’eucaristia Biden e altri politici che ammettono una legislazione sull’aborto? Perché la maggioranza degli episcopati mondiali non ha voglia di mettere in piedi un sistema rigoroso per contrastare e smascherare gli abusi sessuali nell’istituzione ecclesiastica? Il grido d’allarme di Marx non vale solo per il caso Germania.

 

Veniamo ad alcuni nodi.  Per esempio sinodalità. La Chiesa tedesca sta dando prova di grande protagonismo sinodale. Sappiamo che questo protagonismo preoccupa l’anima ultra conservatrice della Chiesa. Come stanno le cose?

 Io chiederei piuttosto quale contributo gli episcopati del mondo danno alle domande cruciali poste in Germania: potere e divisione dei poteri nella Chiesa, ruolo delle donne, vita sacerdotale oggi, relazioni e sessualità. La riposta è: pubblicamente quasi zero. Ma le svolte, come il concilio Vaticano II, non si fanno perché un papa emana un decreto o una singola conferenza episcopale scrive un documento. I cambiamenti si fanno perché c’è un attivo movimento riformatore internazionale come negli anni ’60 del secolo scorso.
Il bilancio di questi anni mostra che un simile movimento massiccio pro-riforma non è ancora sorto.

 

Era così necessaria la scomunica per chi ordina le donne sacerdote?

Non era né urgente né necessario. Sappiamo tutti che prima o poi anche la Chiesa cattolica avrà donne-sacerdote e sappiamo anche che questo non riempirà maggiormente le chiese alla messa domenicale. Ma in ogni caso è storicamente necessario. Tuttavia bisogna essere franchi: per le riforme ecclesiali più ardite papa Francesco non dispone di una maggioranza di due terzi all’interno dell’episcopato mondiale.

 

Sul piano della curia come sta procedendo la riforma?

La riforma della curia è entrata nel suo stadio finale, ma in ultima analisi non sarà un evento primario. Molto più importante è stata la riforma riguardante i beni finanziari e immobiliari della Santa Sede fatta da Francesco: nel senso della centralizzazione della gestione (Apsa) e della centralizzazione dei controlli da parte della Segreteria per l’Economia

 

Pur nelle difficoltà questo pontificato ha dato alla Chiesa elementi pieni di futuro. Abbiamo detto già la fraternità e l’ecologia integrale. Sul piano della fede quale elemento sta facendo emergere Papa Francesco?

Papa Bergoglio resta una pietra miliare del “processo di transizione” ecclesiale, perché propugna un cristianesimo che non si limita ad essere identitario, ma si prende cura del prossimo e del creato. Perché predica un Dio padre di tutti – uomini e donne di ogni religione e filosofia – e non solo dei battezzati. Un Dio misericordioso dalla parte degli esseri umani, lontano dal clericalismo e dall’idolatria monarchica dell’apparato vaticano. Il prossimo sinodo mondiale dei vescovi, che si svolgerà nell’arco di due anni, iniziando nell’ottobre 2021 passando dal piano delle diocesi, passando poi a quello continentale, arrivando infine nel 2023 al livello universale, sarà il test dello stato di salute della Chiesa cattolica oggi. Si parlerà della missione della Chiesa nel XXI secolo, della partecipazione, della sinodalità. Cioè di tutto. Quasi un concilio.

Myanmar: “La comunità internazionale sia più determinata nel sostegno all’opposizione democratica”. Intervista a Cecilia Brighi

Myanmar, proteste contro la giunta militare (STR/AFP via Getty Images)

Myanmar, proteste contro la giunta militare(STR/AFP via Getty Images)

Com’è la situazione nel Myanmar a più di cinque mesi dal golpe? Ne parliamo, in
questa intervista, con Cecilia Brighi (Segretaria Generale dell’ Associazione Italia-
Birmania.Insieme).

Cecilia, ormai siamo a 5 mesi dal golpe dei militari nel Myanmar.  Per il popolo birmano la situazione è sempre più drammatica. È così?
Si, alle proteste pacifiche e agli scioperi che continuano in tutto il paese, l’esercito ha opposto la legge marziale nelle zone industriali, ha imposto alle imprese di denunciare i rappresentanti sindacali dei lavoratori, ha lanciato la perquisizione a tappeto di tutte le abitazioni, alla ricerca degli oppositori e delle persone che hanno un mandato di arresto. Ad oggi circa 900 persone sono state uccise, oltre 100 sono sparite nel nulla, molti sono bambini e minori che sono stati uccisi nelle manifestazioni. Oltre 6.200 sono gli arrestati. 31 persone sono state condannate alla pena di morte, e molti a oltre 20 anni di carcere e lavoro forzato. Ci sono oltre 500.000 lavoratori edili senza lavoro come 150.000 lavoratrici del settore moda, 126.000 insegnanti, 10.000 funzionari dei ministeri e così via. Tutte persone che hanno scelto di non lavorare sotto la giunta militare. Una opposizione che la giunta birmana quando nella pianificazione del golpe non si aspettava. Loro pensavano che con la promessa di nuove elezioni, la gente non avrebbe reagito. E invece ecco qua. Tutti sono profondamente convinti che è meglio morire lottando piuttosto che subire altri 60 anni di dittatura

Sappiamo che nelle ultime settimane, in alcune zone del Myanmar, la repressione si sta caratterizzando come un vero proprio genocidio. Chi sono le vittime di questo cammino massacro?
I militari hanno rispolverato la vecchia strategia dei cosiddetti quattro tagli iniziata negli 60 dell’altro secolo: eliminare il sostegno delle comunità etniche agli eserciti etnici tagliando i quattro maggiori legami: cibo, fondi, intelligence, reclutamento. Inoltre continuano gli attacchi aerei e le uccisioni di massa nei confronti dei civili nei villaggi etnici degli Stati Kayah, Karen, Chin, Kachin, per contrastare la fuga degli oppositori verso le aree etniche e reprimere gli attacchi degli eserciti etnici. Così bombardano i villaggi e persino le chiese e i conventi perché sospettati di ospitare gli oppositori in fuga dalle città, Ci sono ormai centinaia di migliaia di nuovi rifugiati interni, privi di cibo e medicinali, che sopravvivono nella giungla in condizioni di estrema precarietà anche perché è iniziata la stagione dei monsoni.

Quali conseguenze economiche sta provocando il golpe? I dati ONU sono drammatici…
Secondo l’ultimo rapporto UNDP la pandemia da Covid19, unita alla instabilità a seguito del colpo di stato potrebbe far precipitare 24 milioni di persone, quasi la metà della popolazione sotto la soglia di povertà (meno di 1 $ al giorno) creando una crisi alimentare ed economica con conseguenze destabilizzante per l’intera regione del sudest asiatico. Come anche sottolineato dalla Inviata Speciale dell’ONU Christine Burgener venerdì 18 giugno in una riunione a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza, la situazione è allarmante. La crisi ha obbligato alla fuga 175.000 persone che vanno ad aggiungersi a quelle già sfollate in precedenza ed ha chiesto al Consiglio di “parlare con una sola voce in particolare contro la violenza e per la liberazione al più presto possibile di tutti i prigionieri politici e a causa dell’incremento della violenza soprattutto nelle aree etniche in risposta ai bombardamenti, ha chiesto un dialogo onnicomrensivo con tutti gli stakeholders

Abbiamo visto, nei mesi scorsi, le immagini delle proteste popolari contro la giunta militare. I giovani sono stati i protagonisti di queste rivolte. Ti chiedo dopo, ormai, più di 5 mesi dal golpe com’è la situazione della società civile del Myanmar?  Come si è strutturata?
L’opposizione popolare è diffusa anche se apparentemente non ci sono manifestazioni di massa, per evitare uccisioni inutili. Il CDM il movimento di opposizione civile, formato da circa 77 associazioni, si coordina quotidianamente e moltissimi sono i giovani della cosiddetta Generazione Z, che dall’inizio dell’opposizione hanno messo in atto mobilitazioni fiume, creative e innovative, utilizzando i social media. Un ruolo importantissimo lo svolge la labour alliance, composta da 18 associazioni che si occupano di lavoro e al cui interno un ruolo fondamentale è svolto dalla CTUM, la confederazione sindacale birmana con oltre 100.000 iscritti. Due giorni prima del golpe, intuendo cosa sarebbe successo la CTUM in un comunicato annunciava la totale opposizione a qualsiasi azione dei militari. E subito dopo l’8 febbraio lanciava il primo sciopero generale a sostegno della rivolta popolare. Uno sciopero che ha paralizzato tutti i settori da quello industriale, ai vigil del fuoco, agli insegnanti, giornalisti , lavoratori dei servizi pubblici etc.. persino 110 ospedali in 50 townships del paese. Il sindacato è riuscito a bloccare le linee aeree, le miniere, i cantieri il settore del gas etc. Quindi una rete importantissima, in grado di mobilitare migliaia di lavoratori e lavoratrici. Ed è quello che si continua a fare ancora ad oggi. Anche i consumatori hanno boicottato i prodotti delle imprese militari, dalle sigarette alla birra, Infatti la Labor Alliance e il CDM hanno piegato economicamente il paese in difesa della democrazia e per salvare le generazioni future dalla dittatura. La situazione perché continuare le attività economiche e commerciali come di consueto, e ritardare un’interruzione generale del lavoro, gioverebbe solo ai militari poiché reprimono l’energia del popolo birmano; Il momento di agire in difesa della nostra democrazia è adesso. I lavoratori del Myanmar sono pronti ad agire per proteggere la democrazia e salvare le nostre generazioni future dalla dittatura. Crediamo che tutte le persone del Myanmar siano preparate a rispondere a una chiamata all’azione. Il CDM e la Labor Alliance sono riusciti a bloccare a tutt’oggi i treni. Da Yangon parte un solo treno al giorno. Le centrale elettriche sono paralizzate e nella Regione dell’Irrawaddy funzionano al 40%, i processi di lavorazione del greggio lavora ad un ritmo talmente ridotto che non riesce a soddisfare la domanda. Le banche non hanno fondi e funzionano parzialmente, la giunta ha licenziato 100.000 funzionari pubblici, ha sospeso 126.000 insegnanti, oltre 30.000 medici, infermieri, levatrici. Questa paralisi voluta per far cadere la giunta si aggiunge alle sanzioni economiche imposte dalla UE, dagli USA e da altri governi. L’opposizione civile è affiancata dall’opposizione politica. Subito dopo il golpe 70 parlamentari eletti nelle elezioni dell’8 novembre 2020 si sono riuniti e hanno giurato di rappresentare il popolo che li ha eletti. Si sono poi costituiti in CRPH ovvero nel comitato che rappresenta il parlamento e hanno nominato il Governo di Unità Nazionale (NUG), composto da parlamentari dell’NLD da rappresentanti delle nazionalità etniche e da indipendenti. Il NUG ha un ruolo importante di rappresentanza politica anche a livello internazionale. Un elemento fondamentale di questa nuova fase sta nel fatto che si sta costruendo una nuova unità con i partiti delle nazionalità etniche. Questa novità rappresenta una svolta profonda rispetto al passato, Ma gli etnici chiedono un giusto coinvolgimento nei processi decisionali e il superamento di un atteggiamento di autonomia e superiorità nei loro confronti, che spesso ha caratterizzato le modalità di governo dell’NLD. Quindi si dovrà lavorare ad un approccio innovativo che veda lavorare fianco a fianco gli etnici e l’NLD. E’ su questa base che si deve lavorare alla definizione di una nuova Costituzione democratica e federale.

Hai notizie su Aung Sa Suu Kyi. Si parla di un processo farsa per corruzione inscenato dai golpisti…
Il progetto dei militari è quello di effettuare nuove elezioni a seguito delle quali si legittimerà il loro potere. Per questo la prima cosa che hanno fatto è stata quella di accusare la leader Aung San Suu Kyi, di importazione illegale di walkie-talkie, di violazione delle norme anti Covid19 e poi di corruzione e soprattutto di aver violato una legge coloniale sul segreto di stato che potrebbe costarle 14 anni di carcere. Quindi il primo obiettivo è togliere dalla scena politica la personalità più importante e amata dal Paese, sperando che questo possa contribuire al loro obiettivo. Inoltre la giunta ha destituito i membri della Commissione elettorale, accusati di brogli e li ha sostituiti con persone legate alla giunta. Il Capo della nuova commissione, già accusato di brogli nelle elezioni del 2010, ha subito dichiarato che intende valutare lo scioglimento dell’NLD per brogli e La modifica della legge elettorale trasformando il sistema da maggioritario a proporzionale. Il tutto per permettere la vittoria del loro partito l’USDP.

Sono emersi altri leader democratici in questi mesi?
Il colpo di stato militare, con gli arresti di massa ha decapitato buona parte della leadership politica precedente. Molti dei parlamentari eletti sono giovani, certamente con meno esperienza politica, ma forze con una maggiore apertura al dialogo con gli etnici, tanto da aver riconosciuto i gravissimi errori nei confronti dei Rohingya e hanno dichiarato che attueranno un cambiamento profondo della legge sulla cittadinanza, che fino a prima del golpe non si potevano neanche nominare. Moltissimi giovani attivisti sono stati arrestati come pure molti giornalisti, intellettuali, e sindacalisti, che hanno una enorme esperienza sul terreno.

È ancora viva, nell’opinione pubblica internazionale, l’immagine di Suor Anne che in ginocchio supplica la polizia di non sparare sui manifestanti. Un esempio di coraggio, simbolo di una chiesa schierata con il popolo per la democrazia. Questo ha accresciuto il ruolo politico della Chiesa cattolica?
La Chiesa cattolica in Birmania è una minoranza, ma molto rispettata. Storicamente i missionari del Pime hanno vissuto e lavorato nelle aree etniche sostenendo, senza alcuna discriminazione religiosa, le popolazioni dei villaggi, vessate dalle angherie della precedente dittatura. Moltissime sono le scuole del paese gestite da loro. Negli ultimi anni, il Cardinale Charles Maung Bo ha svolto un ruolo fondamentale attivando il dialogo inter-religioso e facendo una forte azione contro il clima e il linguaggio di odio messo in atto da alcuni gruppi oltranzisti buddhisti, soprattutto contro i mussulmani in generale ed i Rohingya. Poi la visita di Papa Francesco ha contribuito a mettere in luce il grande ruolo svolto dalla Chiesa e il coraggio dimostrato da Suor Anne e da altre figure carismatiche nel paese stanno lasciando il segno in termini di rispetto e riconoscenza. Inoltre la Chiesa ha un peso politico non indifferente anche sul piano internazionale. Papa Francesco ha richiamato più volte le sofferenze del popolo birmano e ha condannato le violenze e il regime.

Parliamo della comunità internazionale. C’è da registrare la dura presa posizione dell’ultimo G7. Nel complesso, guardando a questi mesi, non vi sono stati risultati positivi per il popolo del Myanmar. È così?
Innanzi tutto vorrei sottolineare un fatto politico di grande rilevanza. Venerdì scorso, finalmente, ma con tre mesi di ritardo, l’Assemblea Generale dell’ONU ha approvato una risoluzione, molto edulcorata, presentata dal Liechtenstein e che ha avuto il sostegno di 119 governi, 36 astensioni tra cui India, Bangladesh, Bhutan, China, Egitto, Laos, Nepal, Tailandia e Russia e il voto contrario della Bielorussia. La risoluzione che invita la giunta birmana di rispettare i risultati elettorali, a rilasciare i prigionieri politici e invita i governi a sospendere la fornitura di armi alla giunta è stata votata anche dall’Ambasciatore del Myanmar all’ONU che il 16 Febbraio scorso, dopo che si è schierato con l’opposizione democratica era stato licenziato dalla giunta. Il fatto che abbia comunque potuto votare è un segnale molto incoraggiante nei confronti del Governo di Unità Nazionale, rappresentato dall’Ambasciatore.
In questi cinque mesi molte sono state le prese di posizione e le risoluzioni di dura condanna del colpo di Stato a livello internazionale, ma scarsi sono ad oggi i risultati. Il comunicato del G7 dei ministri degli esteri e della UE è particolarmente importante perché non solo condanna con la massima fermezza il colpo di stato militare e chiede la immediata fine allo stato di emergenza, il ripristino del governo democraticamente eletto e il rilascio tutti i detenuti arbitrariamente, ma ha ribadito la solidarietà a tutti coloro che sostengono e lavorano per una democrazia inclusiva, sottolineando l’impegno del Comitato che rappresenta il Parlamento (CRPH) e del Governo di Unità Nazionale (NUG). Questi segnali di riconoscimento del loro ruolo spianano la strada al riconoscimento del Governo di Unità Nazionale all’ONU, cosa che avverrà a settembre prossimo. I ministri degli Esteri dei G7, infine, confermano di “essere pronti a compiere ulteriori passi se i militari non invertiranno la rotta e a continuare a impedire la fornitura, la vendita o il trasferimento di tutte le armi, munizioni e altre attrezzature militari in Myanmar e la fornitura di cooperazione tecnica”. In questi mesi la UE, grazie anche alle pressioni italiane, ha adottato una serie di misure restrittive mirate, nei confronti di 35 persone fisiche e giuridiche e organismi le cui attività compromettono la democrazia e lo Stato di diritto in quel paese e, successivamente il 19 aprile ha adottato ulteriori sanzioni nei confronti di  due potentissime holding che gestiscono i settori più remunerativi del paese e che sono sotto il controllo militare.  Anche gli USA e il Canada si sono mossi in tal senso. E sebbene il Consiglio di sicurezza ONU sia bloccato per il veto incrociato di Cina e Russia, la FAO, l’OMS e l’ILO non hanno accettato formalmente le credenziali della delegazione della giunta militare. Questo è un fatto straordinario che spiana la strada per il ritiro delle credenziali della giunta alla Assemblea Generale ONU e per l’approvazione delle credenziali del nuovo Governo di Unità Nazionale. Su questo, partirà a breve una campagna nei confronti dei governi, perché, finalmente, prendano coraggio e votino a favore delle credenziali del Governo civile, che è l’unico legittimo rappresentante del popolo birmano. Il punto di debolezza sta nell’aver delegato la soluzione di una crisi così complessa sul piano geopolitico all’ASEAN, una associazione che rappresenta 10 paesi del sudest asiatico, tra cui la Birmania, che sono molto divisi, deboli e ciascuno con interessi diversificati. Sarà quindi fondamentale che l’Asean, la cui prima decisione è avvenuta solo il 24 aprile, con un debole accordo in cinque punti concordato con il comandante in capo delle forze armate birmane Generale Min Aung Hlaing, e che ancora oggi rimane sulla carta per le divisioni tra i vari paesi.

Fino a quando Russia e Cina appoggeranno il Regime?
Entrambi questi paesi hanno profondi interessi politici ed economici in Birmania. Entrambi erano a conoscenza del golpe e essendo stati convinti che sarebbe stato un golpe indolore non si sono opposti. La Cina ha messo gli occhi sul paese ormai da decenni. Non solo esporta in Birmania il 50% di armi , ma non ha alcuna intenzione di lasciare il dominio del Golfo del Bengala all’India. Da li parte un lunghissimo gasdotto ed oleodotto che attraversa tutto il paese fini nello Yunnan. Lungo lo stesso percorso è in programma una altrettanto lunga ferrovia. Entrambi i progetti permetteranno alla Cina di risparmiare giorni di viaggio attraverso lo stretto di Malacca. Garantendo così le importazioni in Cina anche in caso di tensioni nel mar della Cina meridionale. Inoltre per compensare la crescent e scarsità d’acqua ha in programma la costruzione in Birmania di 35 impianti idroelettrici e dighe, oltre alla raccolta di terre rare e alla apertura di un porto profondo e di una zona industriale enorme nel Rakhine. La Russia, altro partner fondamentale per i militari si affianca alla Cina non solo per la fornitura di armamenti (16% delle importazioni), ma anche per la formazione di oltre 6.000 quadri militari a Mosca e per il sostegno al progetto dell’India nel Rakhine.

Ultima domanda. So che ti chiedo una cosa difficile: quale potrebbe essere una chiave realistica per risolvere il dramma del Myanmar?
I governi, in particolare la UE, gli USA e gli altri cosidetti “paesi likeminded” non possono più delegare completamente i negoziati all’ASEAN che si è dimostrata debolissima, anche perché molti di questi paesi limitrofi sono dei governi autoritari che non hanno interesse alcuno ad avere una Birmania forte e democratica. Quindi è tempo che si rafforzino le sanzioni economiche e finanziarie nei confronti della giunta, che si sostenga fortemente, anche sul piano finanziario, l’opposizione democratica, perché gli aiuti umanitari senza il sostegno politico all’opposizione, garantiranno si la sopravvivenza delle migliaia di rifugiati, ma non ne cambieranno la situazione, se non con il collasso della giunta. L’embargo delle armi e degli strumenti dual use e software di controllo usati dai militari devono essere banditi immediatamente, cosi pure la no flight zone sul paese, per impedire gli attacchi aerei ai villaggi che in soli tre giorni hanno prodotto oltre centomila profughi. Quindi forti sostegni politici, riconoscimento del Governo di Unità Nazionale e negoziati, con tutte le parti, solo dopo la liberazione dei detenuti politici, che riportino un ruolo centrale alle istituzioni multilaterali. Lasciare il futuro del paese nelle mani dell’ASEAN e della Cina, significa, prefigurare solo un rafforzamento della dittatura attuale. E il popolo birmano non merita questo.

“Senza spiritualità non salveremo la vita sulla Terra”. Un testo di Leonardo Boff

Pubblichiamo, per gentile concessione, questo intervento di Leonardo Boff, ecoteologo brasiliano, sulla spiritualità della Terra.
In tempi di grandi crisi, disastri naturali e ora con l’epidemia di Coronavirus, gli esseri umani lasciano emergere ciò che è nella loro essenza: solidarietà, cooperazione, cura reciproca e per l’ambiente circostante, e la spiritualità.
Abbiamo sentito Michail Gorbaciov agli incontri per l’elaborazione della Carta della Terra, proprio lui ex-capo di Stato e considerato ateo per essere comunista: “o svilupperemo una spiritualità con nuovi valori, centrata sulla vita e sulla cooperazione, oppure non ci sarà soluzione per la vita nella terra”.
Questa pandemia significa un appello a questa spiritualità salvifica. Come dice la Carta della Terra: “Come mai prima d’ora nella storia, il destino comune ci obbliga a cercare un nuovo inizio.[…] Questo richiede una trasformazione del cuore e della mente, un rinnovato senso di interdipendenza globale e di responsabilità universale […]”. Solo così si raggiunge uno stile di vita sostenibile.
Viviamo in un’emergenza ecologica planetaria. La Laudato Sì di Papa Francesco giustamente ci ha avvertito: “Le previsioni catastrofiche ormai non si possono più guardare con disprezzo e ironia. […] Il ritmo di consumo, di spreco e di alterazione dell’ambiente ha superato le possibilità del pianeta, in maniera tale che lo stile di vita attuale, essendo insostenibile, può sfociare solamente in catastrofi […]” (n.161).
Questi avvertimenti rafforzano l’urgenza di una spiritualità della Terra. Essa richiede un nuovo paradigma, presentato da Papa Francesco nella sua ultima enciclica Fratelli tutti (2020): dobbiamo smettere di immaginarci padroni (dominus) della natura per essere di fatto fratelli e sorelle (frater, soror). Se non facciamo questo cammino, vale questo avvertimento: “nessuno si salva da solo, […] ci si può salvare unicamente insieme” (n. 32).
In funzione di questa comune missione, si è stabilita una collaborazione e articolazione tra due famiglie religiose con le loro tradizioni spirituali, amichevoli con il creato, la vita, i più indigenti: i francescani con il Servizio Inter-francescano per la Giustizia, Pace ed Ecologia della Conferenza della Famiglia Francescana del Brasile e i Gesuiti con l’Osservatorio Luciano Mendes de Almeida, la Rete di Giustizia socio-ambientale dei Gesuiti e il Movimento Cattolico Globale per il Clima, attraverso i programmi brasiliani MAGIS e FAJE.
Le spiritualità e i valori di ciascuna di queste due tradizioni possono ispirarci nuovi modi di prenderci cura dell’eredità sacra che l’evoluzione e Dio ci hanno donato, la Terra, la Magna Mater degli antichi, la Pachamama degli Andini e la Gaia dei moderni.
Nella sua enciclica sull’ecologia integrale Laudato Si, Papa Francesco presenta San Francesco come “l’esempio per eccellenza della cura per ciò che è debole e di una ecologia integrale, vissuta con gioia e autenticità. È il santo patrono di tutti quelli che studiano e lavorano nel campo dell’ecologia, amato anche da molti che non sono cristiani”. (n.10). San Francesco aveva un cuore universale. Per lui qualunque creatura era sorella, unita a lui da vincoli di affetto; per questo si sentiva chiamato a prendersi cura di tutto ciò che esiste…finanche le erbe selvatiche che dovevano avere il loro posto nell’orto di ogni convento dei frati.
Per Sant’Ignazio di Loyola, grande devoto di San Francesco, questo essere povero significava più che un esercizio ascetico, ma una spoliazione di tutto per essere più vicini agli altri e costruire con loro la fraternità. Essere poveri per essere più fratello e sorella.
Per i primi compagni di Sant’Ignazio, la vita in povertà, individuale e comunitaria, ha sempre accompagnato la cura dei poveri, parte essenziale del carisma gesuita. E San Francesco viveva queste tre passioni: Cristo crocifisso, i più poveri e la natura. Chiamava tutte le creature, anche il lupo feroce di Gubbio, con il dolce nome di fratelli e sorelle.
Entrambi intravedevano Dio in tutte le cose. Come ha magnificamente espresso Sant’Ignazio: “Trovare Dio in tutte le cose e vedere che tutte le cose provengono dall’alto”. E diceva inoltre, in linea con lo spirito di San Francesco: «Non è il tanto sapere che sazia e soddisfa l’anima, quanto il sentire e assaporare le cose interiormente». Puoi assaporare tutte le cose interiormente solo se le ami veramente e ti senti unito ad esse. In San Francesco abbondano affermazioni simili.
Tali modi di vivere e relazionarsi sono fondamentali se vogliamo reinventare un modo amichevole, riverente e premuroso verso la Terra e la natura. Da lì nascerà una civiltà bio-centrica. Come afferma la Fratelli tutti, fondata su una “politica della tenerezza e della gentilezza”, “sull’amore universale e sulla fratellanza senza confini”, sull’interdipendenza tra tutti, sulla solidarietà, sulla cooperazione e sulla cura per tutto ciò che esiste e vive, soprattutto con i più indifesi.
Il Covid-19 è un segno che la Madre Terra ci invia per assumere la nostra missione che il Creatore e l’universo ci hanno affidato: “proteggere e curare il Giardino dell’Eden”, cioè della Madre Terra (Gn 2,15). Se insieme, questi due Ordini, i francescani e i gesuiti, in associazione con altri, si proporranno di realizzare questo sacro proposito, daranno un segnale che non tutto del Paradiso terrestre è andato perduto. Ciò comincia a crescere dentro di noi e si espande fuori di noi, facendo veramente della Madre Terra la vera e unica Casa Comune in cui possiamo vivere insieme nella fraternità, nell’amore, nella giustizia, nella pace e nella gioiosa celebrazione della vita. Sono sogni? Sì, sono i Grandi Sogni, necessari, che anticipano la realtà futura.

Leonardo Boff, ecoteologo della famiglia francescana (Traduzione dal portoghese di Gianni Alioti)

Biden-Putin: “è stato un vertice tra nemici, vale il fatto di essersi parlati”. Intervista ad Anna Zafesova

In questa intervista, con Anna Zafesova giornalista della Stampa, approfondiamo, a bocce ferme, il significato del vertice Biden-Putin  che si è tenuto due giorni fa a Ginevra

Anna, hai scritto sul tuo giornale, La Stampa, a commento del vertice di Ginevra, che “i tempi dei complimentI e delle pacche sulle spalle tra Mosca e Washington, sono lontani, si torna a casa nemici come prima”. Un giudizio duro. Perché questo pessimismo? Eppure Putin ha parlato di un “lampo di speranza”…

Non mi farei ingannare da frasi di circostanza. I media spesso scambiano la diplomazia con le serie dei supereroi e cominciano ad aspettarsi litigate in diretta, e a prendere al valore facciale le frasi pronunciate. Il fatto stesso che il vertice sia durato molto meno del previsto, e che Putin subito dopo la sua interruzione prematura sia corsi dai giornalisti a esternare tutto il suo fastidio nei confronti degli USA, è più che sintomatico. Comunque, basta guardare la lista dei dossier su cui USA e Russia hanno avuto un terreno comune negli ultimi anni, e quella degli argomenti discussi a Ginevra su cui c’è stato un minimo di consenso: tranne un impegno a garantire la stabilità nucleare (e ci mancherebbe che non ci fosse stato nemmeno quello) e a rimandare gli ambasciatori a Washington e a Mosca, sul resto non c’è stato alcun progresso.

Parliamo dei due protagonisti. Putin si è dimostrato abile propagandista, oserei dire spudorato, nel riaffermare le sue ragioni, Biden è stato “professionale” nelle tener ferma la posizione americana su alcuni dossier caldi. Per qualche Osservatore il vertice per Biden è stata “una missione compiuta”. Condividi? O, forse, si è troppo ottimisti?

Condivido. Credo sia stato molto asciutto nel definire le “linee rosse”, senza dare spazio alla politica-spettacolo o alzare le attese. Il fatto che Putin avesse sentito il bisogno di ribadire ossessivamente la propria propaganda è stato uno dei segnali che questo atteggiamento di Biden ha funzionato. Per quanto riguarda i risultati, abbiamo già detto che non c’erano attese di sorta da entrambe le parti: è stato un vertice tra nemici, dove vale già il fatto stesso di essersi parlati.

Per Putin, invece secondo altri osservatori, il vertice ha rappresentato un modo per uscire da un isolamento. Il riconoscimento ricevuto da Biden della Russia come superpotenza è musica per le sue) orecchie. Come spenderà, nella sua politica interna, questo vertice?

Non mi sembra che sia rimasto particolarmente soddisfatto. La propaganda, ovviamente, insisterà sulle presunte affinità di vedute e sul trattamento da pari riservato al leader russo, uno dei leit-motiv delle rivendicazioni russe. Ma Biden ha detto anche tante altre cose, è stato molto abile nel lanciare messaggi: per esempio, la frase apparentemente di distensione che lui non crede che Putin voglia lanciare la guerra fredda, per esteso suona come “se hai qualche migliaio di chilometri di frontiera con la Cina e un’economia debole, non apri una guerra fredda”. Un giudizio sferzante sulla libertà di manovra dell’avversario, che il Cremlino si legherà al dito come si era legato al dito il declassamento a “potenza regionale” deciso da Barack Obama.

Per Navalny le parole che Biden ha speso su di lui (“se dovesse morire le conseguenze per la Russia sarebbero devastanti”) sono rassicuranti?

Si, nei limiti nei quali possa essere rassicurato nella situazione in cui si trova. Certamente il regime di Putin si rende conto che una morte violenta del suo oppositore principale sarebbe controproducente anche all’interno della Russia stessa, d’altra parte proprio per questo aveva cercato di avvelenarlo in segreto. Però non possiamo nemmeno escludere che, se qualcuno del regime considerasse che sarebbe meglio rischiare le “conseguenze devastanti” per sbarazzarsi del problema, Navalny si troverebbe in un pericolo ancora più grave di quello che vive adesso.

Su quale dossier, realisticamente, pensi che si possa raggiungere un qualche risultato positivo?

Sul disarmo nucleare, o meglio, sul mantenimento dell’equilibrio attuale, sperare in un ulteriore disarmo mi sembra irrealistico. Anche perché per il Cremlino la parità strategica non solo è una delle dimostrazioni del proprio status, ma anche un obiettivo non facile da mantenere: se gli Usa decidessero di rompere gli accordi e riprendere la corsa al riarmo, lo sforzo per l’economia russa potrebbe essere impossibile. Non vedo molti altri spazi di dialogo per ora, forse qualche dichiarazione sul clima o qualche iniziativa culturale o umanitaria, ma in questo momento perfino su un dossier globale come la lotta alla pandemia la Russia ha posizioni e interessi opposti.

Per l’Europa cosa può significare questo vertice?

Il ritorno dell’America come partner strategico. Per la parte dell’Europa che teme l’espansionismo e le ingerenze russe è una buona notizia, per quelle forze del vecchio continente che speravano di usare Putin per rafforzare il fronte sovranista un po’ meno. Si può sperare – per ora poco – in maggiori tutele su argomenti come la cyberwar o lo spionaggio russo, e i Paesi dell’Europa dell’Est hanno maggiori garanzie di sostegno politico e assistenza pratica contro eventuali rischi di “guerra ibrida”.  Su questo Biden ha mandato segnali chiari, ma non è detto che siano stati recepiti come sperava.

Per la Cina invece cosa rappresenta?

Francamente credo nulla. L’idea che la Russia attuale possa cambiare alleanze e “schierarsi con l’Occidente contro la Cina” potrebbe funzionare soltanto in una partita di Risiko. La Russia dipende già economicamente dalla Cina, che ha un potenziale incommensurabile rispetto a quello russo, e ne ha piena consapevolezza. Politicamente, Pechino non ha nessuna intenzione di farsi trascinare nel contenzioso di Putin contro gli USA: XI Jinping non è mosso dal risentimento, dipende troppo dalle esportazioni verso Ovest, non le rischiare conflitti, come dimostra anche il suo rifiuto di riconoscere l’annessione russa della Crimea. E la deriva dittatoriale della Russia garantisce un aumento dell’isolamento dall’occidente che la renderà sempre più dipendente da Pechino. Soltanto una Russia democratica potrebbe cominciare a temere un abbraccio troppo stretto con la Cina.

“LA RIPRESA È BUONA, MA SOLO LA CRESCITA DI COMPETENZE E SALARI LA CONSOLIDERÀ”. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Negli ultimi mesi, le previsioni di crescita 2021 per l’Europa si sono attestate su buoni livelli, in particolare per il nostro Paese. Il trend di ripresa della produzione industriale ormai costante da un anno a questa parte è del resto indice del fatto che lo shock economico – che segue a quello pandemico – è ormai superato. Resta l’incognita di nuove ondate ma, quantomeno per l’anno in corso, gli istituti economici hanno pochi dubbi su quello che sarà il prodotto dell’economia. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, anche alla luce degli esiti del G7 in Cornovaglia.

Sabella, anzitutto, cosa possiamo dire dopo questo G7?

Il G7 ci consegna l’evidenza di quello scenario che avevo anticipato un anno fa nel mio libro “Ripartenza verde” (http://confini.blog.rainews.it/2020/07/15/ripartenza-verde-come-il-nuovo-whatever-it-takes-della-bce-intervista-a-giuseppe-sabella/): Europa e USA stanno ricostituendo l’alleanza atlantica, certo in nuove forme. Biden e Draghi ai vertici sono una contingenza storica che certamente favorisce questo nuovo corso, ma lo stesso Trump avrebbe cercato nuove intese con l’Unione Europea. Era inevitabile. Oggi la Cina è temuta non solo per quello che ha causato con la pandemia ma anche in ragione della sua potenza e fragilità economica. Non dimentichiamoci che gli investimenti e gli interessi dell’Occidente nel mondo asiatico sono ancora tanti. E che, per quanto sia ancora l’economia da inseguire, la Cina presenta da tempo segnali di squilibrio e di difficoltà di tenuta.

Concretamente, a cosa possono portare i nuovi intendimenti di questo importante summit?

Le nuove intese tra Europa e USA da una parte hanno l’effetto di contenere i rapporti tra UE e Cina: non dimentichiamo che a gennaio, a Davos, Angela Merkel ha criticato duramente Xi Jinping sul piano della gestione della pandemia. Mi spiego meglio: la Cina viene attaccata dal suo più importante partner commerciale, la Germania. È il segno evidente che qualcosa è cambiato nei rapporti tra il Vecchio continente e il mondo asiatico. Ciò in primis renderà più autonomo il mercato europeo dai prodotti cinesi, come del resto ambisce a fare il programma Green Deal già dal 2019. Dall’altro lato, USA e Europa vogliono coinvolgere l’Africa nella nuova globalizzazione: Biden e Draghi in particolare hanno condiviso l’idea di un piano di investimenti infrastrutturali nel continente africano che avrà come effetto anche quello di contenere i flussi migratori. Credo che questa si prospetta come una svolta decisiva, sia sul piano economico che su quello sociale.

Veniamo al nostro Paese: quanto questo nuovo scenario è propizio per la nostra economia?

Credo che l’Italia oggi si presenta all’appuntamento con la storia in una condizione piena di tensioni e contraddizioni. Ma ciò non significa che mancheremo l’occasione. Credo anzi che prevarrà la nostra eccellenza, ma lo sforzo che il Paese è chiamato a fare è notevole. A ogni modo, la crescita passa in primo luogo attraverso il rilancio delle filiere produttive. Sappiamo di avere in casa i migliori prodotti del manufacturing mondiale ma c’è anzitutto una parte di imprese che resta lontana da quell’innovazione che domani diventerà ordinaria. Sono tutte imprese – e sono tante – destinate a chiudere. Oltretutto, la pandemia ha messo a rischio 500 milioni di posti di lavoro in tutto il mondo di cui 100 milioni persi in modo permanente. In Italia i posti di lavoro persi ammontano a quasi 1 milione. Insomma, il problema della ricostruzione è un problema molto serio. E, al momento, le incognite della pubblica amministrazione, della giustizia, della burocrazia e della capacità de territori di farsi ecosistemi – aspetto fondamentale per accompagnare lo sviluppo – pesano enormemente sul nostro futuro. Anche se, come dicevo prima, penso che il nostro Paese libererà le migliori risorse che ha. Del resto, le previsioni di crescita dell’Italia – da parte di Ocse, FMI e agenzie di rating – sono superiori alle medie europee e alla stessa Germania.

La risposta all’emergenza sociale, che ancora non è finita, si calcola sia costata 100 miliardi al nostro Paese. Se consideriamo i fondi europei, siamo in presenza di livelli record del debito che la stessa Banca d’Italia ci ha segnalato proprio ieri. Quanto è sostenibile questo indebitamento?

Naturalmente questo è un punto critico, al di là del fatto che tutti i Paesi e tutte le economie si stanno indebitando. Come scriveva Mario Draghi sul Financial Times il 25 marzo dello scorso anno – giorno prima che iniziassero i lavori del Consiglio europeo che ha poi portato al Recovery Plan (o Next Generation EU) – “La pandemia è una tragedia umana di proporzioni bibliche. Una profonda recessione è inevitabile. È chiaro che la risposta deve riguardare un significativo aumento del debito pubblico”. Il punto è, però, che tra 3/4 anni vi saranno economie che hanno fatto fruttare l’investimento del debito ed economie che non ne saranno state capaci. Le prime avranno sì un indebitamento importante ma altrettanto lo sarà la ricchezza prodotta, il pil. E, quindi, il debito risulterà sostenibile. Sono pronto a scommettere che tra queste vi saranno USA, Germania, Francia, UK: i loro sistemi economici sono sistemi virtuosi, insieme alla capacità delle loro istituzioni di accompagnare lo sviluppo economico. Le seconde, invece, subiranno potenti contraccolpi, come in precedenza Grecia e Spagna per non andare lontano. Venendo all’Italia, il nostro Paese ha caratteristiche per evitare situazioni drammatiche ma non c’è più tempo da perdere. E non possiamo più permetterci di sprecare risorse, cosa in cui ci siamo specializzati negli ultimi anni.

Cosa serve in tal senso al Paese per avviare uno stabile ciclo di sviluppo economico e per ritrovarsi tra qualche anno insieme alle altre economie avanzate e non tra i Paesi in recessione?

A parte le riforme che del resto il PNRR prevede e che rispondono ai problemi che sollevavo pocanzi – PA, giustizia, burocrazia, ma anche fisco, infrastrutture, etc. – la cosa fondamentale è che servono risorse umane e competenze: le sapremo individuare? Non è un problema di poco conto. Se le istituzioni devono accompagnare lo sviluppo economico, si presuppone che alla guida di istituzioni ed enti locali – questi ultimi avranno un ruolo importantissimo – ci siano dirigenti che sanno quel che fanno, che sono competenti. Questo è ahimè un punto molto dolente che in alcuni territori impedirà la crescita o la limiterà, anche nel cosiddetto nord produttivo. E poi, il problema dei salari non è soltanto una rivendicazione. Al di là del fatto che le retribuzioni italiane sono da tempo inferiori di circa il 30% a quelle tedesche e francesi – anche per poca efficacia delle politiche contrattuali di ridistribuzione della ricchezza prodotta – il punto è che il nuovo ciclo prevede due fattori ineludibili: costi crescenti dei prodotti e dell’inflazione. Questo per la politica monetaria espansiva – lo abbiamo visto bene negli USA – ma anche per effetto di una limitazione crescente del prodotto a basso costo. Von der Leyen, a questo proposito, ha parlato più volte di dazi europei. È evidente che se a tutto questo non si risponde sul piano dei salari, il sistema non sta in piedi. Non a caso, a novembre 2020 l’Unione Europea ha presentato la sua direttiva sul salario minimo: non è obbligatorio che sia la legge a stabilirlo, lo possono fare anche i contratti di lavoro; ma, appunto, l’adeguamento dei salari è richiesto agli stati membri dall’Unione. Del resto, solo dalla crescita dei salari può conseguire la crescita dei consumi e della domanda interna: è l’aspetto decisivo per consolidare la ripresa.