Francesco di Roma e Francesco d’Assisi: la fraternità universale secondo Leonardo Boff. Un testo di Andrea Grillo

Pubblichiamo, per gentile concessione, questa bella recensione del libro di Leonardo Boff , uscito recentemente per Castelvecchi,   “Abitare  la terra. Quale via per la fraternità universale?”. Andrea Grillo è docente di teologia al Pontificio Ateneo S.Anselmo di Roma.

 Un gustoso libretto, introdotto da una ricca Prefazione di Pierluigi Mele – L. Boff, Abitare la terra. Quale via per la fraternità universale? Roma, Castelvecchi, 2021, pp.76 – offre una rilettura appassionata del “magistero fraterno” di papa Francesco, in una forte sintonia con la tradizione francescana. E lo fa collocandolo nell’ambito delle reazioni contro la crisi ecologica e culturale, economica e politica, che sta minacciando la vita umana e il sistema complessivo di esistenza del nostro pianeta.

Di fronte alle gravi minacce che vengono elencate nelle prime pagine del volume, le grandi reazioni “pubbliche” sono state soprattutto tre: la Carta della Terra (2003) e poi le due encicliche Laudato sì (2016) e Fratelli tutti (2020) di papa Francesco. Di fronte a questo allarme, che gli ultimi venti anni hanno potentemente sollevato alla attenzione comune, la reazione è stata spesso quella che Boff trova bene rappresentata da un apologo di Kierkegaard, ripreso da J. Ratzinger all’inizio del suo libro forse più famoso, Introduzione al cristianesimo: le grida di allarme vengono spesso interpretate come il trucco di un clown, come uno scherzo, e così il circo brucia! La radice di questa indifferenza, simile a quella dei tempi di Noé, è il capitalismo liberista e neo-liberista: la aggressione alla natura e all’uomo, in nome di una libertà-dominio, determina progressivamente una ingiustizia ecologica e una ingiustizia sociale che arriva a giustificare l’assassinio. In tal modo “la razionalità analitico strumentale si è rivelata assolutamente irrazionale” e votata alla autodistruzione.

Al cospetto di questa situazione, l’enciclica Fratelli tutti propone una rilettura della tradizione fondata sul concetto di “fraternità”, come condizione per incidere davvero sulla questione ecologica. Si tratta, in sostanza, di passare, nella comprensione dell’uomo, dalla figura del dominus alla figura del frater. Questo è il sogno e il progetto di Fratelli tutti, come proposta di un “nuovo paradigma per la società mondiale”. Per arrivare a questo nuovo paradigma, occorre anzitutto mettere in questione il modello attuale di sviluppo, basato su quattro pilastri assai fragili, ossia quelli del mercato, del neoliberismo, dell’individualismo e della devastazione della natura: il profilo economico, politico, culturale ed ecologico sono strettamente connessi e devono essere discussi in modo unitario.

Come si risponde a questa deriva, che anche la pandemia globale rischia solo di accentuare, con una concentrazione ancora più forte di tutto il potere effettivo nelle mani di pochissimi? La risposta viene da ciò che di più tipico c’è nell’uomo e nella donna: l’amore, un amore liberato dalla sua dimensione solo individuale, e che si fa amicizia, fraternità, istituzione di cura, principio di assistenza, cooperazione. Si tratta di “generalizzare e universalizzare ciò che era soggettivo e individuale”: questa è la novità proposta da papa Francesco. Qui L. Boff trova la radice di un “nuovo paradigma”, quello del frater, per illustrare il quale procede ad un confronto con il modello classico, quello del dominus.

Il modello dell’uomo-dominus appare autocentrato e indifferente agli altri e all’ambiente. Al di là delle radici a cui attinge – che secondo Boff vanno sorprendentemente da Descartes alla Scuola di Francoforte – può essere rappresentato da un “pugno chiuso che sottomette”, mentre il modello dell’ uomo-frater si lascia intendere come una “mano che accarezza e che si intreccia con le altre”. Va detto, tuttavia, che il primo modello ha strutturato moltissime esperienze politiche e sociali, non solo in Europa, mentre il secondo resta in larga parte una utopia, un sogno, con poche realizzazioni confinate o in regioni isolate del mondo o in forme limitate di esperienza religiosa.

Che fare, allora? Con una serie di virtù – tenerezza, gentilezza, solidarietà – che hanno nella parabola del Buon Samaritano la loro figura narrativa, si tratta di “partire dal basso”. Dimensione locale, regionale, nazionale e mondiale si susseguono in questo ordine. Ma la ispirazione di questo “nuovo paradigma”, che esige forme concrete assai innovative, riposa comunque sul contributo che le grandi religiosi potranno dare a questa rivoluzione. Universalità di Dio e particolarità degli ultimi sono l’orizzonte di senso primario della fratellanza, che solo può sorreggere questo impegno. Francesco papa, ispirato da Francesco poverello, ci indica la strada e ci dà speranza.

Per comprendere questo testo intenso di L. Boff, come interprete di papa Francesco, occorre rammentare che l’uno, come l’altro, sono figli dell’america latina. Dove la storia moderna inizia, in qualche modo, con una “shoah anticipata”. Il terribile dato che si legge a p. 47 – in 70 anni la popolazione del Messico, all’inizio della conquista, passò da 20 milioni a 1,7 milioni! – fa comprendere come il “sogni di fraternità” venga dal primo papa americano. Ma questo conferma anche la tendenza intrinseca, nell’uomo, alla “volontà di potenza”, che annulla l’amore. Un discorso “ecologico” e un discorso “antropologico” sono così strettamente legati.

Per frenare in un modo efficace questa inclinazione distruttiva e autodistruttiva, Boff indica la via offerta da Francesco di Assisi: “umiltà radicale e pura semplicità” (52). L’ultima parte del testo è una meditazione accorata, segnata anche da una componente autobiografica, in cui l’autore medita a lungo sulle svolte nella vita di Francesco di Assisi, per comprendere a fondo come la possibilità di una “fraternità universale” passi per una conversione dello sguardo dell’uomo, per una singolare sintonia con tutto il creato. Già in lui la tensione tra carisma e potere non tardò ad emergere. Francesco accettò questa come una necessità. Ma gli sviluppi della sua esperienza furono in larga parte di carattere personale, non sociale. La condizione per un tale sviluppo – che sarebbe appunto il nuovo paradigma di Fratelli tutti – è “ che ogni persona si metta in una posizione di umiltà, di prossimità con l’altro e la natura, superando le disuguaglianze e vedendo in ciascuno un fratello e una sorella con i quali condividiamo lo stesso humus, la terra delle nostre comuni origini” (58).

Occorre allora “scommettere sulla fraternità”. Questo si può fare solo a certe condizioni, ossia riconoscendo che:

  1. a) la “condizione umana” è di essere in equilibrio tra sapiens e demens, tra ordine e caos.
  2. b) la rinuncia al potere-dominio è il solo spazio per l’incontro fraterno
  3. c) occorre amare il prossimo non solo “come”, ma “più” di se stessi.

La sintesi che Francesco di Assisi ha offerto come un grande profeta nel cuore del Medioevo diventa oggi di una nuova ed esigente attualità, soprattutto dopo la crisi pandemica, che ha mostrato in modo nuovo e sorprendente la correlazione radicale in cui vivono tutti gli uomini e le donne anche oggi: di fronte ad essa la parola del Francesco medievale e quella del Francesco contemporaneo risuonano non anzitutto come proposta ascetica, ma come ispirazione ad un nuovo ordine mondiale, che ha condizioni istituzionali e personali. Questo è il sogno che Boff presenta nel suo “picciol libro”, ad un tempo libro spirituale e libro politico, che non solo da Pierluigi Mele è introdotto con accurata dedizione, ma a Pierluigi Mele è anche dedicato con fraterna amicizia.

Dal sito: http://www.cittadellaeditrice.com/munera/francesco-di-roma-e-francesco-dassisi-la-fraternita-universale-secondo-leonardo-boff/

Con droni armati e missili Cruise l’Italia cambia faccia. Intervista a Maurizio Simoncelli

Missili Cruise (LaPresse)

Missili Cruise – immagine d’archivio (LaPresse)

In questi ultimi giorni sono uscite due notizie, nell’ambito delle dotazioni dei sistemi d’arma delle nostre Forze Armate, che faranno cambiare il profilo militare dell’Italia. Ci riferiamo ai droni armati e ai missili Cruise. Dotazioni che pongono problemi di ordine tattico-strategico e di controllo politico assai rilevanti. Cerchiamo di approfondire, in questa intervista con Maurizio Simoncelli, alcuni di questi nodi.


Maurizio Simoncelli è Vicepresidente e cofondatore dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo.
Storico ed esperto di geopolitica, oltre ad aver realizzato numerose ricerche sull’industria militare, sulle forze armate italiane e sulla geopolitica dei conflitti, ha collaborato come docente in diversi master universitari e corsi d’istruzione superiore. E’ membro del CISRSM – Centro interuniversitario di studi e ricerche storico–militari e coordina l’attività documentaria del sito www.archiviodisarmo.it.

 

SIMONCELLI, l’uso dei droni armati, in recenti scenari di guerra, ha fatto sempre discutere l’opinione pubblica per molteplici ragioni che approfondiremo tra poco. Intanto guardiamo all’Italia. Pare, secondo un comunicato della Rete Italiana Pace e Disarmo, che il Ministero della difesa sia intenzionato ad investire su questo sistema d’arma. Su che basi si può affermare questo? 
L’Italia si è già dotata da oltre un quindicennio di 6 droni militari, utilizzati in missioni di intelligence, sorveglianza, ricognizione e acquisizione del bersaglio in diversi contesti, soprattutto in varie missioni all’estero (Iraq, Afghanistan, Libia, Corno d’Africa ecc.). I droni sono in dotazione al 32° Stormo di Amendola (Foggia). Il Documento Programmatico Pluriennale 2021 del Ministero della Difesa prevede un investimento di 168 milioni di euro con una prima tranche finanziata di 59 milioni distribuiti in 7 anni.

Che tipo di drone?
I droni che l’Italia acquistò a suo tempo dagli Stati Uniti sono gli Apr classe Male (Medium Altitude Long Endurance), Mq-1A Predator e Mq-9 Reaper, prodotti dalla General Atomics, e nel Parlamento si parlò allora solo di un utilizzo non armato. Successivamente nel 2011 si è richiesto agli USA l’autorizzazione ad armarli ed ora lo stiamo facendo con la loro approvazione, dato che servivano determinati componenti tecnologici per questo utilizzo aggressivo.
Il Reaper (mietitore), capace di operare per 27 ore da un’altezza di 15 km in ogni condizione di tempo in ambiente diurno o notturno, è lungo 11 metri ed ha un’apertura alare di 20 metri, potendo viaggiare ad una velocità di 450 km all’ora, guidato satellitarmente senza rifornimenti per 2.000 km in missioni di ricognizione e per 1.200 qualora fosse armato di missili. Può portare quattro missili aria-terra Agm Hellfire, nonché due bombe a guida laser GBU-12 Paveway o due bombe a guida Gps CPU 38 Jdam. Il costo unitario si aggira sui 10,5 milioni di dollari.

C’è un progetto di LEONARDO? Come si svilupperebbe il programma? Con quali costi?
In ambito europeo è stata lanciata sin dal 2013 una cooperazione industriale e politica in questo ambito tra Germania, Francia , Italia e Spagna per un drone europeo per sorveglianza e difesa, detto «Male Rpas» o «Eurodrone». Capofila è la Germania con Airbus, poi la Francia con la Dassault e l’Italia con la Leonardo, che ha una quota del 25%. Airbus opera nell’ambito della struttura, mentre Dassault si occupa del sistema e Leonardo dell’equipaggiamento. Oltre alle funzioni di ricognizione e di controllo, sarà anche armato e dotato di doppio motore. Dovrebbe essere capace di operare ognitempo 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Il programma dovrebbe costare sui 7 miliardi di euro. All’Italia dovrebbero giungere cinque di questi sistemi, ognuno composto da 3 velivoli e 2 stazioni di controllo a terra.

L’utilizzo di questo Sistema d’arma ha cambiato parecchio il volto della guerra. Quali sono le opacità e rischi nel loro utilizzo?
Attraverso l’uso militare dei droni è possibile monitorare il territorio, sorvegliarlo rispetto ad eventuali pericoli ed evitare determinati rischi per le nostre truppe, usufruendo di un vantaggio significativo rispetto ad un eventuale avversario che non ne sia dotato. In tal modo si evita l’esposizione fisica dei soldati e si controlla, anche a notevole distanza, comunque uno spazio critico. Se poi si ha l’utilizzo armati dei droni, si può condurre un attacco senza alcun rischio vitale per le nostre truppe, dato che l’equipaggio che li controlla risiede lontano in una plancia di comando, utilizzando anche informazioni provenienti da altre fonti (satelliti, intelligence ecc.). Si possono condurre azioni di guerra senza intervenire fisicamente con proprie truppe sul territorio interessato, potendo evitare di conseguenza anche di rendere noto all’opinione pubblica e ai mass media l’intervento stesso. Gli Stati Uniti, che da anni li stanno usando massicciamente, sono un esempio di questa opacità anche rispetto alle conseguenze letali. Non si sa ufficialmente il numero esatto né delle missioni né delle vittime, tra le quali non di rado sono coinvolti civili innocenti, dato che i cosiddetti bombardamenti chirurgici non sono innocui per chi ne è estraneo. Nello studio Droni militari: proliferazione o controllo? che abbiamo condotto nel 2017 con l’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo avevamo già rilevato da un lato la difficoltà enorme nel determinare il numero esatto di vittime civili e dall’altro la quasi totale assenza d’informazione ufficiale sul loro uso. Per di più a volte vengono usati in situazioni non di guerra per eliminare supposti avversari senza che vi sia stata una condanna a morte da parte di un tribunale regolare, cioè si hanno veri e propri omicidi extragiudiziali, estremamente discutibili dal punto di vista del diritto.

Dal punto di vista strategico per l’Italia cosa significherebbe questo Sistema d’arma? È necessario?
L’uso di questi sistemi d’arma presuppone l’intervento armato a grande distanza nell’ambito di una proiezione di forza su scenari sempre più ampi, coerentemente con l’assetto che da anni le nostre FF.AA. stanno prendendo con sistemi d’arma non difensivi ma aggressivi come le nuove portaerei, i cacciabombardieri nucleari F35 e quant’altro, per operare a distanza dal nostro territorio nazionale, nonostante il famoso articolo 11 della Costituzione. D’altronde il “Libro bianco per la sicurezza internazionale e la difesa” del Ministero della Difesa nel 2015 confermava questa crescente proiezione della nostra azione su teatri anche assai lontani (l’Afghanistan lo conferma, peraltro con risultati disastrosi).

Una scelta del genere dovrebbe essere analizzata dal Parlamento. Vi sono infatti grossi problemi di trasparenza e di controllo che l’utilizzo (del drone) pone. In particolare per le morti illegali e gli impatti negativi. È così?
In effetti l’utilizzo di questi sistemi d’arma pone numerosi problemi e servirebbero delle precise linee guida determinate dal Parlamento: dove usarle, come, perché, contro chi, ecc. Analogamente è necessaria una massima trasparenza nell’uso affinché si conoscano gli eventuali danni collaterali. Si potrebbero condurre azioni di guerra in teatri anche lontani e con conseguenze negative nella totale insaputa dell’opinione pubblica e dei mass media, nonché del Parlamento stesso. I paesi utilizzatori non di rado hanno compiuto per errore o per sottovalutazione stragi di civili, esacerbando ulteriormente l’ostilità della popolazione locale e avvantaggiando gli oppositori, terroristi compresi: vedi il recente caso del raid statunitense del 29 agosto a Kabul in cui sono stati uccisi 3 adulti e 7 bambini in cui è stata chiesta semplicemente “scusa per l’errore”!

Come controllare la proliferazione? Un controllo ONU?
Si calcola che attualmente siano oltre 100 i paesi che utilizzano droni militari di varie dimensioni e con varie capacità. Anche formazioni terroristiche e la criminalità organizzata ne dispongono, data la tecnologia ormai ampiamente diffusa e relativamente poco costosa. Il controllo che si può esigere nei paesi democratici, come già detto, può essere su due piani: il Parlamento deve indicare alle forze armate le linee guida fondamentali per il loro utilizzo in caso d’attacco e contemporaneamente esigere un’adeguata trasparenza ed informazione sul loro uso, affinché anche l’opinione pubblica e i mass media ne siano al corrente. Per questo si sta muovendo da tempo anche la società civile che nel nostro continente ha costituito il Forum europeo sui droni armati (EFAD), una rete di organizzazioni della società civile che lavorano per promuovere i diritti umani, il rispetto dello stato di diritto, il disarmo e la prevenzione. L’ONU, sistematicamente depotenziata e emarginata nel corso di questi anni, può far poco, se non approvare delle norme generali circa la responsabilità dell’uso nei confronti dei civili. Ma è difficile che le grandi potenze e i loro alleati le approvino e le rispettino.

Ultima domanda. È uscita, nei giorni scorsi, la notizia che la nostra Marina vuole dotarsi di missili Cruise. Un sistema d’arma assai particolare. Cosa significa questo e soprattutto se era così necessario?
I missili Cruise non seguono una traiettoria balistica (dal basso verso l’alto e poi i nuovo verso il basso contro l’obiettivo), ma viaggiano seguendo l’orografia dello spazio terrestre mediante un apparato GPS coordinato con sistemi satellitari, divenendo di difficile intercettazione con conseguenze significative sul clima d’insicurezza internazionale. Dal costo stimato di un milione di dollari ognuno, possono essere armati convenzionalmente o nuclearmente, con un raggio d’azione che negli ultimi modelli supera i 1.500 km. La collocazione su navi e sottomarini aumenta enormemente il raggio d’azione e la nostra proiezione di potenza militare cresce in modo significativo. Sarebbe utile sapere se il nostro Parlamento e il nostro Governo abbiano discusso di questa ulteriore dotazione di armamenti utile per una presenza armata in teatri sempre più lontani e per quali scopi. Ci stiamo preparando per uno scontro con il nostro alleato turco per le acque cipriote, per un’azione nel quadrante asiatico o altro? Non siamo più all’interno di un quadro di difesa costituzionale, ma di palese attacco. Sarebbe opportuno avere queste risposte prima che le FF.AA. acquistino tali missili evitando che il Parlamento abdichi al suo ruolo politico d’indirizzo in questo settore così importante.

“Salvare Assange è salvare la democrazia”. Intervista a Stefania Maurizi

A fine luglio del 2009, Julian Assange e la sua organizzazione contattarono Stefania Maurizi per la prima volta: avevano un documento sullItalia e volevano laiuto di un giornalista per verificarne lautenticità e linteresse pubblico. Da quel momento hanno lavorato fianco a fianco, loro per WikiLeaks, Stefania per il suo giornale – LEspresso e La Repubblica prima, oggi Il Fatto Quotidiano – alla pubblicazione di uninfinità di documenti segreti.
Dopo il terremoto WikiLeaks il prezzo da pagare per il giornalista e hacker è stato altissimo: Assange non ha mai più conosciuto la libertà. Chiuso in una cella di una delle più famigerate prigioni di massima sicurezza del Regno Unito, la Belmarsh Prison di Londra, lotta contro le più potenti istituzioni della Terra che da oltre un decennio lo vogliono fare a pezzi. Per il potere meno visibile e più pervasivo, Julian Assange è tra i peggiori criminali che esistano e, come tale, va punito nella maniera più brutale. Addirittura c’è chi chiede la pena di morte, per aver violato una legge del 1917, lEspionage Act, che vietava la diffusione di notizie riservate durante la Prima guerra mondiale. Il processo attualmente in corso a Londra (e che vede la partecipazione della stessa Maurizi nella veste di testimone) è accompagnato da una grande mobilitazione dellopinione pubblica: in sua difesa si sono pronunciati alcuni dei più importanti giornalisti dinchiesta internazionali, svariate organizzazioni per i diritti umani, lo stesso Consiglio dEuropa e lOnu che hanno espresso preoccupazione e sdegno richiamando il reato di tortura. Tutta la storia di Assange, dallesplosione di WikiLeaks in avanti, è un giallo incredibile che questo libro racconta con lo stile avvincente di un romanzo, uscito per Chiarelettere due settimane prima del ventesimo anniversario dellattentato alle Torri Gemelle di New York, evento a proposito del quale Assange portò alla luce una serie di documenti scottanti tramite Wikileaks.

Una vicenda lunga 10 anni che è un forte atto di denuncia nei confronti del potere segreto che governa le nostre democrazie.  In questa intervista approfondiamo alcuni aspetti del libro.  Stefania Maurizi scrive per Il Fatto Quotidiano è una delle giornaliste più vicine a Julian Assange da sempre: in Italia è stata la persona che ha diffuso i documenti di WikiLeaks. Partecipa come testimone al processo in corso a Londra per lestradizione di Assange negli Stati Uniti. È stata anche lei vittima dellattività di spionaggio presumibilmente per conto dei servizi segreti americani allinterno dellambasciata dellEcuador che ha ospitato per anni Assange accogliendo la sua richiesta di asilo politico. 

Stefania, il tuo libro è davvero un libro forte. È un atto di accusa ben documentato al “potere segreto” (ovvero a quelle entità statuali   che si sottraggono al controllo democratico). Partiamo dalla fondazione di Wikileaks. Come nasce e qual è la sua “filosofia”?

“Il Potere Segreto, che dà il titolo al mio libro e che ricostruisco con i documenti segreti rivelati da Wikileaks, è qualcosa di molto preciso: è il potere dello Stato schermato dal segreto di Stato, usato non per proteggere la sicurezza dei cittadini, ma per nascondere la criminalità di Stato ai più alti livelli e garantire l’impunità agli uomini delle istituzioni che commettono questi crimini. Quando parlo di criminalità di Stato ai più alti livelli intendo reati eccezionalmente gravi, come la falsificazione dell’intelligence che permise all’amministrazione Bush di trascinare gli Stati Uniti in una guerra devastante come quella dell’Iraq, in cui il nostro Paese ha avuto un ruolo sciagurato, perché ha concesso agli Stati Uniti tutto quello che Washington ha chiesto: basi, aeroporti, ferrovie per spostare truppe e armamenti, come rivelano i cablo della diplomazia USA pubblicati da WikiLeaks. E anche crimini tipo l’extraordinary rendition di Abu Omar: un uomo rapito a mezzogiorno a Milano, come fosse nel Cile di Pinochet. I nostri bravissimi magistrati, Armando Spataro e Ferdinando Pomarici, riuscirono a individuare i responsabili, 26 cittadini americani, quasi tutti agenti della Cia, riuscirono a ottenere per loro condanne definitive, eppure nessuno dei 26 ha fatto un solo giorno di galera: impunità assoluta. Mentre nei regimi, questo Potere Segreto è percepito anche dal cittadino comune, che si sente sotto controllo, oppresso da esso, nelle nostre democrazie, questo potere non è percepito dalla gente ordinaria. Nelle democrazie, i cittadini si interessano soprattutto al potere visibile, quello che decide delle loro pensioni, della loro sanità, del loro lavoro, e non pensano che questo Potere Segreto sia rilevante per le loro vite di persone comuni. E invece non è così. E’ un potere che decide eccome le loro vite e su cui loro non hanno alcun controllo, perché non hanno accesso alle informazioni su come opera, in quanto sono blindate dal segreto di Stato. Ma per la prima volta nella Storia, WikiLeaks ha aperto un profondo squarcio in questo Potere Segreto e ha permesso a miliardi di cittadini di tutto il mondo di avere accesso sistematico e senza restrizioni a milioni di documenti coperti da segreto che rivelano come opera. E’ per questo che Julian Assange ha fondato WikiLeaks il 4 ottobre 2006: è una creatura frutto della sua visione, anche se chiaramente non ha fatto tutto da solo, gli altri giornalisti di WikiLeaks hanno grandemente contribuito a renderlo possibile, e così avvocati, tecnici che hanno dato il loro contributo. Ed è per questo lavoro che dal 2010 in poi, quando ha rivelato i documenti segreti del governo americano, che Julian Assange non ha più conosciuto la libertà e rischia di finire per sempre in prigione negli Stati Uniti. La sua vita è appesa a un filo”.

Perché bisogna ritenere credibile Wikileaks? A quali criteri giornalistici risponde?

“E’ credibile perché, come tutte le organizzazioni giornalistiche, prima di pubblicare i documenti li verifica con un processo che, almeno fin dal 2010 e nella maggior parte dei casi, è stato portato avanti con noi media partner, ovvero noi giornalisti di media tradizionali che abbiamo accesso ai file in modo esclusivo per un periodo limitato. Noi facciamo le nostre verifiche sull’autenticità dei documenti, in parallelo a quelle fatte da WikiLeaks, e, una volta stabilito che sono autentici, noi pubblichiamo le nostre inchieste e i nostri articoli sui nostri giornali, mentre WikiLeaks pubblica i documenti originali, in modo che chiunque possa leggerli. Rendendoli accessibili a chiunque, WikiLeaks fa una cruciale opera di democratizzazione dell’informazione e della conoscenza, perché permette a chiunque di usarli per capire la realtà e anche per incidere su di essa. Per esempio, un cittadino tedesco di nome Khaled el-Masri, che è stato una vittima innocente delle extraordinary rendition della Cia ed è stato torturato e stuprato, ha potuto non solo scoprire informazioni cruciali sul suo caso nei cablo della diplomazia Usa rivelati da WikiLeaks – informazioni che non avrebbe potuto ottenere in nessun altro modo, perché coperte da segreto – ma ha anche potuto usare i cablo per cercare giustizia alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. E anche un gruppo di cittadini che lottano per tornare a vivere nel loro arcipelago, le Chagos Islands –  un paradiso a sud delle isole Maldive, che tra gli anni ’60 e ’70 il Regno Unito ha evacuato, costringendo gli abitanti all’esilio per trasformarle in una base militare degli Stati Uniti – hanno trovato un aiuto cruciale nei cablo per la loro lotta davanti alla giustizia britannica. Infine, rendendo i documenti accessibili a tutti, WikiLeaks contribuisce a dare potere ai lettori, riducendo l’asimmetria tra i giornalisti, che hanno accesso alle fonti primarie delle informazioni, e i lettori che invece non ce l’hanno. Quando un lettore ha accesso alle fonti primarie, può usarle per approfondire e anche per verificare come il giornalista ha lavorato sui materiali: ha nascosto qualcosa? Ha manipolato i documenti oppure ha fatto un buon servizio alla verità?”

Parliamo del suo leader, Julian Assange. Il capitolo in cui ricostruisci la sua personalità lo intitoli “Cypherpunk”. Perché?

“Non parlerei di ‘leader’ di WikiLeaks, ma di fondatore e direttore, come per tutte le altre organizzazioni giornalistiche. Oggi il direttore di WikiLeaks è il giornalista investigativo islandese Kristinn Hrafnsson, e Julian Assange rimane il fondatore, ma ovviamente non può dirigere l’organizzazione, essendo in prigione. Julian Assange è un Cypherpunk: da giovanissimo, negli anni ’90, era un assiduo collaboratore di questa mailing list, che erano appunto i Cypherpunk, un formidabile collettivo  di appassionati di privacy e crittografia, le cui idee hanno contribuito enormemente a trasformare la realtà. I Cypherpunk erano visionari e libertari. Includevano matematici come Eric Hughes dell’università della California, Berkeley, che aveva scritto il Manifesto del Cypherpunk e anche il fisico Timothy May, che aveva lavorato per il gigante dei microprocessori Intel e ne aveva tratto profitti così ingenti che, a trentaquattro anni, si era potuto permettere di andare in pensione, dopo aver calcolato che non avrebbe dovuto lavorare mai più nella sua vita. Politicamente avevano idee molto diverse tra loro, ma erano accomunati da un profondissimo interesse: ragionare sull’impatto della sorveglianza e sviluppare strumenti a difesa della privacy e dell’anonimato, e sistemi di pagamento anonimi per difendere l’individuo dal controllo assoluto dello Stato. Erano avanti di decenni, ed è grazie alle loro riflessioni e ossessioni che sono emersi strumenti che hanno cambiato il mondo, come WikiLeaks, nel caso di Julian Assange, o come l’uso di massa della crittografia, in chat come Signal, e anche le criptovalute, come il bitcoin. Senza Bitcoin, difficilmente WikiLeaks sarebbe sopravvissuta al blocco delle donazioni bancarie. Nel 2010, infatti, appena iniziò a pubblicare i cablo della diplomazia, i giganti del credito, da Visa e Mastercard a PayPal e Bank of America, tagliarono dal giorno alla notte la possibilità di donare a WikiLeaks, che vive esclusivamente delle donazioni dei suoi sostenitori. Senza uno straccio di provvedimento giudiziario alla base di questo provvedimento, l’organizzazione si ritrovò con i rubinetti dei soldi completamente chiusi. Immagini se dalla sera alla mattina, i giganti del credito avessero tagliato i conti del New York Times o del Guardian: sarebbe stato uno scandalo internazionale e tutti i media del mondo avrebbero espresso solidarietà. Ma con WikiLeaks questo non è successo”.

Per alcuni, anche per qualche giornalista, Assange è una persona “controversa”. Tu contesti radicalmente questa affermazione. Perché?

“Personalmente, credo che l’osservazione delle persone sul lungo periodo sia uno dei pochissimi criteri per capire con chi si ha a che fare. Come giornalista, ho conosciuto da vicino e per oltre 10 anni il fondatore di WikiLeaks, penso quindi di avere molte informazioni fattuali per capire che tipo di essere umano è. Non dico di aver condiviso qualunque cosa abbia detto o fatto da quando lo conosco e sono la prima a dire che è un individuo complicato, ma è profondamente diverso da come viene dipinto dai media. Julian Assange è una persona di grandissima intelligenza, uno che, come scrisse il settimanale tedesco Der Spiegel, poteva fondare la sua azienda di software nella Silicon Valley e fare i soldi, e invece ha usato il suo talento intellettuale per rivelare i crimini di guerra e le torture in Afghanistan e in Iraq, pagando un prezzo mostruosamente alto a livello personale, perché da quel momento in poi non ha più conosciuto la libertà. Sono 11 anni che non può camminare per la strada da uomo libero, godersi un po’ di sole, correre, sdraiarsi sull’erba di un prato, e rischia di non poterlo fare mai più, perché sul suo capo pende una condanna a 175 anni di galera esclusivamente per aver rivelato quei crimini. E’ anche una persona che sa essere dolce, affettuosa e molto divertente: Julian Assange non è affatto il personaggio truce e con quell’aura di mistero e minaccia, che gli viene spesso attribuita. E’ divertente, ha un umorismo tagliente. Come scrivo nel mio libro, non sono l’unica a descriverlo così. Anche altri colleghi che lo conoscono bene, la pensano come me. Se l’opinione pubblica ne ha un’idea completamente distorta è perché lui ha certamente difficoltà nelle interazioni sociali, molto probabilmente collegate alla sua sindrome di Asperger, come racconto nel libro, ma il fattore che più ha contribuito a deformare la percezione dell’opinione pubblica è stata la lunga campagna di demonizzazione del personaggio. Invece di sottoporre a un minuzioso scrutinio agenzie potentissime, come il Pentagono e la Cia, responsabili di atroci violazioni dei diritti umani, tipo la distruzione dell’Iraq o le torture nelle prigioni segrete e a Guantanamo, tutta la forza critica dei media si è concentrata sulla persona di Julian Assange. Dal 2010 in poi è stato accusato di tutto, in particolare di aver messo a rischio vite umane, quando invece 11 anni dopo la pubblicazione dei documenti, non risulta un solo morto, una sola persona ferita o imprigionata a causa di quelle rivelazioni. Dieci anni di demonizzazione avrebbero alienato la simpatia e il sostegno dell’opinione pubblica anche a un santo. Di fatto hanno completamente alienato l’empatia dell’opinione pubblica verso Julian Assange. E non dimentichiamoci che questa empatia è l’unico scudo che può proteggerlo, visto che non ha alcuna speranza di opporsi alla sua distruzione da parte delle autorità inglesi e americane confidando nelle corti del Regno Unito o degli Stati Uniti”.

Ritorneremo sulla figura di Assange.
Parliamo delle rivelazioni clamorose di Wikileaks. Quali sono state le più importanti?

“Il video Collateral Murder, in cui si vede un elicottero americano Apache sparare su civili inermi a Baghdad, mentre l’equipaggio ride di gran gusto, è uno dei documenti che rimarranno per sempre. Così come i documenti sulle guerre in Afghanistan e in Iraq, che hanno permesso di guardare alla realtà di quelle due guerre, al di là della micidiale macchina della propaganda bellica. I cablo della diplomazia americana rimangono di eccezionale importanza: 11 anni dopo la loro pubblicazione, ci permettono ancora di capire il mondo. In questi ultimi 11 anni, non ho mai smesso di consultarli. Quando è emerso che l’Italia armerà i suoi droni militari, la prima cosa che ho fatto è stata quella di andare a consultare i cablo per avere informazioni fattuali sulla guerra dei droni. E così le schede dei detenuti di Guantanamo. E’ per questi documenti che Julian Assange rischia 175 anni di galera. Ma in aggiunta a questi file segreti del governo americano, ci sono altri documenti di grande importanza. Le email dell’azienda italian Hacking Team, per esempio, ci hanno permesso di entrare nel mondo oscuro delle aziende private del cyberspionaggio e dei loro affari con le dittature e i servizi segreti di regimi famigerati per le loro violazioni dei diritti umani. Quando l’opinionista del Washington Post, Jamal Khashoggi è stato ucciso barbaramente dalle autorità saudite, il Washington Post ha consultato le email della Hacking Team, pubblicate da WikiLeaks anni prima, alla ricerca di informazioni sulle cyberarmi che i sauditi avevano acquistato da varie aziende, tra cui appunto l’italiana Hacking Team, per sorvegliare i dissidenti. Le rivelazioni sullo spionaggio della NSA contro i leader mondiali, tra cui Berlusconi e i suoi più stretti alleati, sono molto importanti, come anche importantissime le rivelazioni sulle cyberarmi della Cia, perché permettono per la prima volta di scoprire l’arsenale di armi fatte di software – da qui il nome ‘cyberarmi’ –  con cui l’agenzia penetra nei computer, nei telefoni, nei dispositivi elettronici, nelle televisioni smart, per sorvegliare un obiettivo e rubare informazioni. Si tratta di armamenti invisibili, proprio perché fatti di software, la cui proliferazione crea rischi immensi, anche perché è molto più difficile da monitorare, in quanto queste armi non si vedono, non vengono caricate su navi o treni nei porti”.

Approfondiamo la vicenda dell’Afghanistan. Cosa hanno svelato i documenti pubblicati da Wikileaks di quella missione occidentale? 

“I documenti sulla guerra in Afghanistan, che WikiLeaks rivelò nel luglio del 2010, furono un grande colpo giornalistico: permettevano di aprire quella che il New York Times chiamò ‘una straordinaria finestra sul conflitto’. Si trattava di 91.910 report segreti, compilati dai soldati americani sul campo tra il gennaio del 2004 e il dicembre del 2009. Per la prima volta dal lontano 1971, quando Daniel Ellsberg aveva rivelato i 7mila documenti top secret sulla guerra in Vietnam, passati alla storia come Pentagon Papers, era possibile avere decine di migliaia di documenti segreti su una guerra, non 30-40 anni dopo la sua fine – quando ormai interessavano giusto agli storici di professione – ma proprio mentre i combattimenti erano in corso. La documentazione permetteva di ricostruire quanto poco avessero ottenuto le truppe americane e quelle della coalizione internazionale dopo 9 anni di guerra. Per esempio, nella regione di Herat, controllata dagli italiani, dopo quasi un decennio di addestramento condotto dai nostri soldati, gli americani scrivevano nei loro report che la polizia afghana abbandonava la divisa per arruolarsi nei talebani, perché gli agenti non venivano pagati e non era chiaro dove andassero a finire i soldi degli stipendi. Addittura arrotondavano con i sequestri di persona, mettendosi d’accordo con i rapitori. I denari stanziati per costruire infrastrutture decisive, come le strade, per lo sviluppo di un paese i cui abitanti, non dimentichiamolo, hanno un’aspettativa di vita media di circa 54 anni, sparivano nel nulla. Anche la guerra segreta, condotta con unità speciali, come la Task Force 373 – di cui non si era mai saputo niente prima delle rivelazioni di WikiLeaks – non era esattamente un successo: a volte, la Task Force non aveva letteralmente idea di chi ammazzava e quindi colpiva civili innocenti o perfino le stesse forze afghane. Queste stragi creavano un forte risentimento nella popolazione locale contro le truppe occidentali. I documenti sulla guerra in Afghanistan fotografavano già il fallimento che 11 anni dopo abbiamo visto tutti: 20 anni di una guerra senza senso, dove alla fine l’esercito più potente del mondo, il più tecnologicamente avanzato, è stato sconfitto da una forza medievale come i talebani”.

Qual è stata la ricaduta, in Italia, delle rivelazioni di Wikileaks? Negli Usa lo sappiamo, nel nostro paese?

“Ricordo come fosse ieri quando nell’ottobre del 2010 pubblicai, con quello che era allora il mio caporedattore a l’Espresso, Gianluca Di Feo, le rivelazioni sull’Italia, che emergevano dai 91.910 file segreti di WikiLeaks: gli Afghan War Logs. Mentre la retorica nazionale si fermava alla storia dei ‘nostri ragazzi’ che andavano in Afghanistan per aiutare le popolazioni locali, i file raccontavano un’altra storia: la guerra vera e propria che, dal 2004 al 2009, i soldati italiani combattevano ogni giorno con centinaia di guerriglieri uccisi, raid dal cielo, i micidiali improvised explosive devices (IED), le imboscate, i kamikaze, decine di soldati feriti, chi in modo grave e chi meno, di cui in Italia non si era mai saputo nulla. Con il mio caporedattore facemmo un grande lavoro sui documenti, leggendone migliaia, e pubblicando una lunga inchiesta su quello che era allora il mio giornale, l’Espresso. Come scrivo nel mio libro, con quell’inchiesta avevamo fornito per la prima volta dati e informazioni fattuali alla politica, ai media e all’opinione pubblica italiana, che potevano finalmente guardare a quel conflitto al di là della nebbia della guerra e della propaganda dei ‘ nostri ragazzi’. Ma non ci fu nessun dibattito: il silenzio della politica e l’incapacità o la mancanza di volontà dei media italiani di fare squadra, contribuendo a esercitare pressione sulle istituzioni, furono patetici. Con i documenti successivi, come per esempio i cablo, le reazioni non mancarono, ma tutto è sempre stato gestito all’insegna del troncare e sopire. Per esempio, nel caso delle rivelazioni dello spionaggio della NSA contro Berlusconi e i suoi più stretti collaboratori, che pubblicai in partnership con WikiLeaks nel febbraio 2016, la procura di Roma aprì un’inchiesta, io ero in attesa di essere interrogata come persona informata dei fatti, visto che avevo rivelato quelle intercettazioni insieme a WikiLeaks. Beh, ancora aspetto la procura di Roma: nessuno mi ha mai interrogato e l’indagine non è mai pervenuta… Il nostro Paese è diventato la piattaforma di lancio delle guerre USA – dall’Iraq fino alla guerra segreta dei droni – nella complicità della politica e nel silenzio complice o comunque colpevole dei mezzi di informazione”.

Torniamo ad Assange. Tu lo conosci bene, ti chiedo cosa ti ha insegnato, perdonami il verbo, sul piano giornalistico?

“Mi ha insegnato moltissimo. Mi ha insegnato a usare la crittografia per proteggere le mie fonti giornalistiche. Poi, è grazie a lui e ai giornalisti di WikiLeaks che ho acquisito una solida capacità di verificare l’autenticità di documenti segreti di cui non conoscevo con certezza la provenienza e su cui non potevo andare in giro a fare domande, perché quando un giornalista ha in mano file segreti della Cia o della Nsa o del Pentagono, non può andare a chiedere a questo o a quello se ti dà una mano a scoprire se la documentazione è vera o falsa. Se il giornalista lo fa, si espone a un grave rischio personale ed espone le sue fonti a enormi rischi. Infine, Julian Assange mi ha dato la lezione più importante: la battaglia contro il segreto può essere vinta. Prima di WikiLeaks, per me era inconcepibile pensare di riuscire a esporre sistematicamente i crimini di quello che io chiamo il Potere Segreto. Sì, ero consapevole di quanto aveva fatto Daniel Ellsberg con i Pentagon Papers, ma mi appariva un episodio isolato, di difficile riproducibilità. E invece Julian Assange e WikiLeaks mi hanno fatto capire che l’impossibile era diventato possibile. Se guardo al nostro Paese alla luce di questa lezione, io sono convinta che in Italia le istituzioni sono riuscite a coprire gli stragisti e a nascondere la verità sui cosiddetti ‘misteri italiani’ per quasi 60 anni, ma le cose potrebbero cambiare profondamente in futuro. WikiLeaks ci ha fatto capire che né il Pentagono, né la Cia, né la NSA riescono più ad avere il controllo totale dei loro sporchi segreti, tanto da aver perso il controllo di centinaia di migliaia di file classificati, pubblicati da WikiLeaks e da cui emergono crimini di guerra, torture e gravissime violazioni dei diritti umani. Credo che sarà solo questione di tempo e anche gli apparati dello Stato italiano subiranno la stessa sorte e finalmente potremo scoprire come agiscono quando sono completamente al riparo dagli sguardi dell’opinione pubblica e dei media. Non esiste democrazia se i giornalisti non hanno la libertà di rivelare gli angoli più oscuri del potere e se i cittadini non hanno la possibilità di scoprirli, grazie ai giornalisti e alle loro fonti. E’ esattamente questa la differenza più profonda tra le democrazie e regimi: nelle dittature, i giornalisti non sono liberi di rivelare la criminalità di Stato ai più alti livelli e se lo fanno, finiscono ammazzati o in galera per sempre. Nelle democrazie, invece, deve essere possibile. Ecco perché ho investito così tanto su questo caso. Perché voglio contribuire, con il mio giornalismo, a creare una società in cui un giornalista può rivelare la criminalità di Stato ai più alti livelli e farlo in assoluta sicurezza. Per questo, Julian Assange e i giornalisti e collaboratori di WikiLeaks devono essere salvati e protetti”. 

Il tuo libro è una battaglia contro il potere segreto (di qualsivoglia colore). Per concludere, con un messaggio di speranza, qual è l’arma più potente per sconfiggerlo?  Il giornalismo?

“Il mio libro è il frutto di un lavoro di giornalismo investigativo durato 13 anni sia sui documenti segreti di WikiLeaks sia sul caso Julian Assange e WikiLeaks: 13 anni che ne includono 6 di battaglia legale con il Freedom of Information Act (Foia) in ben 4 giurisdizioni – Inghilterra, Stati Uniti, Australia e Svezia – per ottenere i documenti del caso, visto che nessun giornalista al mondo ha mai provato a richiederli per ricostruire il caso in modo fattuale. Perché ho investito tutti questi anni e questo enorme lavoro su questo caso? Perché se il complesso militare-industriale degli Stati Uniti riesce a estradare e chiudere per sempre in prigione Julian Assange e i giornalisti di WikiLeaks, quello che io chiamo ‘il Potere Segreto’ avrà vinto e nelle nostre democrazie i giornalisti non saranno liberi di rivelare i crimini di guerra e le torture, senza perdere la libertà. E senza la luce di quel giornalismo, la nostra democrazia muore”.

IL LIBRO:

Stefania Maurizi, Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e WikiLeaks (Prefazione di Ken Loach ), Ed. Chiarelettere, Milano, 2021, pagg. 400. € 19,00

“Per Freire tutti sono portatori di alcuni saperi e vanno ascoltati”. Intervista di Matías Loja a Leonardo Boff

Nel centenario della nascita del grande pedagogista brasiliano  Paulo Freire, pubblichiamo, in una nostra traduzione dallo spagnolo, questa intervista, apparsa sul sito del quotidiano argentino La Capital *, al teologo brasiliano Leonardo Boff.

Paulo e Leonardo. Uno, maestro; l’altro, uno dei fondatori della Teologia della Liberazione. Uno formatore di maestri, l’altro, teologo e ecologista. Ma entrambi educatori brasiliani che condividono l’opzione preferenziale per i poveri e per la loro liberazione. Essere liberi non per imitare l’oppressore, ma per essere protagonista di un altro tipo di società nella quale non ci siano relazioni di oppressione ma di collaborazione e amore”, dice Leonardo Boff.

La sofferenza della Madre Terra, la povertà e la disuguaglianza sono alcuni dei temi che occupano attualmente la sua agenda, che lo vede molto attivo attraverso discorsi e conferenze dalla sua casa a Jardim Araras, alla periferia di Petrópolis. «L’ecologia integrale e la teologia della liberazione hanno qualcosa in comune: entrambe partono da un grido», ha scritto in un suo libro Reflexões de um velho – Teólogo e pensador (Editora Vozes, 2018).

A cento anni dalla nascita di Paulo Freire, Leonardo Boff ha parlato con il quotidiano La Capitale ha raccontato aneddoti del suo legame con l’educatore, evidenziando l’eredità dei suoi principali libri e la validità di alcune delle frasi più ricordate del pedagogo. Tra queste l’affermazione che “educare è un atto d’amore”.

Come era Paulo Freire? Puoi raccontare un aneddoto con lui?

Paulo Freire era una persona che viveva concretamente quello che insegnava: profonda umiltà, capacità di ascolto dell’altro con amorevolezza, una parola che gli piaceva usare più del semplice amore. Ho avuto modo di conoscerlo meglio quando lavoravamo insieme, una volta all’anno, la settimana di Pentecoste a Nijmegen (Olanda). Era un gruppo di circa 25 persone, tra teologi, filosofi, sociologi di frontiera come Hans Küng, Rahner, Congar, Metz e altri. Lo scopo era quello di preparare i dieci numeri della rivista internazionale Concilium, che è tuttora pubblicata in sette lingue. Io ero il più giovane e rappresentavo l’America Latina. C’era una commissione di esperti di altre aree che accompagnavano le sessioni. Paulo Freire lavorava presso il Consiglio Mondiale delle Chiese in Svizzera ed era responsabile per la tematica dell’educazione nel mondo. Per diversi anni c’incontravamo lì a Nijmegen e si è sviluppata una grande amicizia, proseguita poi in Brasile quando ha potuto tornare dall’esilio. Ricordo che mi chiedeva sempre di portargli una bottiglia di succo di ciliegia. Era il modo per sentirsi a casa. Abbracciava la bottiglia e piangeva di saudade.

Quale pensi sia la sua migliore eredità?

La migliore eredità è il suo metodo apprezzato in tutto il mondo e che è stato assunto dalla Teologia della Liberazione. Per lui, tutta l’educazione è una costruzione collettiva, tra tutti, simultaneamente insegnanti e studenti. Tutti sono portatori di alcuni saperi e devono essere ascoltati. Quindi la prima cosa è ascoltare il mondo e l’altro. È ascoltando il mondo che apprendiamo. Leggere prima il mondo, poi leggere le lettere. Ignorante è colui che pensa che il povero sia ignorante. Il povero sa e deve essere ascoltato. Nasce così il dialogo che consente la costruzione collettiva della conoscenza. Partire sempre dal basso, dal livello di coscienza delle persone e attraverso il dialogo crescere insieme. L’educazione non cambia il mondo, cambia le persone che cambieranno il mondo. Educare è un atto d’amore e senza amore non c’è conoscenza che umanizzi i rapporti umani.

Cè un legame tra la pedagogia della liberazione e la pedagogia della cura della Madre Terra?

Paulo Freire affrontò la questione ecologica solo alla fine della sua vita, perché all’epoca in cui elaborò la Pedagogia degli oppressi e l’Educazione come pratica della libertà, le sue due opere classiche, non era ancora rilevante. Alla fine, include nell’educazione la cura della Madre Terra, rendendosi conto delle minacce a cui è sottoposta. Ha creato il verbo “esperanzar“, l’azione che suscita la speranza operativa e la “possibilità praticabile”  (la sua espressione frequente) per raggiungere “una società meno malvagia che non renda così difficile l’amore“. All’interno di questo amore dobbiamo includere la Madre Terra senza la quale non c’è futuro per l’umanità.

Cosa significa pensare oggi nella liberazione in una regione come quella latinoamericana tanto disuguale e con tanta povertà?

Tutto il processo educativo di Paulo Freire parte da questa domanda sulla situazione di povertà e di disprezzo generalizzato verso i poveri. Il suo libro Pedagogia degli oppressi è l’espressione di questa preoccupazione. Non è una pedagogia per gli oppressi, ma il contrario: è come gli oppressi prendono coscienza della loro oppressione, come hanno dentro di loro l’oppressore e come tirarlo fuori per essere liberi. Essere liberi non per imitare l’oppressore, ma per essere protagonisti di un altro tipo di società in cui non esistano rapporti di oppressione, ma di collaborazione e amorevolezza. Se i poveri non prendono coscienza della causa della loro oppressione e insieme ad altri non lottano per liberarsi, non usciranno mai dalla situazione di povertà. Da ciò Paulo Freire ha coniato l’espressione “coscientizzazione“, che è molto più di essere consapevoli. È l’azione di creare coscienza della loro oppressione in funzione della loro liberazione.

Qual è il migliore omaggio che si possa fare a Freire in questo centenario?

Per il centenario della sua nascita, su internet (online) si svolgono dibattiti e incontri in tutto il mondo, soprattutto in Brasile. Data la degradata situazione mondiale in cui cresce il numero dei poveri, è importante il metodo di Paulo Freire: a partire dagli stessi oppressi, affinché loro stessi scoprano le cause della loro oppressione, sognino un altro tipo di società e si organizzino finalmente per realizzarla. Questo compito è urgente specialmente ora sotto il Covid-19, che attacca soprattutto i poveri. Loro devono organizzarsi in solidarietà per sopravvivere.

*(Dal sito: https://www.lacapital.com.ar/educacion/leonardo-boff-para-freire-todos-son-portadores-algun-saber-y-deben-ser-escuchados-n2688518.html

  • (Traduzione dallo Spagnolo di Gianni Alioti)

RIFLESSIONI SULL’AFGHANISTAN. INTERVISTA A PASQUALE PUGLIESE

A poco più di un mese dalla presa di Kabul da parte dei talebani, facciamo, in questa intervista, con Pasquale Pugliese, attivista del Movimento Nonviolento, e studioso delle questioni legate alla non violenza, una riflessione su quello che significa per l’Occidente l’esito di questi venti anni di guerra.

Pasquale Pugliese, tu sei un attivista del Movimento Nonviolento e studioso di questioni legate alla Nonviolenza (ricordiamo il tuo ultimo libro ha un titolo significativo “Disarmare il virus della violenza”), in questa intervista, per quanto è possibile, cercheremo di proporre una lettura complessa degli avvenimenti di questi ultimi giorni che riguardano l’Afghanistan e cosa significano per l’occidente . In questa ottica ti chiedo: Venti anni dopo la guerra sono tornati di nuovo al potere i Talebani, cosa abbiamo fatto o non abbiamo fatto in tutto questo tempo?

Abbiamo fatto l’unica cosa che non dovevamo e non potevamo fare: la guerra. Dopo l’attacco terroristico a New York dell’11 settembre 2001, invece di capire le ragioni di quanto successo e rispondere in maniera intelligente e complessa, cioè all’altezza della situazione, come invitavano a fare le voci più lucide dell’Occidente, dalla newyorkese  Susan Sontag negli USA – “Dov’è chi riconosce che non si è trattato di un «vile» attacco alla «civiltà», o alla «libertà», o all’«umanità», o al «mondo libero», ma di un attacco all’autoproclamata superpotenza del mondo, sferrato in conseguenza di specifiche azioni e alleanze americane? Quanti americani sanno che l’America continua ancora a bombardare l’Iraq?” (The New Yorker, 24 settembre 2001) – a agli italiani Tiziano Terzani  – “Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza, ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’altra nostra e così via. Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui” (Corriere della Sera, 4 ottobre 2001) – e Gino Strada- “Senta, è da quando siamo piccoli che ce la menano col si vis pacem para bellum dei lati ni. Non è vero, è vero l’esatto contrario. Se vuoi la pace prepara la pace. Con la guerra si prepara solo la prossima guerra” (intervista a la Repubblica, 7 ottobre 2001, da Kabul sotto le bombe che iniziavano a cadere) – ecco, invece di scoltare i consigli più saggi, abbiamo seguito pedissequamente il presidente Gerorge Bush jr che già la sera dell’11 settembre, prima ancora di capire chi fossero gli attentatori e quale fosse il movente ti tale attacco aveva già deciso, rispondendo così a chi gli faceva notare che il Diritto internazionale non prevede la guerra come strumento di vendetta: “non mi frega niente degli avvocati internazionali, andremo lì a prenderli a calci nel culo” (riportato da Richard Clarke, coordinatore delle operazioni  contro il terrorismo della Casa Bianca nel libro Against all enemies). Impelagandoci così in vent’anni di “guerra infinita”, prima in Afghanistan, poi in Iraq, poi in Libia, che ci riconsegna – centinaia di migliaia di morti dopo – un mondo complessivamente ancora più instabile e violento di prima. Lo ha scritto lucidamente il centenario Edgar Morin pochi giorni fa: “la guerra testimonia dell’incapacità di risolvere i problemi fondamentali in modalità complessa”.
È evidente, Nell’opinione pubblica, il fallimento della strategia bellica dell’occidente. Alcuni dicono: “la democrazia non si esporta con la guerra”. E guardando i devastanti risultati delle guerre in Iraq, Afghanistan, e Libia sicuramente è vero. Ma altrettanto vero che, nella storia, ci sono stati momenti cui la forza ha consentito, vedi la nostra lotta di liberazione, la vittoria della democrazia. Insomma la vicenda è complessa. Come ti poni di fronte a questa complessità?

Il fallimento di questo ciclo di guerre è rappresentato anche dalla loro contro-produttività, non solo rispetto alla retorica della “esportazione della democrazia”, come abbiamo visto a Kabul – che, in verità, come ha ribadito il presidente John Biden il 17 agosto, “non è mai stato l’obiettivo della nostra missione nel Paese, che era centrata su attività di anti-terrorismo e non sulla creazione di una democrazia” –  ma anche rispetto agli obiettivi dichiarati. Se voleva essere un’azione di “vendetta” (i “calci in culo” di Bush), a fronte di quasi 3.000 vittime delle Torrri gemelle queste guerre hanno prodotto invece altre 30.000 e passa vittime statunitensi ed occidentali tra soldati e contractors ed altrettanti veterani suicidi, vittime della sindrome post traumatica. Ossia le vittime dell’11 settembre sono state moltiplicate per 20 tra i soli occidentali. Che si sommano alle 360.000 vittime civili afghane e irakene. Se, inoltre, voleva essere un’azione di contrasto del terrorismo, la violenza bellica, che si è fatta a sua volta terrorismo (pensa ai tantissimi civili sterminati con i droni – cioè giocando con un joystick a migliaia di chilometri di distanza – come i bambini in risposta all’attentato all’areoporto di Kabul nei giorni della fuga) non ha fermato ma ha generato ed alimentato la violenza fondamentalista, che in questi vent’anni si è moltiplicata, radicalizzata ed ha colpito ovunque, come registra anno dopo anno il Global Terrorism Index. La guerra è dunque una disfatta su tutti i piani, per (quasi) tutti, sempre.

Questo era perfettamente chiaro anche ai nostri Costituenti, i quali – uscendo dalla tragedia immane della seconda guerra mondiale e dalla lotta di Liberazione – sapevano che la guerra è il peggiore degli strumenti, da “ripudiare” (verbo non casuale) non solo come “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, ma anche “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Cioè chiedevano alle generazioni successive di cercare altri mezzi per affrontare e risolvere anche i conflitti internazionali, per eliminare la guerra dalla storia: ma i nostri governi hanno ripudiato la Costituzione, invece della guerra. Per costruire una difesa civile non armata e nonviolenta avremmo potuto attingere, per esempio, agli straordinari esempi di resistenza non armata e nonviolenta avvenuti in tutta Europa contro il nazifascismo – raccontati da storici come Jaques Semelin (Senz’armi di fronte ad Hitler), Anna Bravo (La conta dei salvati), Ercole Ongaro (Resistenza nonviolenta 1943-45) – eppure non sufficientemente conosciuti e studiati, al contrario di quanto scriveva Hannah Arendt in La banalità del male a proposito della resistenza danese: “su questa storia si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le università per dare un’idea della potenza enorme della non violenza, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori.” E’ questa forza complessa che dovremmo finalmente studiare, promuovere, organizzare, finanziare, diffondere, non il mezzo banale, antiquato e devastante della guerra, che risucchia immani risorse per preparare strumenti di morte, sottratte alla promozione della vita.
Un’altra sfida che ci viene è che la minaccia del terrorismo, di matrice jihadista, è ancora vivo. La risposta bellica non è sufficiente, dal tuo punto di vista, quale via è efficace?

Il punto è che quella bellica non è stata solo la risposta sbagliata a questa minaccia, ma ne è stata anche la causa – come ricordavano Susan Sontang e molti altri dopo l’11 settembre 2001 – in un rispecchiamento reciproco in cui il terrorismo della guerra non solo non ha fermato ma ha potenziato la guerra del terrorismo. Questo vale tanto per la componente talebana, che è stata considerata “resistenza” quando si batteva contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan negli anni ‘80, finanziata e sostenuta militarmente dagli USA, ed è diventata “terrorismo” quando si è battuta contro l’invasione occidentale. Così come il cosidetto “Stato islamico” che nasce come reazione radicalizzata all’invasione pretestuosa dell’Iraq – fondata sulle prove inventate delle “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein – ed ha rappresentato un richiamo alla lotta santa per la liberazione contro i nuovi “crociati” occidentali. Quindi il primo passo da fare è il disarmo militare, la fine della logica imperialistica che ha portato ad una nuova corsa agli armamenti, l’uscita da quella che Edgar Morin ha chiamato “l’età del ferro planetaria, nella quale siamo ancora” (Terra Patria) e la ricerca del dialogo e dell’alleanza con il più grande islam nonviolento, che è vittima sia del terrorismo che della guerra. Esistente, per esempio, proprio tra il Pakistan e l’Afganistan fin dai tempi di Badshah Kan detto “il Gandhi musulmano”. Invece, tenere viva la paura della minaccia del fondamentalismo musulmano, alimentandola con le guerre di religione, significa consentire al complesso militare-industriale – sul quale metteva in guardia già il presidente USA Eisenhower nel discorso di addio alla nazione (che in quanto ex comandante in capo delle forze Alleate nel Mediterraneo ed in Europa durante la seconda guerra mondiale era uno che di eserciti ed armamenti se ne intendeva)  –  di sviluppare la propria potenza fondata su armi sempre più costose. Distraendo, in questo modo, enormi risorse dalla difesa dalle vere minacce: il disastro ambientale, il cambiamento climatico, le nuove pandemie (che ne sono anche effetti), le stesse guerre e le armi nucleari che, invece, proliferano e si ammodernano. Insomma, come provo a spiegare nel mio libro, bisogna ridefinire dalle fondamenta il rapporto tra minacce e difese, cambiandone il paradigma e la relativa allocazione delle risorse.

Tu hai scritto che il vero vincitore, in Afghanistan, è stato il “complesso militare industriale”. L’occupazione militare, agli USA, è costata 2300 miliardi. La cifra è una follia. Anche qui si pongono interrogativi non da poco per l’occidente e il resto del mondo che stanno vivendo una pandemia terribile. Anche questa follia dovrebbe portare l’occidente ad una svolta, cioè ad un radicale cambio di passo. Quale potrebbe essere? La intravedi?

Se c’è una cosa che ci ha  insegnato questa pandemia è che non serve erigere muri, alzare barriere, tracciare confini, chiudere i porti, perché il pianeta è naturalmente e strutturalmente interconnesso. Irriducibilmente aperto, nonostante le nostre chiusure mentali. Che siamo tutti sulla stessa barca e nessuno può salvarsi da solo, indipendentemente dalla ricchezza, dalla religione, dalla nazionalità e dal potere personali. La vita di ciascuno dipende anche dal comportamento responsabile degli altri. Che abitiamo un sistema fragile, delicato, in equilibrio instabile e precario ed è più saggio investire le risorse di tutti per la difesa della vita, dell’umanità e dell’ecosistema, anziché per la preparazione delle guerre. Che la società esiste – non solo l’individuo – e resiste e con essa la solidarietà, l’empatia, il prendersi cura reciproco, la responsabilità nei confronti degli altri, nonostante decenni in cui ci viene stoltamente insegnato il contrario. E invece anche la risposta alla pandemia non ha trovato altra rappresentazione che una metafora bellica, che poi ha generato l’affidamento ai militari della stessa gestione dell’emergenza. Senza nessuna autocritica sul fatto che, per esempio, nel nostro Paese la continua crescita della spesa pubblica militare negli ultimi dieci anni, ha corrisposto al progressivo taglio degli investimenti pubblici sul Servizio sanitario nazionale, che è stato decurtato di oltre 37 miliardi di euro, mentre la spesa militare nei bilanci dei governi è schizzata ad oltre 26 miliardi annui con un aumento, nello stesso periodo, di oltre il 20%. Anche per coprire la ventennale presenza armata italiana in Afghanistan. Il nostro è un paese che ha circa trecento aziende che producono armi – di cui quelle “legalmente detenute” da privati cittadini, come ricorda spesso Giorgio Beretta, fanno ormai più vittime delle mafie – ed una sola che produce ventilatori polmonari… Ossia siamo armati fino ai denti, ma disarmati di fronte alle minacce reali.

Ciò che è necessario dunque non è solo un “cambio di passo”, ma un vero e proprio salto di civiltà, che rimetta in ordine le priorità. Ma questo non è solo un problema politico, riguarda anche la cultura e l’informazione, necessita di un processo di “coscientizzazione”, come avrebbe detto il pedagogista Paulo Freire. Per questo credo che ormai solo l’educazione ci possa davvero salvare

L’opinione pubblica è rimasta colpita dalle donne di Kabul. Che sono scese in piazza per i loro diritti. La reazione dei Talebani è stata violenta. Come difenderle con quale strategia efficace?

Prima di rispondere è necessario fare un paio di premesse. L’opinione pubblica rimane colpita da ciò che l’informazione decide di mettere sotto l’obiettivo: in questo momento c’è sotto la lente – giustamente – la situazione delle donne afghane, ma non c’è altrettanta attenzione, per esempio, la situazione delle donne della monarchia assoluta dell’Arabia Saudita, i cui diritti sono ugualmente calpestati da sempre, oppure su quella delle donne turche, il cui governo ha ritirato perfino la propria adesione anche dalla Convenzione di Istambul contro la violenza sulle donne. Eppure non solo non abbiamo fatto nessuna guerra contro questi paese, ma anzi sono partner politici e commerciali di primo piano, nostri e degli USA, anche sul piano militare. La seconda premessa è di carattere storico: quando negli anni ’80 del secolo scorso il presidente Ronald Reagan incontrava ripetutamente allo “studio ovale” e finanziava abbondantemente i mujaheddin (i guerrieri santi) – compreso un certo Bin Laden, allora alleato – perché facessero la jihād (la guerra santa) contro la Repubblica Democratica dell’Afganistan, in funzione anti sovietica, della fine dell’emancipazione delle donne afghane, conquistata in quegli anni di governi filo-socialisti, che ne sarebbe direttamente conseguita, non importava assolutamente a nessuno. Quel che accade oggi è frutto, anche, di quelle scelte scellerate: tutte le guerre passano sempre sui corpi delle donne.

Oggi non rimane che fare l’unica cosa sensata che si dovrebbe fare ovunque nel mondo: sostenere economicamente e dare visibilità alle organizzazioni delle donne locali che lottano per i propri diritti. Su questo la stampa internazionale ha un grande potere e, dunque, una grande responsabilità. In Afghanistan, per esempio, segnalo l’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane RAWA, attiva tanto contro il fondamentalismo religioso e politico dei talebani che contro l’aggressione militare occidentale. Qui il loro ultimo comunicato: http://www.rawa.org/rawa/2021/08/21/rawa-responds-to-the-taliban-takeover.html

I Talebani non sono cambiati, il governo ha ministri che sono dei terroristi. Come comportarsi? Quale condizionamento esercitare?

Credo che, a questo punto, si tratti finalmente di far tacere le armi e far scendere in campo la diplomazia, che debbano tornare in primo piano le Nazioni Unite – da troppo tempo esautorate e ignorate – che bisogna fare attenzione al rispetto dei diritti umani, in Afghanistan e ovunque nel mondo, perché non ci sono dittature buone e oscurantismi amici (o addirittura “rinascimentali”). Che bisogna sostenere le azioni della società civile afghana, come per le organizzazioni delle donne, con la quale avviare percorsi di cooperazione internazionale. Bisogna inoltre fare attenzione ai traffici di armi ed a quelli di oppio, perché non solo la fuga statunitense ha lasciato sul terreno ingenti quantitativi di armamenti destinate al liquefatto esercito afghano, ma ha lasciato un paese che, in questo ventennio, è anche diventato il principale produttore di oppio al mondo. Insomma, bisogna prendere atto che la strategia bellica è fallita e cambiare decisamente pagina. Imparando qualcosa da questa lezione.

Tocchiamo il tema della “non víolenza” Ed allarghiamo l’orizzonte. Alla luce degli avvenimenti ultimi, compresa la pandemia, come sviluppare in modo complesso e nuovo questa via? Vedi segnali di speranza? 

Questo è il tema di fondo del libro Disarmare il virus della violenza, nel quale riprendo l’analisi di Johan Galtung in relazione al sistema che definisce “triangolo della violenza”, composto dalla violenza diretta, dalla violenza strutturale e dalla violenza culturale, dove la prima e più evidente violenza diretta è quella che si manifesta nelle guerre, nei terrorismi, negli omicidi, nei comportamenti violenti ai quali viene dato socialmente e mediaticamente ampio risalto, soprattutto se avvengono nel nostro Paese o nella parte occidentale del pianeta. La seconda e più indiretta e nascosta violenza strutturale si manifesta nel modello di sviluppo economico fondato sullo sfruttamento del lavoro, sulla rapina delle risorse naturali, sullo stupro dell’ecosistema; ma anche nella politica che sceglie, per esempio, di spendere per le armi anziché per scuole e ospedali o nelle leggi che sanciscono “decreti sicurezza” che trasformano il Mediterraneo in un cimitero di disperati. Violenza strutturale è, per esempio, il potere acquisito dal complesso militare-industriale anche nel nostro Paese che spiega la crescita costante della spesa militare italiana, indipendentemente dal colore dei governi e anche dalle intenzioni dei partiti prima di andare al governo, come il folle programma di acquisto pluriennale dei cacciabombardieri F35, che procede imperterrito governo dopo governo. Senza e con la pandemia. Tuttavia, la violenza strutturale e gran parte della violenza diretta non sarebbero possibili senza la violenza culturale che legittima e rende un implicito culturale – da non mettere in discussione, appunto “ovvio per tutti”, come scrive Hannah Arendt (Sulla violenza) – l’uso della violenza, la costruzione dei mezzi a essa necessari e lo spreco di risorse pubbliche a questo scopo.

Per questo la nonviolenza – al di là del mero “pacifismo” – non può che occuparsi di de-costruire l’intero sistema di violenza, perché non è sufficiente opporsi alle espressioni più superficiali se non si aggrediscono (dal latino ad-gredior, andare verso) quelle più profonde che sostengono, preparano e danno legittimità alle prime. E, a mio avviso, non c’è che un mezzo per disarmare il virus della violenza sistemica in tutte le sue dimensioni – diretta, strutturale e culturale – e non è quello direttamente politico, perché la politica, almeno nel suo momento culminante, cioè quello elettorale, non apre più futuri di cambiamento, ma raccoglie quanto già disseminato dal passato nelle pieghe della società e della cultura esistenti. È piuttosto il mezzo educativo che ha una vision politica, una prospettiva di cambiamento che passa dalla costruzione di nuova cultura. La necessità di intervenire radicalmente per decostruire gli impliciti culturali che legittimano la violenza, prima che la violenza decostruisca l’umanità, costruendone le alternative nonviolente, ci consegna il mezzo educativo nel quale si realizza il fine di costruire la “realtà nuova”, come diceva Aldo Capitini – il filosofo fondatore del Movimento Nonviolento ed ideatore della Marcia della pace da Perugia ad Assisi, di cui proprio in questi giorni ricorre il sessantesimo anniversario – che si libera, man mano, dalla violenza sempre ritornante sotto una forma o un altra. Ma per aprire davvero questo capitolo, forse, dovremmo fare prima o poi un’altra intervista…