“LA RIPRESA È BUONA, MA SOLO LA CRESCITA DI COMPETENZE E SALARI LA CONSOLIDERÀ”. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Negli ultimi mesi, le previsioni di crescita 2021 per l’Europa si sono attestate su buoni livelli, in particolare per il nostro Paese. Il trend di ripresa della produzione industriale ormai costante da un anno a questa parte è del resto indice del fatto che lo shock economico – che segue a quello pandemico – è ormai superato. Resta l’incognita di nuove ondate ma, quantomeno per l’anno in corso, gli istituti economici hanno pochi dubbi su quello che sarà il prodotto dell’economia. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, anche alla luce degli esiti del G7 in Cornovaglia.

Sabella, anzitutto, cosa possiamo dire dopo questo G7?

Il G7 ci consegna l’evidenza di quello scenario che avevo anticipato un anno fa nel mio libro “Ripartenza verde” (http://confini.blog.rainews.it/2020/07/15/ripartenza-verde-come-il-nuovo-whatever-it-takes-della-bce-intervista-a-giuseppe-sabella/): Europa e USA stanno ricostituendo l’alleanza atlantica, certo in nuove forme. Biden e Draghi ai vertici sono una contingenza storica che certamente favorisce questo nuovo corso, ma lo stesso Trump avrebbe cercato nuove intese con l’Unione Europea. Era inevitabile. Oggi la Cina è temuta non solo per quello che ha causato con la pandemia ma anche in ragione della sua potenza e fragilità economica. Non dimentichiamoci che gli investimenti e gli interessi dell’Occidente nel mondo asiatico sono ancora tanti. E che, per quanto sia ancora l’economia da inseguire, la Cina presenta da tempo segnali di squilibrio e di difficoltà di tenuta.

Concretamente, a cosa possono portare i nuovi intendimenti di questo importante summit?

Le nuove intese tra Europa e USA da una parte hanno l’effetto di contenere i rapporti tra UE e Cina: non dimentichiamo che a gennaio, a Davos, Angela Merkel ha criticato duramente Xi Jinping sul piano della gestione della pandemia. Mi spiego meglio: la Cina viene attaccata dal suo più importante partner commerciale, la Germania. È il segno evidente che qualcosa è cambiato nei rapporti tra il Vecchio continente e il mondo asiatico. Ciò in primis renderà più autonomo il mercato europeo dai prodotti cinesi, come del resto ambisce a fare il programma Green Deal già dal 2019. Dall’altro lato, USA e Europa vogliono coinvolgere l’Africa nella nuova globalizzazione: Biden e Draghi in particolare hanno condiviso l’idea di un piano di investimenti infrastrutturali nel continente africano che avrà come effetto anche quello di contenere i flussi migratori. Credo che questa si prospetta come una svolta decisiva, sia sul piano economico che su quello sociale.

Veniamo al nostro Paese: quanto questo nuovo scenario è propizio per la nostra economia?

Credo che l’Italia oggi si presenta all’appuntamento con la storia in una condizione piena di tensioni e contraddizioni. Ma ciò non significa che mancheremo l’occasione. Credo anzi che prevarrà la nostra eccellenza, ma lo sforzo che il Paese è chiamato a fare è notevole. A ogni modo, la crescita passa in primo luogo attraverso il rilancio delle filiere produttive. Sappiamo di avere in casa i migliori prodotti del manufacturing mondiale ma c’è anzitutto una parte di imprese che resta lontana da quell’innovazione che domani diventerà ordinaria. Sono tutte imprese – e sono tante – destinate a chiudere. Oltretutto, la pandemia ha messo a rischio 500 milioni di posti di lavoro in tutto il mondo di cui 100 milioni persi in modo permanente. In Italia i posti di lavoro persi ammontano a quasi 1 milione. Insomma, il problema della ricostruzione è un problema molto serio. E, al momento, le incognite della pubblica amministrazione, della giustizia, della burocrazia e della capacità de territori di farsi ecosistemi – aspetto fondamentale per accompagnare lo sviluppo – pesano enormemente sul nostro futuro. Anche se, come dicevo prima, penso che il nostro Paese libererà le migliori risorse che ha. Del resto, le previsioni di crescita dell’Italia – da parte di Ocse, FMI e agenzie di rating – sono superiori alle medie europee e alla stessa Germania.

La risposta all’emergenza sociale, che ancora non è finita, si calcola sia costata 100 miliardi al nostro Paese. Se consideriamo i fondi europei, siamo in presenza di livelli record del debito che la stessa Banca d’Italia ci ha segnalato proprio ieri. Quanto è sostenibile questo indebitamento?

Naturalmente questo è un punto critico, al di là del fatto che tutti i Paesi e tutte le economie si stanno indebitando. Come scriveva Mario Draghi sul Financial Times il 25 marzo dello scorso anno – giorno prima che iniziassero i lavori del Consiglio europeo che ha poi portato al Recovery Plan (o Next Generation EU) – “La pandemia è una tragedia umana di proporzioni bibliche. Una profonda recessione è inevitabile. È chiaro che la risposta deve riguardare un significativo aumento del debito pubblico”. Il punto è, però, che tra 3/4 anni vi saranno economie che hanno fatto fruttare l’investimento del debito ed economie che non ne saranno state capaci. Le prime avranno sì un indebitamento importante ma altrettanto lo sarà la ricchezza prodotta, il pil. E, quindi, il debito risulterà sostenibile. Sono pronto a scommettere che tra queste vi saranno USA, Germania, Francia, UK: i loro sistemi economici sono sistemi virtuosi, insieme alla capacità delle loro istituzioni di accompagnare lo sviluppo economico. Le seconde, invece, subiranno potenti contraccolpi, come in precedenza Grecia e Spagna per non andare lontano. Venendo all’Italia, il nostro Paese ha caratteristiche per evitare situazioni drammatiche ma non c’è più tempo da perdere. E non possiamo più permetterci di sprecare risorse, cosa in cui ci siamo specializzati negli ultimi anni.

Cosa serve in tal senso al Paese per avviare uno stabile ciclo di sviluppo economico e per ritrovarsi tra qualche anno insieme alle altre economie avanzate e non tra i Paesi in recessione?

A parte le riforme che del resto il PNRR prevede e che rispondono ai problemi che sollevavo pocanzi – PA, giustizia, burocrazia, ma anche fisco, infrastrutture, etc. – la cosa fondamentale è che servono risorse umane e competenze: le sapremo individuare? Non è un problema di poco conto. Se le istituzioni devono accompagnare lo sviluppo economico, si presuppone che alla guida di istituzioni ed enti locali – questi ultimi avranno un ruolo importantissimo – ci siano dirigenti che sanno quel che fanno, che sono competenti. Questo è ahimè un punto molto dolente che in alcuni territori impedirà la crescita o la limiterà, anche nel cosiddetto nord produttivo. E poi, il problema dei salari non è soltanto una rivendicazione. Al di là del fatto che le retribuzioni italiane sono da tempo inferiori di circa il 30% a quelle tedesche e francesi – anche per poca efficacia delle politiche contrattuali di ridistribuzione della ricchezza prodotta – il punto è che il nuovo ciclo prevede due fattori ineludibili: costi crescenti dei prodotti e dell’inflazione. Questo per la politica monetaria espansiva – lo abbiamo visto bene negli USA – ma anche per effetto di una limitazione crescente del prodotto a basso costo. Von der Leyen, a questo proposito, ha parlato più volte di dazi europei. È evidente che se a tutto questo non si risponde sul piano dei salari, il sistema non sta in piedi. Non a caso, a novembre 2020 l’Unione Europea ha presentato la sua direttiva sul salario minimo: non è obbligatorio che sia la legge a stabilirlo, lo possono fare anche i contratti di lavoro; ma, appunto, l’adeguamento dei salari è richiesto agli stati membri dall’Unione. Del resto, solo dalla crescita dei salari può conseguire la crescita dei consumi e della domanda interna: è l’aspetto decisivo per consolidare la ripresa.

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