Nonostante nelle ultime settimane si siano consolidate le stime di crescita che riguardano l’Europa e, in particolare, il nostro Paese, la carenza di materie prime si sta facendo sempre più serio. Tutto naturalmente coincide con la forte ripartenza dell’industria e delle filiere produttive ma, come ci dice il direttore di Think-industry 4.0 Giuseppe Sabella in questa intervista, “si tratta di un problema che parte da lontano e che oggi è esploso”. A Sabella abbiamo chiesto di fare luce su questa situazione anche nell’ottica di provare a capirne le possibili vie d’uscita.
Sabella, la carenza delle materie prime e il loro seguente rincaro è un fenomeno che dura da qualche mese e che oggi rivela la sua intrinseca problematicità. Come si spiega questa situazione?
Il problema delle materie prime è molto serio, il loro costo sta schizzando in modo imprevedibile, facendo salire i prezzi delle produzioni. Secondo Eurostat vi è una crescita su base annua del 12,1%. Vi sono incrementi notevolissimi che vanno dal prezzo del tondo di acciaio per cemento armato (+243%), a quello del pvc (+73%), a quello del rame (+38%) etc. Da una parte la decisa ripartenza della produzione industriale incide sulla richiesta di materie prime in modo importante. Ma il punto vero è che si sta qui giocando una grande guerra commerciale Europa-Cina. In questo momento, Pechino ha il coltello dalla parte del manico ma credo assisteremo a qualche sviluppo: non è questa una situazione che può durare a lungo, per più ragioni. A ogni modo, lo scorso anno – in pieno lockdown – i prezzi delle materie prime crollavano in tutto il mondo e la Cina ne ha fatto incetta. Hanno comprato tutto ciò che potevano comprare a basso costo e oggi detengono quasi l’intero stock delle materie prime. E con loro bisogna fare i conti. Va detto che a Pechino sono stati molto bravi, ma queste sono cose che possono avvenire soltanto in un mondo così verticistico come quello cinese. A ogni modo, i fattori di questa crisi – che allo stato attuale pare imprevedibile – sono anche altri.
A cosa allude?
In questi 30 anni l’Europa si è mossa secondo una politica di offshoring scriteriata e imprudente, delocalizzando anche ciò che le faceva perdere autonomia. La crisi dei semiconduttori, che è un’altra criticità notevole per la produzione industriale, ne è la prova. La Sevel si sta per fermare una seconda volta. Del resto, anche sul piano sanitario, ricordiamoci che all’inizio della pandemia eravamo senza mascherine perché l’intera produzione era delocalizzata. Non solo, l’Europa è l’unico grande Paese che non ha un proprio vaccino ma lo importa: gli USA ne hanno 3 (Pfizer, Moderna e Johnson & Johnson), la Cina ha Sinopharm, la Russia ha Sputnik, la Gran Bretagna ha AstraZeneca. Solo dando attuazione al programma Green Deal si può uscire da questa situazione di dipendenza, sebbene resti l’incognita delle materie prime.
Perché, come dice, dando attuazione al programma Green Deal si esce da questa situazione?
Il programma Green Deal (2019) intende ridisegnare e riorganizzare le filiere produttive in Europa per rispondere alla riorganizzazione della globalizzazione: dal 2017 il commercio mondiale è rallentato in modo consistente fino a rendere i grandi mercati sempre più organizzati attorno alle grandi piattaforme produttive che, naturalmente, sono USA, Cina e Europa. Mentre, come sappiamo i mercati americano e cinese sono molto coesi e di non facile penetrazione, quello europeo – anche in ragione degli interessi contrapposti tra Germania, Francia e Italia in particolare – è sempre stato facile preda del capitalismo americano e cinese. La pandemia da questo punto di vista è un tornaround molto importante perché consolida la tendenza del mercato globale organizzato secondo logiche di regionalismo aggregato – come lo chiama Alberto Quadrio Curzio – a cui si sta adeguando anche l’Unione Europea. Anche perché dopo l’ingente investimento del Next Generation EU, o il mercato europeo premia le produzioni locali o la nostra finanza pubblica avrà seri problemi. Questo è dunque il primo dei tre grandi obiettivi del Green Deal, gli altri due sono innovazione tecnologica e carbon neutrality. Speriamo di riuscire a colmare questo gap che abbiamo nei confronti delle superpotenze americana e cinese, altrimenti – ancora una volta – rischiamo di rincorrerle. Al netto del problema delle materie prime che, tuttavia, credo troverà soluzioni.
In che senso, secondo lei, si risolverà il nodo delle materie prime?
Ovviamente nessuno di noi vede nel futuro, mi permetto però di porre un problema di natura politica: dopo aver messo in ginocchio il mondo con il covid, la Cina si può permettere di infierire nuovamente tirando la corda sulla questione delle materie prime? Credo che a tutto ci sia ragionevolmente un limite. Inoltre, continuiamo a dare per scontato che la Cina viaggi al ritmo di questi 20 anni che ci siamo lasciati alle spalle con la pandemia. Ho seri dubbi a riguardo e mi pare ne abbia qualcuno anche George Soros che in questi giorni ha molto criticato i programmi cinesi di Blackrock – la più grande società di investimenti al mondo – che ha lanciato una serie di fondi
comuni e altri prodotti per i consumatori cinesi. Il gruppo di New York è la prima società di proprietà straniera autorizzata a farlo. Siamo evidentemente in presenza di un fatto inedito. Intanto, è di queste ore il caso del colosso immobiliare cinese Evergrande: è insolvente per oltre 100 miliardi di dollari e ha incassato il downgrade di Moody’s. Ricordiamo anche che ad aprile di quest’anno, la Banca Centrale Cinese ha chiesto agli istituti di credito di rallentare con l’offerta del credito, poiché l’espansione finanziaria che ha sostenuto la ripresa post coronavirus – alimentata da una manovra a debito della Banca Centrale – ha rinnovato le preoccupazioni per le bolle degli asset e la stabilità economico-finanziaria. Già questa primavera, quindi, a Pechino si temeva che quest’iniezione copiosa di liquidità rischiasse di spingere all’indebitamento imprese e famiglie senza la ragionevole certezza che quel debito potesse essere successivamente ripagato. In sintesi, si aggira il fantasma del fallimento che fa molta paura perché ricorda quello della bolla americana del 2008. E l’effetto contagio sulle altre aziende del settore è già cominciato. A questo quadro, si aggiunga poi quella che è la grande novità annunciata da Xi Jinping in questi giorni.
Si riferisce al manifesto della “prosperità comune” ?
Si, è questo l’inizio di un cambiamento per la Cina ma che aggiunge fattori di cambiamento per il mondo intero. La Cina sceglie di rivedere le sue politiche di distribuzione della ricchezza e rilancia il mercato interno. Finisce la fase dell’ “arricchirsi è glorioso” lanciata da Deng e inizia l’era della “prosperità comune” di Xi Jinping. Va tuttavia detto che a Pechino si era giunti a un punto di non ritorno: la ricchezza in Cina è soltanto nella macro-regione della capitale, il resto del Paese – che è la maggioranza – è ancora civiltà millenaria. Del resto, lo sviluppo del Dragone è stato acceleratissimo: in 20 anni, sono cresciuti come in Europa siamo cresciuti nell’arco di due secoli. È chiaro che tutto questo si porta dietro diverse fragilità. E per questo a Pechino hanno scelto di risolvere i problemi che hanno al loro interno: dalla crisi del debito, dai noti aspetti demografici oggi sempre più seri – ricambio generazionale debole, città che si spopolano, carenza di forza- lavoro – alla crescente siccità nella Cina settentrionale. È una buona notizia, anche per l’Europa, perché credo che preluda a un atteggiamento della Cina meno aggressivo nei confronti del mondo. Da qui la mia sensazione che anche la questione delle materie prime troverà soluzione.
A ogni modo, anche USA e UE sono alle prese con politiche di inclusione sociale e di ridistribuzione della ricchezza. Cosa possiamo prevedere per l’Europa e per il nostro Paese in particolare nei prossimi anni?
L’Europa, col suo Green Deal, è in questo momento il più grande interprete dell’Agenda Onu 2030 e del percorso verso la carbon neutrality. Io credo che questa cosa sarà determinante per due fattori: primo perché va di pari passo con l’innovazione tecnologica, ovvero soltanto attraverso l’innovazione – digitale ed energia pulita – si è più sostenibili. Ma è proprio l’innovazione che genera produttività e competitività. Quindi, sostenibilità fa rima con competitività. L’industria europea sta quindi investendo per colmare il gap tecnologico che ha con quella americana e con quella cinese. In secondo luogo, tutti sappiamo che lo sforzo per la lotta al climate change comporta investimenti ingenti: la UE è finalmente uscita dall’austerity e non credo ci tornerà facilmente. La politica espansiva de UE e BCE potrà essere rivista ma è l’unica strada per lo sviluppo sostenibile. Per quanto riguarda il nostro Paese, Il riepilogo sull’andamento economico del secondo semestre 2021 diffuso la scorsa settimana da Istat ha confermato le indicazioni che da qualche mese arrivano da Bankitalia e dagli organismi internazionali. Al di là di questo +17,3% rispetto al secondo semestre 2020 – che si riferisce a un periodo di lockdown totale e di fermo delle attività produttive salvo quelle essenziali – il +2,7% di aprile-giugno 2021 su gennaio-marzo è il numero che ci interessa e che conferma le previsioni anche in ragione d’anno (+6%). Il trend positivo dell’economia è in gran parte legato alla crescita del consumo (+3,4%): è certamente la domanda interna che, più di ogni altro fattore, concorre a determinare la stimata e auspicata crescita del pil. Prima ancora che di effetto Draghi, qui c’è dunque un sistema che ha saputo reagire all’emergenza pandemica che è anche economica naturalmente: consideriamo che la nostra manifattura è quasi tornata ai livelli pre-covid del 2019 mentre i nostri cugini tedeschi e francesi, rispetto allo stesso periodo, sono sotto ci circa 5 punti percentuali. Una capacità di resilienza precede dunque i benefici che sicuramente avremo col Pnrr. Sono naturalmente indicazioni che ci autorizzano a guardare con speranza al futuro, in attesa di sciogliere il nodo delle materie prime.