“LA PROSPERITÀ COMUNE” DI XI JINPING E LA POSSIBILE SOLUZIONE ALLA CRISI DELLE MATERIE PRIME. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Nonostante nelle ultime settimane si siano consolidate le stime di crescita che riguardano l’Europa e, in particolare, il nostro Paese, la carenza di materie prime si sta facendo sempre più serio. Tutto naturalmente coincide con la forte ripartenza dell’industria e delle filiere produttive ma, come ci dice il direttore di Think-industry 4.0 Giuseppe Sabella in questa intervista, “si tratta di un problema che parte da lontano e che oggi è esploso”. A Sabella abbiamo chiesto di fare luce su questa situazione anche nell’ottica di provare a capirne le possibili vie d’uscita.

 

Sabella, la carenza delle materie prime e il loro seguente rincaro è un fenomeno che dura da qualche mese e che oggi rivela la sua intrinseca problematicità. Come si spiega questa situazione?

Il problema delle materie prime è molto serio, il loro costo sta schizzando in modo imprevedibile, facendo salire i prezzi delle produzioni. Secondo Eurostat vi è una crescita su base annua del 12,1%. Vi sono incrementi notevolissimi che vanno dal prezzo del tondo di acciaio per cemento armato (+243%), a quello del pvc (+73%), a quello del rame (+38%) etc. Da una parte la decisa ripartenza della produzione industriale incide sulla richiesta di materie prime in modo importante. Ma il punto vero è che si sta qui giocando una grande guerra commerciale Europa-Cina. In questo momento, Pechino ha il coltello dalla parte del manico ma credo assisteremo a qualche sviluppo: non è questa una situazione che può durare a lungo, per più ragioni. A ogni modo, lo scorso anno – in pieno lockdown – i prezzi delle materie prime crollavano in tutto il mondo e la Cina ne ha fatto incetta. Hanno comprato tutto ciò che potevano comprare a basso costo e oggi detengono quasi l’intero stock delle materie prime. E con loro bisogna fare i conti. Va detto che a Pechino sono stati molto bravi, ma queste sono cose che possono avvenire soltanto in un mondo così verticistico come quello cinese. A ogni modo, i fattori di questa crisi – che allo stato attuale pare imprevedibile – sono anche altri.

 

A cosa allude?

In questi 30 anni l’Europa si è mossa secondo una politica di offshoring scriteriata e imprudente, delocalizzando anche ciò che le faceva perdere autonomia. La crisi dei semiconduttori, che è un’altra criticità notevole per la produzione industriale, ne è la prova. La Sevel si sta per fermare una seconda volta. Del resto, anche sul piano sanitario, ricordiamoci che all’inizio della pandemia eravamo senza mascherine perché l’intera produzione era delocalizzata. Non solo, l’Europa è l’unico grande Paese che non ha un proprio vaccino ma lo importa: gli USA ne hanno 3 (Pfizer, Moderna e Johnson & Johnson), la Cina ha Sinopharm, la Russia ha Sputnik, la Gran Bretagna ha AstraZeneca. Solo dando attuazione al programma Green Deal si può uscire da questa situazione di dipendenza, sebbene resti l’incognita delle materie prime.

 

Perché, come dice, dando attuazione al programma Green Deal si esce da questa situazione?
Il programma Green Deal (2019) intende ridisegnare e riorganizzare le filiere produttive in Europa per rispondere alla riorganizzazione della globalizzazione: dal 2017 il commercio mondiale è rallentato in modo consistente fino a rendere i grandi mercati sempre più organizzati attorno alle grandi piattaforme produttive che, naturalmente, sono USA, Cina e Europa. Mentre, come sappiamo i mercati americano e cinese sono molto coesi e di non facile penetrazione, quello europeo – anche in ragione degli interessi contrapposti tra Germania, Francia e Italia in particolare – è sempre stato facile preda del capitalismo americano e cinese. La pandemia da questo punto di vista è un tornaround molto importante perché consolida la tendenza del mercato globale organizzato secondo logiche di regionalismo aggregato – come lo chiama Alberto Quadrio Curzio – a cui si sta adeguando anche l’Unione Europea. Anche perché dopo l’ingente investimento del Next Generation EU, o il mercato europeo premia le produzioni locali o la nostra finanza pubblica avrà seri problemi. Questo è dunque il primo dei tre grandi obiettivi del Green Deal, gli altri due sono innovazione tecnologica e carbon neutrality. Speriamo di riuscire a colmare questo gap che abbiamo nei confronti delle superpotenze americana e cinese, altrimenti – ancora una volta – rischiamo di rincorrerle. Al netto del problema delle materie prime che, tuttavia, credo troverà soluzioni.

 

In che senso, secondo lei, si risolverà il nodo delle materie prime?

Ovviamente nessuno di noi vede nel futuro, mi permetto però di porre un problema di natura politica: dopo aver messo in ginocchio il mondo con il covid, la Cina si può permettere di infierire nuovamente tirando la corda sulla questione delle materie prime? Credo che a tutto ci sia ragionevolmente un limite. Inoltre, continuiamo a dare per scontato che la Cina viaggi al ritmo di questi 20 anni che ci siamo lasciati alle spalle con la pandemia. Ho seri dubbi a riguardo e mi pare ne abbia qualcuno anche George Soros che in questi giorni ha molto criticato i programmi cinesi di Blackrock – la più grande società di investimenti al mondo – che ha lanciato una serie di fondi
comuni e altri prodotti per i consumatori cinesi. Il gruppo di New York è la prima società di proprietà straniera autorizzata a farlo. Siamo evidentemente in presenza di un fatto inedito. Intanto, è di queste ore il caso del colosso immobiliare cinese Evergrande: è insolvente per oltre 100 miliardi di dollari e ha incassato il downgrade di Moody’s. Ricordiamo anche che ad aprile di quest’anno, la Banca Centrale Cinese ha chiesto agli istituti di credito di rallentare con l’offerta del credito, poiché l’espansione finanziaria che ha sostenuto la ripresa post coronavirus – alimentata da una manovra a debito della Banca Centrale – ha rinnovato le preoccupazioni per le bolle degli asset e la stabilità economico-finanziaria. Già questa primavera, quindi, a Pechino si temeva che quest’iniezione copiosa di liquidità rischiasse di spingere all’indebitamento imprese e famiglie senza la ragionevole certezza che quel debito potesse essere successivamente ripagato. In sintesi, si aggira il fantasma del fallimento che fa molta paura perché ricorda quello della bolla americana del 2008. E l’effetto contagio sulle altre aziende del settore è già cominciato. A questo quadro, si aggiunga poi quella che è la grande novità annunciata da Xi Jinping in questi giorni.

 

Si riferisce al manifesto della “prosperità comune” ?
Si, è questo l’inizio di un cambiamento per la Cina ma che aggiunge fattori di cambiamento per il mondo intero. La Cina sceglie di rivedere le sue politiche di distribuzione della ricchezza e rilancia il mercato interno. Finisce la fase dell’ “arricchirsi è glorioso” lanciata da Deng e inizia l’era della “prosperità comune” di Xi Jinping. Va tuttavia detto che a Pechino si era giunti a un punto di non ritorno: la ricchezza in Cina è soltanto nella macro-regione della capitale, il resto del Paese – che è la maggioranza – è ancora civiltà millenaria. Del resto, lo sviluppo del Dragone è stato acceleratissimo: in 20 anni, sono cresciuti come in Europa siamo cresciuti nell’arco di due secoli. È chiaro che tutto questo si porta dietro diverse fragilità. E per questo a Pechino hanno scelto di risolvere i problemi che hanno al loro interno: dalla crisi del debito, dai noti aspetti demografici oggi sempre più seri – ricambio generazionale debole, città che si spopolano, carenza di forza- lavoro – alla crescente siccità nella Cina settentrionale. È una buona notizia, anche per l’Europa, perché credo che preluda a un atteggiamento della Cina meno aggressivo nei confronti del mondo. Da qui la mia sensazione che anche la questione delle materie prime troverà soluzione.

 

A ogni modo, anche USA e UE sono alle prese con politiche di inclusione sociale e di ridistribuzione della ricchezza. Cosa possiamo prevedere per l’Europa e per il nostro Paese in particolare nei prossimi anni?

L’Europa, col suo Green Deal, è in questo momento il più grande interprete dell’Agenda Onu 2030 e del percorso verso la carbon neutrality. Io credo che questa cosa sarà determinante per due fattori: primo perché va di pari passo con l’innovazione tecnologica, ovvero soltanto attraverso l’innovazione – digitale ed energia pulita – si è più sostenibili. Ma è proprio l’innovazione che genera produttività e competitività. Quindi, sostenibilità fa rima con competitività. L’industria europea sta quindi investendo per colmare il gap tecnologico che ha con quella americana e con quella cinese. In secondo luogo, tutti sappiamo che lo sforzo per la lotta al climate change comporta investimenti ingenti: la UE è finalmente uscita dall’austerity e non credo ci tornerà facilmente. La politica espansiva de UE e BCE potrà essere rivista ma è l’unica strada per lo sviluppo sostenibile. Per quanto riguarda il nostro Paese, Il riepilogo sull’andamento economico del secondo semestre 2021 diffuso la scorsa settimana da Istat ha confermato le indicazioni che da qualche mese arrivano da Bankitalia e dagli organismi internazionali. Al di là di questo +17,3% rispetto al secondo semestre 2020 – che si riferisce a un periodo di lockdown totale e di fermo delle attività produttive salvo quelle essenziali – il +2,7% di aprile-giugno 2021 su gennaio-marzo è il numero che ci interessa e che conferma le previsioni anche in ragione d’anno (+6%). Il trend positivo dell’economia è in gran parte legato alla crescita del consumo (+3,4%): è certamente la domanda interna che, più di ogni altro fattore, concorre a determinare la stimata e auspicata crescita del pil. Prima ancora che di effetto Draghi, qui c’è dunque un sistema che ha saputo reagire all’emergenza pandemica che è anche economica naturalmente: consideriamo che la nostra manifattura è quasi tornata ai livelli pre-covid del 2019 mentre i nostri cugini tedeschi e francesi, rispetto allo stesso periodo, sono sotto ci circa 5 punti percentuali. Una capacità di resilienza precede dunque i benefici che sicuramente avremo col Pnrr. Sono naturalmente indicazioni che ci autorizzano a guardare con speranza al futuro, in attesa di sciogliere il nodo delle materie prime.

 

“Cossiga interprete drammatico di Aldo Moro. A modo suo”. Intervista a Giampiero Guadagni

Quirinale, il Presidente Emerito della Repubblica Francesco Cossiga

Su Francesco Cossiga, come si sa, ci sono luci e ombre (per qualcuno, forse, sono di più le ombre). Eppure la figura di Cossiga, come afferma, in questa intervista, il giornalista Giampiero Guadagni, “è un motore di ricerca ineludibile e inesauribile per capire la storia repubblicana italiana. Una figura politica unica, non solo per le cariche che ha ricoperto – tutte le più importanti- ma per come le ha ricoperte”. Questo libro, dal titolo curioso, cerca di offrire una possibile chiave di lettura della vicenda politica di Francesco Cossiga. Il Libro ha suscitato, tra i cronisti politici, molto interesse. Con l’autore, in questa intervista, approfondiamo alcuni punti del libro. Giampiero Guadagni è caporedattore di “Conquiste del Lavoro”.

 

Intanto, perché un libro su Cossiga?

Perché Francesco Cossiga è un motore di ricerca ineludibile e inesauribile per capire la storia repubblicana italiana. Una figura politica unica, non solo per le cariche che ha ricoperto – tutte le più importanti- ma per come le ha ricoperte. È stato il più giovane ministro dell’Interno, il più giovane Presidente del Consiglio, il più giovane Presidente del Senato, il più giovane Presidente della Repubblica. Un uomo di vastissima cultura, capace al tempo stesso di altissimi confronti e di polemiche molto ruvide con personalità di Stato così come con personaggi dello spettacolo. Senso delle istituzioni e istinto per la trasgressione: aspetti diversi della propria personalità tenuti assieme sempre con grande fatica. Anche in questo senso la sua non è solo la storia di un uomo ma la biografia di un Paese che non ha mai del tutto chiuso i conti col proprio passato. Peraltro, sia da vivo sia da morto Cossiga è stato trasversalmente ammirato e detestato. E proprio questo a mio giudizio ci permette di valutare la sua vicenda e tutta una stagione politica senza il filtro dell’ideologia: un esercizio di libertà che ci obbliga a nuove domande più di quante risposte siamo in grado di dare.

 

Perché questo titolo?

Tre minuti 31 secondi è il tempo della durata dell’ultimo messaggio di fine anno di Cossiga Presidente della Repubblica. Il più breve nella storia di questi messaggi.

Siamo nel 1991, anno molto aspro per lui. A giugno manda un messaggio alle Camere sulla necessità delle riforme istituzionale, messaggio che rimane inascoltato. Il 6 dicembre viene presentata in Parlamento la richiesta di impeachment con addirittura 29 capi di accusa: che riguardano ad esempio lo scontro con la magistratura e la legittimità della struttura Gladio; e più in generale toni e contenuti delle sue picconate. Ecco quel 31 dicembre 1991 Cossiga parla agli italiani e sostanzialmente non dice nulla. Spera che quel suo silenzio faccia più rumore ottenendo più risultati delle sue esternazioni. Non sarà così. Riprenderà a picconare. E si dimetterà con qualche settimana di anticipo rispetto alla scadenza del Settennato.

 

 

 

Il libro parte da un tuo articolo su Conquiste del Lavoro per gli 80 anni di Cossiga in cui esponi una tesi che lo stesso Cossiga, nella sua breve risposta, definisce “oggettiva”: una rielaborazione del rapporto politico e umano con Aldo Moro. Ci riassumi questa tesi?

Io mi sono fatto l’idea che le picconate sono state il tributo dell’allievo al Maestro. Cossiga ha cioè detto con forza, spesso in modo esasperato, quello che secondo lui avrebbe detto Aldo Moro se fosse uscito vivo dalla prigione delle Brigate Rosse. Cossiga ha vissuto con tormento interiore e anche fisico quella vicenda, quei 55 giorni tra marzo e maggio del 1978, spartiacque della storia italiana. Nel tempo, forse anche per metabolizzare il dolore, ha reso esplicita una sorta di sentimento di correità, arrivando a dire: io sono responsabile almeno quanto le Brigate rosse della morte di Moro. “Tra Moro e lo Stato io scelsi lo Stato”, scriverà Cossiga su Repubblica nel ventennale della morte del Presidente Dc. Secondo la mia ricostruzione – sulla quale nel libro mi confronto con autorevoli giornalisti e politici – in qualche modo e in più momenti Cossiga interpreta Moro per restituirgli la vita che da ministro dell’Interno non era stato in grado di salvare. “Io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa”, scrive Moro prigioniero delle Br nella lettera a Zaccagnini del 24 aprile, quella nella quale chiede che ai suoi funerali non partecipino né autorità dello Stato né uomini di partito. “Io ci sarò ancora” sembra essere la frase bandiera che Cossiga ha voluto raccogliere.

 

In particolare, quando e in che modo Cossiga ha “interpretato” Moro?

Penso, intanto, al Messaggio alle Camere sulla necessità per i partiti politici di riformare sé stessi e le regole istituzionali. Ma quel Messaggio arriva troppo tardi, quando ormai i rapporti con il Parlamento erano deteriorati. E comunque è un messaggio dal contenuto importante. Per Cossiga bisognava andare oltre il bipolarismo imperfetto che assegnava alla Dc la cura del governo e al Pci il monopolio dell’opposizione Cossiga si riallaccia al pensiero di Moro, che sempre dalla prigione delle Br aveva scritto: “Un partito che non si rinnovi con le cose che cambiano, che non sappia collocare ed amalgamare nella sua esperienza il nuovo che si annuncia, il compito ogni giorno diverso, viene prima o poi travolto dagli avvenimenti, viene tagliato fuori dal ritmo veloce delle cose che non ha saputo capire ed alle quali non ha saputo corrispondere”. Parole rivolte alla Dc ma che evidentemente valevano per tutti.

 

I fatti che citi riguardano l’ultimo scorcio del Settennato. Cossiga ha dunque maturato nel tempo questa “rielaborazione” del rapporto con Moro?

Certamente le picconate sono diventate il marchio di fabbrica di Cossiga una volta finita la stagione politica legata ai blocchi contrapposti e alla logica di Yalta. Però io mi sono fatto l’idea che Cossiga abbia iniziato ad interpretare Moro anche prima della caduta del Muro di Berlino. Emblematico quanto accade nel marzo 1986. Sono i primi mesi di Cossiga al Quirinale. In quei giorni gli Usa hanno affondato una nave libica in reazione a un lancio di missili verso aerei statunitensi sul Golfo della Sirte. Cossiga, critico rispetto alla pretesa dei libici di estendere la propria sovranità su una zona di acque internazionali, sostiene però anche che il dittatore libico Gheddafi non va “vittimizzato”, obbligando gli arabi moderati a difenderlo; e che la Marina americana non deve mostrare i muscoli verso Tripoli su navi partite da basi in Italia. Il 28 marzo Cossiga riceve al Quirinale il Segretario di Stato americano George Schulz. Un incontro descritto dal capo ufficio stampa di Cossiga Presidente, Ludovico Ortona nel suo “Diario del Settennato”. Cossiga “giunge volutamente tardi al colloquio, già irritando Schulz”.  Spiega per tre quarti d’ora le sue ragioni a Schulz senza dare spazio a repliche
in un clima che Ortona definisce “assolutamente agghiacciante”.
E attenzione: Cossiga era un politico molto accreditato a Washington, soprattutto perché nel 1979 da Presidente del Consiglio aveva autorizzato gli euromissili. Al contrario, è nota la diffidenza americana nei confronti di Aldo Moro a causa delle sue posizioni giudicate troppo filoarabe. È nelle cronache politiche l’incontro del 25 settembre 1974 a Washington con il Segretario di Stato di allora, Henry Kissinger, che con toni diciamo perentori chiede allo statista italiano di cambiare linea. Ecco: in quel marzo 1986, Moro avrebbe con tutta probabilità rivendicato uno spazio d’azione autonoma nella gestione dei rapporti con la Libia.

 

Abbiamo parlato delle picconate di Cossiga. Nel sottotitolo, accanto al fragore metti i silenzi: perché al plurale?

Silenzi al plurale, perché c’è il Cossiga degli omissis legati alla ragione di Stato. Per molti ha detto solo alcune cose di quello che sapeva, lui ha sempre assicurato che nella tomba non si sarebbe portato segreti. C’è un silenzio dove l’aspetto politico si intreccia alla sofferenza personale: in tutti i 55 giorni del sequestro Moro, come ricorda nel
libro Marco Damilano, Cossiga non rilascia un’intervista televisiva, nemmeno semplici dichiarazioni. Una cosa inimmaginabile pensando ai politici di oggi; ma pensando anche
allo stesso Cossiga, insaziabile comunicatore a tutto campo, radioamatore e fruitore dei social. Poi però ci sono anche i silenzi dell’allontanamento volontario dalla vita pubblica, quelli legati alla riflessione, agli spazi interiori della preghiera, agli spazi verdi d’Irlanda, suo luogo dell’anima. Dove Cossiga, uomo di fede salda, ha tempo per dedicarsi ai
“suoi” santi: Newman, Rosmini e Thomas More. Figure che hanno in comune il concetto del primato della coscienza. Tema molto sentito e sofferto dal laico cristiano Cossiga, che da Presidente della Repubblica aveva condiviso la decisione del governo italiano di partecipare alla coalizione che intervenne contro l’Iraq, conoscendo la ferma contrarietà di Papa Giovanni Paolo II.

 

Tra i tanti aneddoti che racconti, quale ritieni quello più
significativo?

Ce n’è uno in particolare che rende l’idea del senso anche esasperato di Cossiga per lo Stato. Me lo ha raccontato Francesco Bongarrà, giornalista dell’Ansa, che ha seguito da vicino gli ultimi anni del Picconatore. Cossiga nel marzo 2006 restituisce il ‘Collare della Giarrettiera’ alla Regina Elisabetta per una questione di principio”. Due elementi per intendere la portata del fatto. Il primo: il Collare della Giarrettiera è la massima onorificenza che il regno concede, rende cugini della Regina. Il secondo: Cossiga era un malato di onorificenze. Cosa accade allora? Cossiga vuole andare in Inghilterra per partecipare al Consiglio mondiale della Società per il dialogo tra cristiani e musulmani, e notifica che partirà con la scorta armata come ex Presidente della Repubblica. Le competenti autorità britanniche, diplomatiche e di polizia, oppongono un rifiuto. In Inghilterra la scorta non ce l’ha nessuno, tranne la Regina, il primo ministro, il ministro dell’interno, forse ai tempi lo scrittore Salman Rushdie. Cossiga annulla la partecipazione all’evento. Prende una scatola in cui mette il Collare e la affida al capo scorta perché restituisca il regale contenuto. “La scorta non era per la mia persona, ma era per il rispetto che si deve allo Stato italiano”.

Il libro: Giampiero Guadagni, Tre minuti trentuno secondi.
Francesco Cossiga: il silenzio e il fragore, Marcianum Press,
2020, pagg. 176. € 17,20.

ADDIO A GIOVANNI AVENA, CRONISTA E CRISTIANO RIGOROSO. UN TESTO DI VALERIO GIGANTE

 

 

Nella giornata di ieri, presso la sua casa di Ciampino a Roma, si è svolta una breve cerimonia laica di commiato a Giovanni Avena. La morte di Giovanni Avena è avvenuta nella tarda serata di sabato scorso. Per chi si occupa di informazione religiosa Giovanni era un grande punto di riferimento. Infatti è stato il riformatore della prestigiosa agenzia di stampa ADISTA. Una combattiva testata di informazione religiosa, che ha fatto dell’indipendenza da ogni potere la sua cifra più alta. Giovanni era un giornalista rigoroso, e la sua conoscenza delle fonti lo rendeva prezioso a molti vaticanisti . Per me era anche un amico. Un amico generoso. Lo voglio ricordare con le belle parole di Valerio Gigante, dell’Agenzia Adista, scritte il giorno dopo la sua morte. Informo, inoltre, che Il 23 settembre, nel salone della Comunità di Base di San Paolo alle ore 17, ci sarà un incontro su di lui.

 

Nel momento in cui lo scriviamo ci pare impossibile. Eppure la lunga malattia che ne ha segnato gli ultimi anni di vita ci avrebbe dovuto preparare. Da ieri, 4 settembre, Giovanni Avena non c’è più. Si è spento serenamente, verso le 23.

Giovanni Avena non ha fondato Adista, ma è come se olo avesse fatto. Se non l’ha fondata, l’ha rifondata. È stato infatti tra i protagonisti della trasformazione della testata (1979) da agenzia della Sinistra Indipendente a cooperativa di soci impegnati nell’idea di una informazione libera dai condizionamenti del potere economico, ecclesiastico, partitico, profondamente incarnata in una prospettiva evangelica, di sinistra, laica e pluralista.

In questi casi si dicono spesso frasi tipo “senza Giovanni Adista perde una parte importante della sua storia”. Ma non è così. Adista è Giovanni, nel senso che il suo contributo ha profondamente cambiato il giornale e la vita di ciascuno di noi che lo ha incontrato, conosciuto, stimato. Ciascuno di noi del collettivo di Adista porta dentro qualcosa della sua testimonianza umana, politica ecclesiale. E ogni giorno nel lavoro che facciamo, nelle relazioni che abbiamo, qualcosa di Giovanni  vive attraverso di noi. Nulla di lui è perduto, se non la possibilità, che abbiamo avuto anche nel lungo periodo della sua malattia, di confrontarci con lui, di avere il suo punto di vista sulle vicende attuali, sulle questioni della gestione della cooperativa, sulle iniziative da prendere per rilanciare la nostra informazione.

Giovanni era nato nel 1938. È stato per molti anni prete e parroco. A Palermo, dove divenne parroco della parrocchia del Cuore eucaristico di Gesù in corso Calatafimi, (1971), poco dopo che il card. Pappalardo – che inizialmente lo teneva in grande considerazione – era diventato arcivescovo della diocesi, era un prete stimato e di grandi prospettive. Poi le sue posizioni (a livello politico ed ecclesiale, a partire dalla sua posizione a favore del divorzio) gli alienarono progressivamente il favore della Curia. A ciò si aggiungeva la sua posizione intransigente rispetto al malaffare della Democrazia Cristiana e al connubio tra Chiesa, politica, criminalità mafiosa.

Ma soprattutto, la vita di Giovanni cambiò il giorno in cui volle entrare nell’’ospedale psichiatrico che era collocato proprio al centro del territorio parrocchiale, tra via Pindemonte e via Giuseppe Pitrè, che erano esattamente i confini della parrocchia. Divenuto parroco, il suo primo pensiero fu di entrare in quella struttura, con lo stesso spirito con cui voleva entrare nelle case dei parrocchiani per far fare amicizia aprire un dialogo con loro.

Si accorse di una situazione ai limiti dell’immaginabile, oltre ogni concetto di dignità umana. Giovanni iniziò così una lunga battaglia per i diritti umani calpestati di quei malati che nemmeno venivano considerati esseri umani. Lì dentro, anche tanti bambini. Bambini dai 7-8 anni in su.

Attraverso il suo impegno e con molta fatica Giovanni riuscì a far uscire, almeno per qualche ora, alcuni dei malati reclusi, a fargli fare qualche attività, mettendoli in contatto con la parrocchia e il quartiere. Nel frattempo, saldando la sua iniziativa anche con le lotte di Basaglia e di altri psichiatri democratici per la chiusura dei manicomi, denunciava le terribili condizioni in cui versava l’ospedale.

Alla fine riuscì a liberare almeno i bambini da quella realtà. Ma pagò il prezzo dell’allontanamento dalla parrocchia e dalla diocesi. E molti dei malati che aveva liberato furono nuovamente internati nell’ospedale. Fino alla legge che finalmente chiuse i manicomi. Ma per alcuni di loro fu ormai troppo tardi.

Era il 1977 e Giovanni, che riesce a ottenere l’incardinazione nella diocesi di Frascati, trova casa a Roma. Si reca ad Adista, che aveva parlato di lui negli anni delle sue lotte come parroco di punta a Palermo, e inizia a collaborare. Da lì, rapidamente, diventa un punto di riferimento per la redazione e il braccio destro (e pure il sinistro) del presidente della cooperativa e direttore storico di Adista, Franco Leonori. Quando Franco Leonori va in pensione, assume direttamente un incarico – quello di presidente e amministratore – che già nei fatti esercitava da tempo, mentre Eletta Cucuzza prendeva la direzione della testata.

Di esercitare il ministero smise progressivamente, dalla metà degli anni ’90. Soprattutto dopo l’arrivo nella diocesi di Frascati di mons. Matarrese, succeduto a mons. Luigi Liverzani, che lo aveva accolto benevolmente. Alla Chiesa cattolica non chiese mai nulla. Non voleva la congrua e l’8 per mille. Non volle nemmeno chiedere la dispensa dal ministero, per non sentirsi nell’obbligo di giustificare le sue scelte e di farne giudicare la bontà a una gerarchia a cui non riconosceva questo diritto. Conobbe in quegli anni Ivana, che sarebbe diventata sua moglie nel 2006, con cui ha vissuto una splendida storia d’amore e che lo ha accudito con enorme dedizione fino alla fine.

Per oltre 40 anni Giovanni è stato il punto di riferimento di una galassia di realtà, personalità, intellettuali del variegato mondo della sinistra cristiana. Sono pochi quelli che non lo hanno chiamato per avere un commento, un parere, un consiglio. Rispondeva a tutti, giornalisti vaticanitsti compresi (che lo chiamavano ogni volta che accadeva qualcosa di rilevante per avere la sua puntuale e radicale lettura dei fatti) con generosità e senza mai pretendere nulla per sé, nemmeno che venisse citato. O che venisse ricordato il suo contributo alla stesura di centinaia di lettere, discorsi, comunicati, articoli, appelli che ha contribuito a promuovere o a far circolare.

Per raccogliere sottoscrizioni per il giornale ha letteralmente girato l’Italia. Spesso in un weekend partecipava a due tre eventi in città diverse. Viaggiava in treno, dormiva in cuccetta, parlava di Chiesa, attualità, politica. E poi chiedeva a tutti di abbonarsi a Adista, affinché le idee che sentiva circolare negli incontri a cui partecipava avessero in Adista lo strumento per diffondersi.

Per il collettivo di Adista è stato il punto di riferimento fondamentale sia dal punto di vista organizzativo, che da quello intellettuale. Non si chiudeva numero a Adista senza prima portare le bozze del giornale a Giovanni, affinché rivedesse la lunghezza dei pezzi, la loro disposizione, e la loro titolazione. Lui suggeriva, tagliava, trovava sempre titoli fulminanti (i titoli di Adista per moltissimi anni sono stati un suo marchio di fabbrica).

Quando, ormai malato, ha progressivamente lasciato le sue responsabilità, delegandole a altri, si è percepito tutto l’impegno, il peso, l’importanza di ciò che aveva fatto, con dedizione e nell’ombra. Solo facendo ciò che aveva fatto lui ne abbiamo percepito appieno l’importanza e la straordinarietà.

Giovanni era stato sul punto di morire molte volte. E tutte quante si era ripreso. Il suo testamento lo aveva già scritto nel 2015, durante una delle crisi che aveva attraversato. Non lo aveva mai voluto cambiare. Lo pubblichiamo qui di seguito:

 

LE MIE VOLONTA’ POST MORTEM

IL MIO GRAZIE A DIO, ALLA VITA E A QUANTI MI HANNO AMATO

Ho creduto ardentemente nel Dio di Gesù Cristo che ho sentito costantemente presente nella mia vita e nella vita di quelli che mi hanno accompagnato con affetto e stima; ma anche di quelli che non hanno avuto da me quanto era loro diritto avere o si aspettavano da me. Ciascuna e ciascuno di essi mi hanno beneficato con generosità, amicizia e sinceri rimproveri. Per questo li saluto e li ringrazio.

Ho creduto anche nella Chiesa come comunità di padri, madri, fratelli, sorelle, amici e avversari. Non ho piu creduto, invece, nella Chiesa dal volto e dalle azioni istituzionali: questa non mi è stata madre, ma neppure matrigna. Fin da ragazzo le avevo dedicato i miei ideali e il mio entusiasmo giovanile, ma quando, adulto, ho voluto realizzare con la pochezza delle mie capacità intellettuali ma con la generosità della mia esistenza, per e con le con le persone incontrate nel mio servizio umano e spirituale, sono stato “prudentemente demotivato e pesantemente angariato fino all’emarginazione e al ripudio. Penso ancora con dolore ai miei amici piccoli e adulti dell’Ospedale psichiatrico di Palermo, luogo di torture e sofferenze inaudite, dimenticati da tutti, Chiesa compresa, perché soggetti inutili alla società, e pericolosi per la convivenza civile. I miei superiori ecclesiastici mi impedirono, destituendomi dal servizio parrocchiale, di condividere con le donne e gli uomini del quartiere, la lotta per la dignità e i diritti umani, dei reclusi entro l’Ospedale psichiatrico. Il dolore di quella obbedienza mi ha trafitto e ha interrotto la mia comunione con i gestori istituzionali della Chiesa. Quella ferita non si è mai cicatrizzata e ancora sanguina. Per questo, alla mia morte, non voglio essere oggetto di alcuna pratica religiosa e funerale liturgico “somministrati e concessi” da una struttura di Chiesa ipocrita, povera di misericordia e ricca solo di potere e arroganza.

 Pertanto, non voglio alcun funerale ecclesiastico e sarò felice solo di un sobrio momento laico di memoria e preghiera, nell’ambito della Comunità cristiana di base di S. Paolo dove, negli anni ottanta, appena cacciato dalla Chiesa di Palermo e dalla Congregazione del Boccone del Povero, ho potuto ritrovare la pace e la dignità che mi erano state sottratte. Desidero anche che il mio corpo non venga “depositato” in un qualsiasi cimitero. Dispongo, invece, che venga cremato e che le ceneri siano disperse. Grazie di cuore a tutte e a tutti che comprenderanno queste mie volontà e mi perdoneranno se non le condividono.

Desidero salutare con grandissimo affetto i miei compagni e compagne di lavoro di Adista. Non mi bastano le parole per ringraziarli del bene che mi hanno voluto, della generosità con cui mi hanno sopportato quando non sono stato all’altezza delle loro attese: per questo chiedo scusa a tutte e a tutti, e confido, come sempre ho confidato nella benevolenza. Saluto e ringrazio tutte tutte, tutti tutti ho incontrato negli ambienti nei quali ho militato, lavorato e condiviso fatiche, speranze, sconfitte e risultati.

Abbraccio e bacio tutte e tutti. 

Roma, 13 gennaio 2015

Giovanni Avena

“Non dimenticare il tesoro di Bose”. Intervista a Riccardo Larini

Il 13 maggio 2020 il Segretario di Stato vaticano Pietro Parolin  ha emesso nei confronti della comunità di Bose un decreto singolare, approvato in forma specifica da papa Francesco, che ha lasciato esterrefatte moltissime persone. Torniamo, in occasione dell’uscita del libro di Riccardo Larini dedicato alla Comunità di Bose, dopo poco più di un anno sulla vicenda. In questa intervista approfondiamo alcuni aspetti del libro e diamo anche alcune notizie sullo stato di salute di Enzo Bianchi e sulla Situazione a Bose.

Il libro, Bose. La traccia del Vangelo, è stato scritto per consentire a chiunque lo voglia di conoscere più da vicino la realtà fondata nel lontano 1965 da Enzo Bianchi, attraverso un esame della sua storia e delle sue radici, caratterizzate da una profonda ricerca di fedeltà al vangelo e di laicità cristiana. Solo così sarà possibile non solo comprendere i recenti drammatici sviluppi occorsi a Bose, ma soprattutto riflettere sui tanti benefici che la comunità ha recato a un numero enorme di persone, nonché su tutto ciò che potrà continuare a donare se saprà riprendere le proprie intuizioni e corregge re i propri errori.

Per saperne di più sul libro si segua questo link: https://riprenderealtrimenti.wordpress.com/2021/08/25/habemus-librum/

 L’autore: Riccardo Larini (Milano 1966), fisico, pedagogista, traduttore e teologo, dopo la laurea in fisica a Pavia si è dedicato agli studi di teologia ecumenica e di ermeneutica filosofica, prima presso la comunità di Bose (di cui è stato membro per undici anni) e quindi a Cambridge. Dopo avere diretto un collegio ecumenico in Inghilterra e una scuola europea in Estonia, ha deciso di dedicarsi prevalentemente all’attività professionale di esperto della formazione all’uso dell’intelligenza artificiale nell’apprendimento sia scolastico sia aziendale, e alla scrittura di articoli per il blog Riprendere altrimenti e per varie riviste italiane e straniere dedite alla divulgazione delle scienze religiose.

Larini, è passato poco più di un anno dalla nostra ultima intervista sulla crisi che ha investito la Comunità di Bose. Adesso è appena uscito il suo libro dedicato proprio alla storia di Bose, dalle sue origini, fino alle ultime tristi vicende. Però prima di inoltrarsi nella analisi del suo saggio, vorrei chiederle: cosa è cambiato un anno dopo?

Sarebbe bello poter dire che sono emersi spiragli di luce, di dialogo e di speranza, ma per ora, purtroppo, non è possibile. L’ipotesi di lasciare che Enzo Bianchi e chi continuava a riconoscersi in lui potesse trasferirsi nella fraternità di Cellole di San Gimignano, caldeggiata anche da diverse personalità ecclesiastiche sensibili e di valore, è stata affondata dal Delegato Pontificio e dalla componente comunitaria più ostile a qualsiasi dialogo. Di conseguenza, come peraltro aveva detto pubblicamente fin dal principio, il fondatore di Bose ha individuato dopo una faticosa ricerca un luogo idoneo alla sua vita e alla prosecuzione dei suoi impegni ecclesiali e civili, e il 30 maggio di quest’anno ha lasciato definitivamente i luoghi in cui era vissuto fin dal lontano 1965. Faccio notare, tristemente e per inciso, che quegli stessi organi di stampa cattolici che pure si erano scagliati contro la presunta e maliziosa indisponibilità di Bianchi a lasciare il proprio eremo, hanno passato totalmente sotto silenzio la sua partenza, e dunque la sua obbedienza al provvedimento pur ampiamente ingiusto della Segreteria di Stato. E anche la comunità, che pure non aveva esitato a emettere comunicati e veline talvolta spiacevoli sulla vicenda, non ha condiviso pubblicamente in alcun modo la partenza del suo fondatore.

So che ha incontrato Enzo Bianchi. Come sta?

Dal punto di vista spirituale e morale non ha perso la propria forza d’animo. Non l’ho trovato né rancoroso né incattivito, pur nella grande amarezza per tutto ciò che è accaduto. Fisicamente, invece, rispetto al nostro ultimo incontro avvenuto nel novembre del 2019, ho notato l’insorgere di evidenti difficoltà, soprattutto di deambulazione. Ormai non riesce più a camminare per più di qualche decina di metri senza provare dolore e affaticamento, e ha praticamente smesso di guidare l’automobile, per ragioni analoghe. Ha un evidente bisogno di sostegno nel quotidiano, ma per il momento vive da solo.

Approfondiremo, per quello che è possibile, più avanti alcuni passaggi chiave, richiamati nel suo libro, della crisi di Bose. Ora veniamo ad alcune linee paradigmatiche della esperienza bosina. Punti che costituiscono l’autentico tesoro evangelico di Bose. Sappiamo che Bose nasce da una intuizione evangelica, favorita dal clima conciliare, di Enzo Bianchi di costituire una comunità di semplici cristiani, quindi laici uomini e donne, che vogliono vivere l’evangelo, nel celibato profetico per il regno, nella compagnia degli uomini in una prospettiva ecumenica. Quello che ho richiamato si trova nelle “Tracce per una vita comune” del 1968. Quindi : Evangelo, laicità e Ecumenismo. Le chiedo come si è sviluppato questo tesoro?

Come sottolineo nel mio libro e più in generale nei miei scritti, le grandi creazioni comuni sorgono quando alcune persone colgono lo spirito che attraversa il loro tempo e la loro storia, e le fanno diventare realtà. In questo senso penso sia fondamentalmente sbagliato parlare di “carisma dei fondatori”, come si fa spesso nella vulgata cattolica, più ripetendo un cliché che non pensando veramente a fondo alle cose. Se lo stesso spirito colto da chi poi viene definito fondatore non viene riconosciuto in maniera unica e personalissima da ogni persona che si unisce al suo cammino, non si potrà mai costruire una casa comune solida, duratura e capace di svilupparsi.

Per contro, non vi è dubbio che senza la forza e la tenacia di grandi personalità, spesso di singoli leader, ben difficilmente un gruppo di persone può dar luogo a una creazione comune capace di non risultare effimera, in grado di non arrendersi e crollare di fronte alle prime difficoltà, sia esterne sia interne.

Nello specifico, Bianchi e coloro che hanno camminato con lui sia prima della nascita di Bose, sia durante la sua crescita e lo sviluppo della sua straordinaria parabola umana e cristiana, hanno colto ciò che da sempre costituisce la base più profonda del rinnovamento cristiano: il ritorno alle origini, a quel tempo che per certi versi precede la codifica di un’ortodossia ecclesiale, prima della divisione di cristiani in gruppi, categorie o addirittura “generi”. Alludo a un’epoca in cui già si erano manifestate divisioni dolorose e significative (il Nuovo Testamento è attraversato da palesi divergenze) ma in cui proprio per questo la ricerca della comunione tra diversi e tra comunità con parabole divergenti era sentita come un’esigenza fondamentale. Il concilio Vaticano II, sulla scia di altri grandi movimenti sorti al di fuori della chiesa cattolica fin dall’Ottocento (come ricostruisco nel mio studio su Bose), non aveva trovato tutte le soluzioni possibili, ma aveva identificato una traiettoria di aggiornamento, di ritorno alle origini, che Bose ha intercettato come pochissime altre realtà del cristianesimo, non solo italiano. L’unico tratto più peculiare rispetto a un puro ritorno alle origini, è stato rappresentato a Bose dalla scelta, non del tutto scontata, di dare vita a una comunità di “celibi per il regno”, senza tuttavia che con questo si intendesse contraddire la fondamentale laicità dell’esperienza che si era deciso di avviare.

Un tesoro cosi può reggere nella Chiesa cattolica?

La chiesa cattolica, per sua natura, tende sempre a inglobare e omologare, e non solo a categorizzare le esperienze religiose di qualsiasi genere e natura. Questo non è sempre e solo negativo: già la Prima Lettera di Giovanni invita a “mettere alla prova gli spiriti”, ovverosia a sottoporre ogni ispirazione a un cammino di verifica. E le autorità umane hanno probabilmente qualche ruolo anche in tale direzione. Bose, però, è nata, per sua stessa autodefinizione, come comunità non appartenente di per sé ad alcuna confessione cristiana, “non cattolica, protestante o ortodossa ma di cattolici, protestanti e ortodossi”, nel rispetto di ogni singola chiesa e delle rispettive autorità. Questa sana “marginalità” le ha consentito di essere luogo di incontro per tutti (e non solo per i cristiani o per i credenti in generale), di acquisire una credibilità senza pari nell’ecumene cristiano e nel mondo della cultura laica, e tutto ciò senza assumere traiettorie bizzarre o eccentriche. Tuttavia, per ragioni complesse, la comunità ha finito per entrare di fatto nell’alveo della chiesa cattolica, sia a motivo della propria crescente complessità e dimensione, sia per favorirne un consolidamento istituzionale in vista della successione di Enzo Bianchi, consolidamento che si è rivelato a mio avviso maldestro. Una volta immessa formalmente nell’alveo del cattolicesimo, Bose ha finito per perdere qualcosa di importante, ed è risultata inoltre drammaticamente esposta agli aspetti meno luminosi della tradizione cattolica. Non me la sento ovviamente di esprimere giudizi sommari su quest’ultima, ma sicuramente l’istituzionalizzazione in senso cattolico porta non di rado a soffocare le esperienze profetiche.

Lei nel suo bel libro porta alla luce, per quelli che non conoscono l’esperienza di Bose, i valori e il contributo davvero notevole sul piano teologico, liturgico, estetico, architettonico, editoriale che Bose ha offerto al cristianesimo contemporaneo (quindi a tutte le confessioni). Insomma quella di Bose è una esperienza di bellezza dell’Evangelo che tocca tutta la dimensione umana. Qual è stato il contributo più importante che la comunità ha dato alle Chiese?

Tra i molti ne sottolinerei almeno due. In primo luogo la capacità, decisamente inconsueta, di dare vita a liturgie di rara bellezza ed evangelicità, in grado di far vivere in profondità il mistero cristiano. Sono vissuto in molti paesi, ho sperimentato molti modi di fare comunità nel cristianesimo e di esprimerne l’identità e la forza trasformatrice nel culto, ma non ho mai incontrato da nessuna parte qualcosa di paragonabile alla creatività liturgica bosina. In Italia sicuramente c’è oggi molta povertà e manca quasi totalmente una sperimentazione liturgica intelligente. Accanto alla liturgia, direi che Bose ha saputo creare e vivere un “codice deontologico dell’ecumenismo” che è un vero e proprio paradigma dell’incontro tra visioni differenti, ben al di là del cristianesimo e della stessa religione. Ce n’è un bisogno enorme nel nostro mondo diviso e frammentato.

La compagnia degli uomini, anche da celibi, implica un “giudizio”,alla luce del Vangelo, sulla società contemporanea. C’è un giudizio politico di Bose sulla società?

Sicuramente. Ma non nel senso più comune del privilegiare una o l’altra delle parti che si contendono il potere sul terreno della “politics”, ma in quello più alto della ricerca dei valori e delle “policies” che li possono perseguire. Enzo Bianchi soprattutto (perché questo è stato più un suo dono che non un dono generale della comunità) ha saputo esprimere con franchezza perplessità e critiche importanti riguardo all’evoluzione della cultura e della società italiane e non solo. La comunità, per contro, ha sempre espresso un giudizio con il suo semplice stile di vita, con le sue scelte, i suoi valori. Non è mai possibile separare la fede dalla vita nella società, soprattutto se si decide di vivere una marginalità, come si dice a Bose, “nella compagnia degli uomini”. Come accadde a Thomas Merton, che cito nel mio libro, a un certo punto è necessario compiere una conversione da “cercatori della santità” a “testimoni colpevoli” delle storture del mondo.

Veniamo alle ultime vicende. La crisi di Bose parte da lontano. Attraversa molteplici aspetti. Qual è secondo lei l’elemento scatenante? Era così necessario il ricorso alla Santa Sede?

Come ogni comunità umana, anche Bose ha visto svilupparsi al proprio interno dei problemi, anche seri. È un fatto umano, umanissimo, che non rappresenta di per sé uno scandalo. Un intero capitolo del mio saggio è dedicato a questo. E umano è anche per certi versi che non si sia riusciti ad affrontare internamente il conflitto, soprattutto quando, come accade spesso nella chiesa, non si è abituati a riconoscere e accettare conflitti e differenze di sostanza. Lo snodo cruciale è tuttavia che ogni volta che degli esseri umani si legano vicendevolmente sorge la questione del potere. Certo, facendo i “santi da soli” la vita sarebbe più facile, ma cosa sarebbe il cristianesimo senza dimensione comunitaria? Ma il potere, nella chiesa, viene affrontato troppo spesso tramite il meccanismo del sacro, che porta inesorabilmente a sviluppare forme di violenza, come ha mostrato in maniera magistrale René Girard. Laddove si cerca in qualsiasi modo di anteporre alla coscienza individuale l’erezione a “vicari di Cristo” di singole persone (presbiteri, vescovi, abati) o anche del capitolo di una comunità monastica, si cozza inesorabilmente contro l’unica vera realtà totalmente sacra: ogni singola persona. Il cristianesimo deve oggi interrogarsi profondamente riguardo a queste dimensioni, se vorrà sopravvivere in una forma realmente evangelica e conforme allo sviluppo dello spirito umano. Il ricorso alla Santa Sede era una possibilità, accanto ad altre, ma non era né l’unica né certamente, alla luce di quanto accaduto, la più saggia.

Nell’ultimo capitolo parla dei protagonisti di questi tempi difficili. Sono rimasto colpito dalla figura del delegato pontificio: il canossiano Cencini. Da quello che emerge, leggendo le sue pagine, è una figura assai dura e molto chiusa al dialogo. Non proprio un mediatore ma un intransigente. Una domanda sorge spontanea : perché la Santa Sede si è messa nelle mani di una persona così dura? Che cosa voleva ottenere?

Come già le ho detto un anno fa in un’altra intervista, non mi occupo di politica ecclesiastica o di dietrologie vaticaniste: non ho né l’interesse né le competenze per farlo. E neppure sono nella testa del Delegato Pontificio. Posso dunque solo, basandomi su quanto ha scritto, detto e fatto in tanti anni, ribadire che si tratta di una persona che opera in modi sbagliati e, nella fattispecie del caso Bose, antiumani e antievangelici. Tutti lo dicono da tempo, compresi molti vescovi, nei “corridoi della chiesa”, ma nessuno ha il coraggio di denunciarlo ad alta voce. Di fatto Cencini è vittima delle proprie rigide teorizzazioni che lo portano a intervenire con soluzioni predeterminate, senza mai promuovere dialoghi reali. Infine, con molta onestà e franchezza, devo dirle che non è a me che dovrebbe chiedere spiegazioni sulle scelte della Santa Sede. Ognuno si deve assumere le responsabilità delle proprie scelte, delle proprie iniziative e dei propri fallimenti. Nessuno ne può essere esentato, neppure un vescovo di Roma, soprattutto in un sistema che gli conferisce poteri (e dunque responsabilità) che nessuno possiede sulla terra.

Lei vede la figura di Enzo Bianchi come un “capro espiatorio”. È servito a qualcosa il sacrificio?

Preciso innanzitutto che nel mio libro non limito al solo fondatore di Bose l’attribuzione del titolo di “capro espiatorio”. Vorrei che non ci dimenticassimo mai degli altri tre membri della comunità che sono stati banditi dalla medesima, Antonella, Goffredo e Lino, e dei molti che sono stati, in un modo o nell’altro, costretti ad andarsene, con pressioni psicologiche anche gravi. Le sofferenze susseguitesi all’intervento vaticano sono state ancora più pesanti di quelle che lo avevano suscitato, da una parte come dall’altra del conflitto di potere in atto. Ho scelto volutamente questa metafora biblico-ebraica e girardiana per indicare un problema fondamentale: a Bose sono sorti dei problemi che coinvolgevano tutti, ma si è scelto di “risolverli” eliminando una parte, senza tuttavia affrontare in realtà in alcun modo il nodo cruciale di come migliorare il dialogo interno e accettare e gestire gli inevitabili conflitti che sorgono in una comunità così complessa e numerosa. Tanto è vero che il successore di Bianchi compie oggi gesti mai visti a Bose in passato e totalmente estranei sia allo spirito sia alla lettera della stessa Regola di Bose, come l’esclusione dal capitolo e dai pasti comunitari per lunghi periodi di chiunque ne contraddica la voce nello stesso capitolo.

In questa vicenda quali sono stati i limiti del fondatore?

Penso di poter dire che da un lato non è riuscito a discernere come aveva fatto in passato l’insorgere di difficoltà e problemi non dovuti certamente solo o a lui, ma comunque avvertiti come seri da un certo numero di fratelli e di sorelle della comunità. E dall’altro, non ha saputo cogliere il momento giusto per andarsene a condizioni ben diverse, che egli stesso avrebbe potuto dettare, con un paio d’anni almeno di anticipo. Ma onestamente, quando sei stato il protagonista principale di una creazione così eccezionale, lungo un arco di tempo superiore ai cinquant’anni, è difficilissimo, se non sei aiutato a farlo a chi ti sta intorno, compiere un passo di tal genere. Per quanto mi è dato di sapere, non conosco “fondatori” che lo abbiano mai fatto…

Lei parla di non rispetto dei diritti umani in tutta questa vicenda. Perché?

Nessuna autorità al mondo, neppure quella di un pontefice per un cattolico, può giustificare provvedimenti così duri, immediati e inappellabili senza alcun processo, senza contenzioso e senza spiegazioni dettagliate. A prescindere da come la si pensi sul conflitto esploso a Bose, non si può accettare una modalità di giudizio e di intervento che non ha tenuto in alcun conto i diritti degli “imputati” (che non sono stati neppure tali, in quanto sono passati direttamente allo status di “condannati”).

Inoltre il provvedimento vaticano, come hanno mostrato diversi giuristi, non potrebbe mai essere applicato nel territorio italiano senza essere recepito da un tribunale ordinario (che mai lo farebbe), in quanto priva delle persone molto concrete di diritti fondamentali, a partire da quello di usufruire e di godere dei beni materiali e spirituali che hanno contribuito (alcuni in maniera massiccia e determinante) a realizzare. L’allontanamento dalla propria dimora e la proibizione di intessere relazioni con altre persone è un fatto gravissimo nell’ordinamento giuridico italiano, e nei confronti di alcuni allontanati, proprio nelle ultime settimane, è stata aggiunta anche la cancellazione unilaterale del contributo di sussistenza che pure era stato concordato per iscritto.

Credo sia tristissimo che in molti – anzi, decisamente in troppi – nel mondo cattolico si siano interessati molto di più ai presunti abusi compiuti dal fondatore di Bose (di cui non vi è traccia nel Decreto singolare né, ad oggi, è emerso alcun esempio concreto) che non ai palesi abusi compiuti dalla Santa Sede nei confronti di cittadini italiani. Un conto è non volersi schierare nel conflitto (decisione legittima e rispettabilissima), tutt’altra cosa è chiudere gli occhi di fronte a queste cose. Nessuna chiesa può essere veramente evangelica se non persegue fino in fondo la verità e non rispetta radicalmente la dignità di ogni persona, che ha diritti inalienabili.

Siamo alla fine di questa nostra lunga conversazione. Come riprendere un cammino riconciliato?

 Nel mio libro avanzo qualche timida proposta, basata soprattutto sul fatto che Bose possiede diverse case in giro per l’Italia. La riscoperta di dimensioni più piccole e umane aiuterebbe molto, e permetterebbe a gruppi di persone che ormai hanno visioni parzialmente divergenti della storia di Bose di continuare a vivere la vita a cui si sono votate senza una costante atmosfera di conflitto e senza cercare di risolvere i problemi eliminando del tutto l’altra parte dal proprio orizzonte. Ancora più importante, però, sarebbe la scelta (o l’invio?) di un nuovo, vero mediatore (o gruppo di mediatori), che avvii un autentico processo di confronto tra le parti in conflitto, e che guidi la comunità a (re-)imparare l’arte del dialogo fraterno. Perché c’è ancora un enorme bisogno di Bose nella chiesa e nelle chiese.