Le novità sul Golpe Borghese. Intervista a Fulvio Mazza

Il libro Il Golpe Borghese. Quarto Grado di Giudizio. La leadership di Gelli, il golpista Andreotti, i depistaggi della “Dottrina Maletti” (Pellegrini editore, pp. 304, € 16,00) è giunto alla sua seconda edizione.

Di questo interessante testo, ci siamo già occupati. Ma ci ritorniamo visto che tale seconda edizione viene presentata come contenitrice di diverse novità e conferme che nella prima erano state solamente ipotizzate. Per verificarle ne parliamo con lo stesso saggista, Fulvio Mazza, direttore dell’agenzia letteraria Bottega editoriale (www.bottegaeditoriale.it) e autore di testi storici pubblicate da diverse case editrici quali Città del Sole, Franco Angeli, Esi, Infinito, Laterza, Rubbettino, Treccani e la stessa Pellegrini.

Mazza, quali sono le principali innovazioni presenti nella seconda edizione? Una ci pare di vederla già nel titolo. Notiamo infatti che rispetto alla prima edizione sono state eliminate le virgolette all’aggettivo golpista che veniva associato ad Andreotti. Sono saltate per un mero errore di stampa o sono state tolte appositamente?

Nessun errore del classico “Proto”. La decisione di eliminare le virgolette è stata presa per sottolineare il fatto che ormai il suo coinvolgimento nella vicenda è ben acclarato. Se prima, quindi, si era deciso di lasciare in sospeso la possibilità che non fosse sicuramente coinvolto, ora non ci sono incertezze perché le prove storiche appaiono ben comprovate.

Prove storiche ma non giuridiche…

Certamente. Le prove giuridiche, tra prescrizioni e depistaggi, si sono esaurite nei tre canonici gradi di giudizio. Con questo nostro “Quarto grado” abbiamo potuto trattare solo ragionamenti storici e non giudiziari. La verità giudiziaria, che mandò tutti assolti, e non toccò affatto diversi depistatori, non muta.

Nella sua Introduzione, Lei preannuncia altre novità presenti all’interno della nuova edizione. Fra le altre: il ruolo del Pci e del Msi. Che cosa riguardano?

Riguardo al Pci è emersa la certezza che fosse a conoscenza dell’avvio del Golpe, ma che avesse deciso di mantenere un “basso profilo”. Lo si è evinto soprattutto, ma non solo, da alcuni numeri coevi de l’Unità.

Riguardo al Msi si è dettagliata la triplice divisione fra chi appoggiava il Golpe, chi stava alla finestra e chi lo temeva. Fra questi ultimi c’era chi temeva che una volta al potere i golpisti si sarebbero vendicati dei missini troppo “freddi” e c’era chi temeva che se il Golpe fosse fallito anche il Msi avrebbe subito la inevitabile repressione governativa.

Si parla poi dell’assassinio di Borghese…

Dall’analisi delle carte e delle interpretazioni frammentarie ma convergenti, emerse proprio in occasione del 50° anniversario del Golpe, riguarda la morte dello stesso Borghese. Ora si può affermare, con sufficiente certezza, che fu assassinato, proprio alla vigilia del suo rientro in Italia, per evitare che rivelasse quali erano i suoi referenti (italiani e internazionali) politici, militari e istituzionali che prima l’avevano avallato e che poi l’avevano tradito.

In questa seconda edizione cambiano i ruoli dei generali del Sid Gian Adelio Maletti e Vito Miceli, del capitano, sempre del Sid, Antonio Labruna del capo della P2, Licio Gelli e degli Usa?

No. Non cambiano. Il ruolo di Miceli (e di altri vertici delle Forze armate) di ambigua connivenza, di Maletti di depistatore, di Labruna di investigatore osteggiato dai suoi capi, di Gelli come elemento di vertice della struttura golpista, degli Usa come traditori dell’alleata Italia vengono confermati tutti e spesso ribaditi con nuovi elementi.

Nella nuova edizione emerge anche un tentativo di depistaggio storico di oggi…

Sì. Si tratta del tentato depistaggio storico effettuato da Adriano Monti. Il personaggio va presentato perché assai poco digeribile. Fu volontario a sedici anni delle SS, e poi autore in questi settant’anni di numerosissime memorie, interviste e quant’altro. In tutta questa documentazione che ho letto, non ha mai mostrato vergogna per la sua attività nazista. Ebbene, il tentativo di depistaggio consiste nell’affermare che il “Contrordine” che bloccò il Golpe era stato emanato da Gino Birindelli e Vito Miceli, e non – come è emerso – da Giulio Andreotti e Licio Gelli. Un tentativo di depistaggio che cerca di allontanare dal Golpe i meno presentabili Andreotti e Gelli coinvolgendo i più accettabili Birindelli e Miceli.

Lei preannuncia anche una innovazione tecnico-editoriale…

Sì. Si tratta della creazione di un Indice analitico, che permette al lettore e allo studioso di muoversi agevolmente sul testo, andando a ricercare con immediatezza temi o personalità all’interno del testo. Oltre all’Indice, è stata approfondita ancora meglio la Cronologia annotata degli eventi, che arricchisce notevolmente la narrazione del susseguirsi degli avvenimenti.

Abbiamo notato che tra i vari commentatori o recensori del testo ci sono stati personaggi importanti come il giudice Guido Salvini che ha affermato con decisione quanto il testo sia una «risposta ragionata una risposta ragionata a tutti gli interrogativi posti dagli avvenimenti del 7-8 dicembre 1970», o il presidente della Commissione Stragi, Giovanni Pellegrino, il quale ha avallato la sua tesi sulla “Dottrina Maletti” che spiega le ragioni di connivenza politico-istituzionale che mossero il generale ad organizzare i depistaggi (cfr.: www.bottegaeditoriale.it/primopiano.asp?id=257).

Ringrazio fortemente il giudice Salvini e il presidente Pellegrino per quelle dichiarazioni che danno conferma degli esiti della mia ricerca.

Ma, in effetti, se la sostanza è emersa oramai tutta, ci sono diversi particolari – pur importanti – che vanno ancora ben chiariti.

Un paio di esempi!

Eccoli. Il primo è la manomissione dell’atto giudiziario che Andreotti e Maletti consegnarono il 15 settembre 1974 alla Procura di Roma. Il secondo è il dettagliato dossier che fu sequestrato ai golpisti che riguardava la struttura organizzativa (tipologia di armi compresa) delle Forze armate e delle Forze di Polizia.

LA STRAORDINARIA PERSONALITA’ DI CARLO DONAT CATTIN. UN TESTO DI FRANCESCO MALGERI E DUE LETTERE DI DONAT CATTIN

Convegno della Democrazia Cristiana Italiana DC – Il politico DC Carlo Donat Catti​n, Roma , febbraio 1980 (Contrasto)

Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, il testo dell’intervento, del professor Francesco Malgeri, alla presentazione del libro, avvenuta martedì scorso nella sala dell’Istituto “Luigi Sturzo” di Roma,  del giornalista Giorgio Aimetti su Carlo Donat Cattin . Il libro di Aimetti, pubblicato dalla Casa Editrice “Rubbettino” «Carlo Donat-Cattin. La vita e le idee di un democristiano scomodo» (Soveria Mannelli, 2021, pagine 540, euro 29), è una lunga e densa biografia del leader della sinistra sociale della DC. Il libro, frutto di una ventennale ricerca, è di grande interesse storico. Sono presenti anche documenti importanti e inediti.  Ne pubblichiamo due . L’Osservatore Romano, organo della Santa Sede, in una sua anticipazione del libro ha pubblicato due lettere, presenti nel saggio, di Donat Cattin.  Le lettere si riferiscono alla vicenda  dolorosissima del figlio Marco.  Come si sa Marco era finito in carcere per terrorismo. La prima delle lettere è una risposta ad una lettera, mai trovata , di una suora impegnata nell’assistenza ai carcerati. La seconda lettera è inviata al Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, dopo la morte di Marco travolto da un’auto mentre soccorreva dei feriti di un incidente stradale. Sono due lettere molto toccanti. I documenti sono ripresi dalla testata che ha rilanciato le lettere pubblicate dall’Osservatore Romano:   http://www.ildomaniditalia.eu/un-padre-nella-tormenta-in-un-volume-di-giorgio-aimetti-le-lettere-di-carlo-donat-cattin-losservatore-romano/

 

Il mio giudizio su questo libro di Giorgio Aimetti ho già avuto modo di esprimerlo nella mia Introduzione, nella quale ho già sottolineato come l’autore abbia delineato la biografia politica di Donat-Cattin, sulla base di una ampia documentazione, cogliendo la fisionomia, il carattere, il ruolo e l’azione di una personalità politica che ha lasciato tracce profonde della sua presenza in campo sindacale, politico e di governo, in una lunga e intensa stagione, che attraversa la seconda metà del secolo scorso. A Ra

Abbiamo a disposizione, con questo libro, la ricostruzione di un percorso denso di avvenimenti, progetti, istanze sociali, politiche e culturali che hanno profondamente inciso sulla storia italiana nel corso di quegli anni.

Ma in questo mio intervento vorrei sottolineare altri aspetti, più generali, che emergono con evidenza da questo libro, che si colloca nel campo di una storiografia attenta a ricostruire le vicende di quegli anni, attraverso una lettura condotta con serietà di metodo e onestà intellettuale.

 

È ben noto come le vicende di quegli anni e in particolare il ruolo della Democrazia cristiana, siano stati – soprattutto a livello mediatico e nel giudizio di alcuni esponenti della nuova classe politica – oggetto di una sorta di demolizione, che tende a colpire l’in­tera storia politica italiana della seconda metà del secolo XX.

Si può affermare che questo libro fa giustizia delle non poche forzature interpretative, dettate in molti casi da una distorta rappresentazione della vi­ta politica italiana del secondo dopoguerra, influenzata da logori pregiudizi e soprattutto, direi, dalla ignoranza di chi ne scrive o ne parla.

 

Un giudizio che pren­de corpo non tanto alla luce di una riflessione sulla storia politica del paese, con le sue luci e le sue ombre, ma in una sorta di demonizzazione di un passato che viene rappresentato come espressione della partitocrazia, dell’assistenzialismo, del consociativismo, della corruzione e del malcostume.

Una sorta di giu­dizio sommario che tende a disconoscere le fasi più importanti del­l’intera nostra storia nazionale, sul piano dello sviluppo economico-sociale e della crescita civile e democratica del Paese.

Questo giudizio sembra dimenticare quan­to, in quegli anni, le forze politiche, ciascuna per la propria parte, hanno vissuto sta­gioni segnate da importanti risultati ed anche da una grande partecipazione ideale alle battaglie che hanno sostenuto.

Sembra non tener conto di quanto i partiti che ne furono protagonisti siano stati strumenti fondamentali nella crescita e nella formazione di grandi masse che si affacciavano alla vita demo­cratica.

Si deve ad essi la ricostruzione del paese, l’avvio di uno sviluppo economico che ha permesso per lunghi anni una esistenza serena ad una gran parte di cittadini, superando profonde sacche di miseria ereditate da quasi un secolo di storia nazionale, una crescita democratica ta­le da portare anche coloro che non si riconoscevano nel metodo del­la democrazia parlamentare, ad accettarlo con convinzione.

Certamente, con il passare degli anni, non so­no mancati, i limiti e i processi degenerativi, nei quali i partiti hanno assunto un ruolo e un peso che andava al di là di un corretto equilibrio tra forze politiche, istituzioni, poteri eco­nomici, apparati dello Stato, alimentando una crisi destinata a minare il sistema politico che aveva contraddistinto la storia della nostra Repubblica.

In questa lunga e complessa storia un compito di primo piano venne esercitato dalla Democrazia cristiana, un partito che, con la sua presenza e il suo ruolo domi­nante, è stato protagonista della storia dell’Italia repubblicana.

Un partito che seppe farsi interprete del paese, dei diversi interessi e delle diverse attese che emergeva­no dalla società civile, dal mondo del lavoro e delle professioni, con l’attenzione al­le esigenze del mercato e dello sviluppo capitalistico, ma sensibile anche al bisogno di assistenza sociale e del sostegno dello Stato per le categorie più deboli dei cittadini, ispirando la propria azione al rispetto della persona e ad una visione pluralista e ar­ticolata della società, al di fuori da qualsiasi concezione di stampo classista.

Un partito che visse la sua dialettica interna a volte in forma vivace e irrequieta, attraversata da personaggi che, seppur animati da una comune ispirazione, maturata nell’ambito della loro formazione cristiana, seppur sorretti dall’esigenza dell’unità e della condivisione delle scelte, anche nei momenti più delicati, esprimevano diverse sensibilità e orientamenti, arricchendo, con la loro presenza la dialettica interna di in partito interclassista e non chiuso all’interno di una connotazione ideologica.

Insomma, in seno alla Democrazia cristiana troviamo una pluralità di personalità, ciascuna del­le quali rappresentava, con le sue idee, il suo retroterra sociale e culturale e con i suoi legami con diverse realtà locali e regionali, un modo origi­nale di essere democristiano, a testimonianza della complessa e flessibile fisionomia del partito.

Il libro di Giorgio Aimetti ha il merito di offrirci l’immagine di una delle espressioni più forti e incisive che hanno attraversato la storia italiana e la storia della Democrazia cristiana.

Una figura di primo piano che si distinse per la sua straordinaria personalità, nel ricco campionario di figure che la Democrazia cristiana ha saputo esprimere nel corso della sua storia.

Questo libro ci consente di ripercorrerne la lunga e incisiva presenza nelle vicende sociali e politiche del nostro paese, e per questo dobbiamo essere grati a Giorgio Aimetti.

 

 

LETTERE DI CARLO DONAT CATTIN

Lettera a Suor Teresilla

Cara sorella,

devo prima di tutto farmi perdonare per il ritardo col quale le rispondo, causato dalla mia vita randagia e dalla minima capacità di lavoro che mi rimane dopo l’infarto. Ma voglio soprattutto ringraziarLa per l’azione che svolge, con passione, per dare aiuto e riportare alla speranza giovani carcerati per terrorismo e in particolare per l’ultimo dei miei figli, Marco. Mi rendo conto di un’opera sacrificata, esposta alla conoscenza degli abissi del male, non soltanto contro la vita, ma anche e continuamente contro la dignità degli uomini in un sistema di reclusione antiquato e tendente a peggiorare anziché recuperare i condannati. Ma la nostra storia di comunità cristiana nasce ai piedi di un patibolo ed ha le sue radici alimentate dal sangue dei martiri, di infinite testimonianze nella carcerazione, nelle torture e nelle esecuzioni capitali finali. Che Dio l’assista e la Madre di ogni misericordia Le sia sempre vicina. La prego non soltanto per Marco, se pure l’egoismo parentale me lo richiama davanti a tutti nell’immaginazione e nel cuore, ma per tutti quelli che Lei riesce ad avvicinare, e per quelli che non sono avvicinati in alcun modo o non lo vogliono.

 

Nella mia vita ho cercato di pensare al prossimo, di operare per il prossimo, quello che il linguaggio cristiano chiama con questo nome, ma, me ne rendo conto, in forme più generali ed astratte: la giustizia per tutti, il miglioramento delle condizioni di vita, la promozione delle classi subalterne (…). Cosa diversa è l’incontro col prossimo, uomo per uomo, quel sofferente, quel carcerato, quel disperato; è in più di un caso peso lasciato ad altri, alla costituzione di corpi specializzati come quelli delle suore, per la ripugnanza o il fastidio istintivo ed edonistico provocato dalla nostra natura chiusa, e ad un tempo che ha eliminato ogni trascendenza e riduce la vita alla soddisfazione personale (…).

 

Questi sono alcuni dei ragionati motivi, cara sorella, per i quali non sono sordo alla sua passione e non mi irrito per la sua conseguente aggressività; e per i quali la mia gratitudine non sarà mai sufficiente.

 

Quando parla dei partiti, se ho bene inteso, lei parla del potere pubblico. Ed allora consideri che — rispetto a quanti hanno avuto coinvolgimento attivo nella lotta terroristica — l’azione dei pubblici poteri, con non pochi contrasti, è stata indirizzata alla clemenza verso chi abbia mostrato di dissociarsi dal suo passato, mentre è diventata pesantissima (…) verso chi non voglia sconfessarsi. Oggi l’attenzione è concentrata sul tema cosiddetto dei “pesci piccoli” per ottenere l’affrancamento. Credo che in un domani non lontanissimo e forse non lontano si giungerà a forme di remissione non dissimili da quelle stabilite già nel 1947 a beneficio dei fascisti di Salò ed anche dei partigiani che compirono reati nel corso della Resistenza, tenendo conto, tra l’altro, che quel periodo abbondò — come ogni guerra civile e politica — di nefandezze efferate.

 

Il compito essenziale del potere politico, alimentato dai partiti, ognuno con la
propria concezione della vita, è, nel caso, in questo campo. Devo dire che si è
stentato a far passare criteri di clemenza, specie rispetto alla mentalità media di
una fascia notevole del mondo cattolico. Mia moglie ed io abbiamo anche sentito il
gelo della ripulsa e dell’emarginazione. Molto più accentuate dal mondo comunista,
che — per altre ragioni — mi ritiene un nemico e, secondo i suoi sistemi, persona
perciò da eliminare, almeno moralmente. Ma, al di là del contatto umano dei
singoli, mentre tra i comunisti è prevalsa l’idea di una clemenza utilitaria — quella
verso il “pentito” in quanto delatore —, nel nostro mondo, in parte legato alla
mentalità inquisitoria, al rogo per la salvezza dell’anima, alla giustezza della pena
anticipata degli uomini, alla salutarietà dei tormenti, è stato ed è ancora difficile
entrare nell’anima del perdono. Agiscono in contrasto con quest’atteggiamento
donne e uomini come Lei, padre Bachelet, padre Riboldi, molti amici di C.L. e, in
generale, la mentalità più attenta della maggior parte dei sacerdoti (…).

 

Sul piano dei sentimenti non Le dirò molte parole. Marco sa di avere non soltanto
il perdono, ma l’amore di sua madre, dei suoi fratelli e mio. Sappiamo com’è difficile la vita carceraria e ci siamo resi conto, perciò, anche di alcuni errori
successivi. (…)

 

E mentre compio ogni tanto l’esame delle mie responsabilità per le vicende di
Marco, prego il Signore perché gli sia vicino anche attraverso la presenza Sua,
suor Teresilla, e degli altri che, nel nome di Gesù di Nazareth, sentono con più
forza l’amore. Con un cordiale saluto, Carlo Donat-Cattin.

 

*****

 

Lettera a Cossiga

 

Caro Cossiga,

 

mi vorrai perdonare del ritardo col quale, anche a nome di mia moglie, ti ringrazio
del biglietto che hai voluto con tanta premura e tanto affetto farmi giungere a
Torino subito dopo la morte di Marco. Sono rimasto in condizioni di non saper far
nulla altro che le cose meccanicamente conseguenti. La fede è faticosa per la mia
logorata umanità; eppure “tutto è grazia”. La prova più problematica è quella di
mia moglie: un figlio, giovane, ma il figlio che vivo lacera il cuore, viene ripreso
giorno per giorno, per anni di carcere (tutti quelli stabiliti, senza privilegi e
neppure consentite condizionali), recuperato da un amore senza confini. Ti ringrazia, in particolare, per il pensiero che le hai dedicato. Cerchiamo di pregare.
Ti abbraccio.

CRISI CHIP E MATERIE PRIME: BIENNIO DIFFICILE PER L’EUROPA MA MENO PER L’ITALIA. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Intel (MIGUEL RIOPA/AFP via Getty Images)

Intel (MIGUEL RIOPA/AFP via Getty Images)

Com’è noto, è stata presentata qualche giorno fa un’indagine sulla componentistica automotive italiana realizzata dalla Camera di commercio di Torino, dall’Anfia e dal Center for Automotive and Mobility Innovation dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. È emerso che la carenza dei semiconduttori provocherà un calo della produzione di auto in tre anni di oltre 14 milioni di veicoli: 4,5 milioni quest’anno, 8,5 milioni nel 2022 con una coda di 1 milione nel 2023. Si tratta di numeri rilevanti anche alla luce della transizione all’auto elettrica che si aggiungono alla crisi delle materie prime e all’aumento dei prezzi di energia, gas, carburanti etc., fenomeni che stanno spingendo l’inflazione su livelli di guardia e che rischiano di compromettere la ripresa europea. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0.

Direttore, cosa sta succedendo proprio ora che la macchina del Next Generation EU si è messa in moto?
Come abbiamo visto in precedenza (http://confini.blog.rainews.it/2021/09/10/la-prosperita-comune-di-xi-jinping-e-la-possibile-soluzione-alla-crisi-delle-materie-prime-intervista-a-giuseppe-sabella/), la crisi di microchip e materie prime si spiega non solo con la forte ripartenza delle produzioni e dell’economia, ma anche con il disallineamento dei diversi lockdown mondiali. Si pensi, ad esempio, a quel grande fornitore che è il Vietnam, che oggi è in lockdown. Quando ci siamo fermati noi, si è fermata la Germania perché gran parte della nostra componentistica e utensileria va lì. Inoltre, vi sono elementi che hanno che fare con la riconfigurazione della globalizzazione: la Cina lo scorso anno, approfittando del lockdown generalizzato e del calo dei prezzi, ha comprato materie prime ovunque. C’è chi dice per fare scorta, ma secondo me a Pechino sono consapevoli del fatto che l’Europa è concentrata sul consolidamento del suo mercato. Solo così, infatti, il Next Generation EU può avere successo. E ciò non può non avere riflessi sulla penetrazione nel MEC del prodotto made in China. Ecco che allora la Cina – che vale più di 1/3 della produzione manifatturiera mondiale – avendo acquistato materie prime in tutto il mondo si è rafforzata e ha allo stesso tempo indebolito l’Europa, costringendola a comprare a prezzi notevolmente aumentati, come del resto fa anche la Russia col gas.

Quindi l’Europa è il grande malato di questa fase?
Sicuramente l’Europa è la macroregione che più sta soffrendo nonostante, tuttavia, il problema sia di tutto il mondo. Certamente gli USA sono più autonomi di noi, come del resto sono stati più accorti nelle delocalizzazioni. L’Europa non ha avuto una strategia condivisa dagli stati membri e, di conseguenza, ha perso autonomia su molti fronti. Lo abbiamo visto, drammaticamente, con le mascherine e lo vediamo anche con i vaccini. L’Europa è infatti l’unico grande Paese che non ha un proprio vaccino ma lo importa: gli USA ne hanno 3 (Pfizer, Moderna e Johnson and Johnson), la Cina ha Sinopharm, la Russia ha Sputnik, la Gran Bretagna ha AstraZeneca. Non siamo così ricchi di materie prime come gli USA e quindi, per certi versi, stiamo subendo questa situazione senza grandi colpe. Ma su microchip e semiconduttori non si doveva arrivare a questo punto: si è persa completamente autonomia produttiva su componenti indispensabile a qualsiasi circuito elettronico e digitale, finendo col dipendere dalle economie con cui competiamo.

In questo senso è interessante il progetto del governo italiano di favorire l’insediamento di una fabbrica di microchip di Intel. Come possiamo valutare questa operazione?
È questa, senza dubbio, un’iniziativa interessante che il governo italiano ha preso, forte anche dei rapporti che Draghi ha con gli USA. Si evince un’azione di carattere sovranazionale, come del resto quella che ha portato a Stellantis. Ed è questa la strada giusta per rafforzare il manufacturing europeo. Teniamo conto che Italia, Francia e Germania insieme valgono quasi quanto gli USA in termini di produzione manifatturiera mondiale. Ma, in generale, l’Unione deve pensare a colmare il suo ritardo tecnologico che ha con gli USA e, soprattutto, con la Cina, processo che comunque è in corso. Tornando a Intel, in Italia dovrebbe avviarsi un impianto di packaging (o “confezionamento”) dei microchip, l’ultimo anello della catena che porta al prodotto finito. La megafactory vera e propria, quella dove si costruiranno i chip, sarà probabilmente in Germania, ma anche la Francia ha possibilità di aggiudicarsela. Per quel che riguarda l’impianto di packaging, anche la Polonia è in lizza insieme all’Italia. Torino (Mirafiori) e Catania le due possibili destinazioni del sito produttivo Intel.

A proposito di Mirafiori, il settore dell’automotive denuncia un forte rallentamento, che ricadute può avere sull’economia italiana ed europea?
I numeri sono preoccupanti e, come sappiamo, il settore dell’auto è nevralgico per le economie avanzate. Oltre l’indagine a cui lei si è riferito, mi sembra interessante quanto rilevato da Standard&Poor’s: quest’anno si produrranno circa 5 milioni di auto in meno, assestandosi a 80 milioni di auto prodotte, per poi salire a 84 milioni nel 2022. La cosa interessante è che, sempre secondo l’agenzia di rating, nel 2023 la crisi dei microchip sarà superata e la produzione mondiale potrebbe tornare a regime attorno ai 90 milioni. Per quanto riguarda Italia ed Europa, è evidente come il nostro Paese stia soffrendo meno di Germania e Francia, paesi in cui l’industria dell’auto è sicuramente più dominante, basta andare a vedere le ultime stime di Ocse e FMI, ma sono curioso di vedere le prossime che saranno diffuse a breve.

In prospettiva, l’UE come può evitare di ritrovarsi in una situazione similare?
Certamente si possono prevenire alcuni mali ma, come dicevo prima, vi sono fattori che non sono controllabili: per esempio, la pandemia e i suoi lockdown per giunta disallineati, sono fattori straordinari. Tuttavia, l’Europa con il suo programma Green Deal intende rispondere alla riconfigurazione della globalizzazione e raggiungere più autonomia da un punto di vista industriale. Inoltre, si tenga presente che circa un mese fa, intervenendo al Parlamento europeo per il suo secondo discorso sullo Stato dell’Unione, la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen non solo dava centralità al problema della produzione di chip e semiconduttori, cuore di qualsiasi infrastruttura tecnologica; Von der Leyen ha parlato anche della costruzione di un Global gateway, ovvero di una via di accesso globale che riesca a garantire quegli approvvigionamenti di cui l’Europa ha bisogno e che si ponga come alternativa verde e democratica alla “Via della Seta” cinese, senza i quali il Green Deal non può vivere. Per la prima volta, Bruxelles identifica nella Cina un rivale strategico. Mi sembra un passaggio importante. In questo senso, si tenga presente che la Germania è tuttora il più importante partner commerciale di Pechino. Ma, evidentemente, qualcosa sta cambiando.

Come si spiega, in questa fattispecie, la resilienza del sistema produttivo italiano e la miglior performance, per esempio, rispetto a Germania e Francia?
In effetti le stime degli organismi internazionali continuano a vedere la crescita italiana superiore a quella tedesca e francese e, anche, alla media europea. Siamo certamente in presenza di un fenomeno che ha le sue tipicità, diverso – per esempio – dalla contrazione provocata dalla crisi del 2008. In quella fase, le economie in cui la grande impresa è più presente si mostravano più resilienti mentre soffrivano moltissimo, pur per ragioni diverse, le economie trainate dalla piccola impresa come Italia, Spagna e Grecia. Per i paesi dell’area mediterranea gli anni della crisi furono uno tsunami: in Spagna andarono persi quasi 3,5 milioni di posti di lavoro, in Italia 1,2 milioni, in Grecia 1 milione ma su una popolazione complessiva molto più piccola. La Germania, al contrario, mostrava molta capacità di resilienza, riuscendo addirittura a creare occupazione (+1,8 milioni posti di lavoro). Ora la dinamica è completamente diversa. Perché? Credo che la risposta sia questa: siamo in presenza di un fenomeno atipico, di un rallentamento dell’economia dovuto ai lockdown ma non a una recessione. In questa fase, in cui si uniscono fattori di trasformazione potenti, il piccolo si mostra più veloce del grande. L’Italia, ad esempio, è su livelli di produzione industriale che equivalgono al periodo che precede la pandemia. Non così Francia e Germania. Naturalmente, questo non significa che va tutto bene: il nostro Paese soffre meno degli altri la situazione attuale ma deve crescere la sua capacità, in particolare, di gestire i flussi occupazionali: la transizione ecologica ed energetica ci chiederà di ricollocare e di riqualificare una parte consistente di lavoratori e lavoratrici. Non siamo stati capaci in 20 anni di far funzionare le politiche attive del lavoro, questo è il nostro punto debole: auguriamoci che non sia questo a rallentare la nostra crescita.

L’infiltrazione neofascista : la rete di Roberto Fiore. Intervista a Giovanni Tizian

Roberto Fiore alla manifestazione dei No Green Pass,. Roma, 9 ottobre 2021 (LaPresse)

Roberto Fiore alla manifestazione dei No Green Pass,. Roma, 9 ottobre 2021 (LaPresse)

Il leader di Forza Nuova, Roberto Fiore, attualmente in carcere per essere stato tra i neofascisti responsabili dell’assalto criminale alla sede della Cgil di poche settimane fa, ha avuto, in questi anni, una grande capacità di infiltrazione in ambienti più “credibili”. Il neofascista Fiore, secondo il quotidiano “Domani”, è anche sotto indagine per truffa nel Regno Unito e per riciclaggio in Italia. Con Giovanni Tizian, giornalista d’inchiesta che ha dedicato diverse inchieste sul quotidiano “Domani” su Forza Nuova, approfondiamo alcuni elementi di questa strategia di infiltrazione. Giovanni Tizian è anche caporedattore della medesima testata.

Giovanni Tizian (LaPresse)

Giovanni Tizian (LaPresse)

Giovanni, sappiamo che Forza Nuova ha due livelli : quello della manovalanza e quello strategico. Da chi sono composti questi due livelli? 
Da un lato i militanti-soldato, i più giovani, arruolati nelle curve degli stadi o tramite Lotta studentesca, la giovanile di Forza Nuova. Dall’altro c’è il livello politico, che organizza, tesse relazioni e non si sporca con denunce conseguenza di raid o azioni dimostrative. Questa seconda dimensione è quella gestita da Roberto Fiore.

Veniamo all’attività di infiltrazione. Questa riguarda anche, ambienti ecclesiastici. Chi sono questi ambienti ultracattolici?
Da quanto abbiamo ricostruito nella nostra inchiesta sì. È tutto il mondo legato al World congress of families, i fondamentalisti cattolici che sono contro l’aborto e che considerano l’omosessualità una malattia. Non sono pochi, qui in Italia c’è Pro-Vita, che raccoglie un vasto consenso tra chi la pensa in quel modo. Pro-Vita vuol dire anche Fiore, il figlio lavora per Pro-Vita.

Ha avuto rapporti, anche, con ambienti vicini a Mons. Viganò (uno dei prelati più accaniti contro Papa Francesco)?
Così dicono le nostre fonti e uno dei personaggi legati a Fiore che ha confermato questo legame.

La sua infiltrazione (ovvero piazzare uomini di Forza Nuova) ha riguardato anche ambienti della Destra istituzionale. Chi sono e come è avvenuta questa infiltrazione?
A livello locale ci sono alcuni candidati che sono stati sostenuti anche da Forza Nuova. In generale però questi rapporti sono mediati da associazioni e fondazioni, collegati ai partiti istituzionali o ai neofascisti. Quando organizzano eventi capita spesso di trovare personaggi della destra fascista.

La rete di Fiore tocca anche il mondo ortodosso e degli oligarchi russi. Che tipo di rapporto c’è?
C’è un legame storico con Alexey Komov, capo del World congress offamilies in Russia, e braccio destro dell’oligarca Malofeev, molto vicino a Putin.

Come avviene l’infiltrazione nel mondo “No Vax”?
È avvenuta lasciando in secondo piano la sigla “Forza Nuova”. Partecipando alle manifestazioni senza bandiere, imponendo la direzione delle piazze. Organizzando convegni con esperti no vax senza simboli neofascisti. Si sono accreditati come partito dei no vax.

Ha finanziato qualche organizzazione “No vax”?
Si abbiamo scoperto che tramite un trust inglese fondato da Fiore sono arrivati 33 mila euro a un’associazione Vicit Leo, creata da tre professori quotati in ambienti no vax e complottisti vari.

Ci sono allora due mondi, quello ultracattolico e dei “no-vax” uniti da un flusso di denaro che porta a Forza Nuova? In che misura?
Oltre al finanziamento all’associazione “no vax”, che è anche ultracattolica, abbiamo scoperto che il capo di Pro Vita ha comprato casa da Fiore per 143 mila euro. Ma in questa casa non ci è mai andato a vivere, lasciando a Fiore l’uso dell’immobile.

Si parla anche di rapporti con giuristi. Cosa cercano? 
Attraverso i giuristi così come i medici Fiore vuole accreditarsi e infiltrarsi nel dibattito. Così come ha fatto sul DdlZan, tramite Pro vita: il figlio che lavora per Pro Vita per conto dell’associazione ha depositato una relazione contro la Zan.

Il “bailamme” italiano. Intervista a Fabio Martini.

Sono giorni di tensioni sociali. Il ribellismo sta attraversando il Paese. Un Paese, però, che sta rispondendo alla Pandemia meglio di altri. Restano, comunque, fragilità che attendono risposte.

In questo quadro la politica è in una fase di movimento. I risultati, delle elezioni amministrative, ci consegna un quadro politico in evoluzione (con tensioni nel centrodestra uscito sconfitto dalle urne). Di tutto questo parliamo, in questa intervista, con Fabio Martini , inviato del quotidiano “La Stampa”.

Fabio Martini, stiamo vivendo mesi complicati, molto complicati. Il Paese è attraversato da tensioni, anche fomentate da gruppi neofascisti. L’assalto alla Cgil è l’esempio di questa infiltrazione neofascista trovi terreno fertile nel malcontento di una certa parte della popolazione. La risposta democratica è stata decisa (vedi la manifestazione dei sindacati di sabato scorso a Piazza San Giovanni). Ti chiedo: vedi un pericolo di rinascita del neo fascismo?

«I tanti commenti di questi giorni e le manifestazioni di protesta contro l’assalto alla sede della Cgil paradossalmente hanno finito per ignorare la gravità specifica di quel che è accaduto: l’ irruzione in casa altrui e la devastazione di uno spazio interno sono due “muri” letteralmente inviolabili per una convenzione democratica non scritta ma di lunga data: fenomeni di questo tipo in tutto il mondo sono tipici di forze violente, fasciste, o autoritarie di segno diverso. Messo questo paletto concettuale, è difficile dar credito all’ipotesi di un diffuso pericolo fascista per iniziativa di una organizzazione, Forza Nuova, che conta un centinaio di militanti in tutta Italia, che ha preso pochissimi voti quando si è presentata alle elezioni. Altro conto ancora sono le manifestazioni concrete ma anche esteriori di altre sigle: non possono oltrepassare un certo limite ma sarebbe delittuoso reprimerle quando si limitano alla manifestazione del libero pensiero. O ad una nostalgia che non può essere negata a nessuno. Gli avversari del centrodestra hanno cavalcato l’emozione, sfruttando anche espressioni infelici e ambigue (il meloniano «non capisco la matrice») e conducendo una campagna battente all’insegna contro un pericolo fascista che appare sovrastimato. E che è stato utilizzato a fini elettorali. Raramente il presidente Mattarella si è espresso con altrettanta efficacia: l’assalto alla Cgil ci ha turbato ma non ci preoccupa».

Veniamo alle elezioni. I ballottaggi ci hanno consegnato almeno quattro messaggi. Il primo riguarda l’alto astensionismo. Il secondo è la crisi del sovranismo, il terzo riguarda il PD. Partito dal telaio ancora solido, il quarto messaggio riguarda Movimento 5stelle e il duo Calenda Renzi… Incominciamo dall’astensionismo che ha toccato livelli di guardia. Ma è solo disaffezione o invece qualcosa di più profondo? 

«Una somma di motivazioni. Una cosa sembra acclarata: a disertare di più sono stati gli elettori di centrodestra. Una parte dei quali, i meno intransigenti, non si sono riconosciuti nella campagna ansiogena e allarmistica dei due principali leader di quell’area politica. E’ presto per dire se sia aperto un ciclo progressista in Occidente, ma qualcosa è in atto e per il momento sembra premiare leader rassicuranti e ansiolitici: Biden, Scholz, Letta. Chi non li ama, a destra, non va a votare. E si astiene dall’appoggiare una destra che tiene gli elettori in tensione in una fase nella quale gli italiani amerebbero allentare il pressing mentale, liberarsi dallo stress, anziché esservi ricacciati».

Veniamo ai sovranisti. Salvini e Meloni hanno mancato i loro obiettivi, Milano e Roma, per incapacità nella selezione dei candidati (una cosa inaudita per gente esperta), per errori politici gravi (fascismo e rincorsa sfrenata verso i no vax  e dintorni), per la loro competizione interna. Forse per una volta  ha ragione Guido Crosetto che, in uno slancio di sincerità, afferma in un tweet “Se i tuoi potenziali elettori si astengono, la colpa non è dei tuoi avversari: se vai vai al bancomat e cerchi di prelevare con il conto in rosso, non puoi imprecare contro lo sportello…”L’ironia è pesante (detto da colui che  “definisce Giorgia Meloni la sua migliore amica”).  Come svilupperà la dinamica tra i due leader sovranisti?  

«Giorgia Meloni e Matteo Salvini in questi giorni per la prima volta hanno capito che potrebbero – entrambi! – ridimensionare le proprie ambizioni di leadership. Le uniche alle quali rischiano di poter coltivare sono quelle per il proprio partito, perché negli ultimi mesi entrambi hanno faticato ad esprimere una vocazione e una cifra da leader nazionali. Per evitare il “Papa straniero” nei prossimi mesi potrebbero persino spalleggiarsi, secondo il vecchio adagio che se non stai in piedi assieme, rischi di cadere assieme»

Una parola su Berlusconi. È l’unico del centrodestra ad aver vinto. Come giocherà Berlusconi le sue carte in questa fase?

«Con un’ unica idea in testa: quella di essere il candidato del centrodestra nelle prime tre votazioni per il Quirinale. Rischia di sfuggirgli un dato essenziale: negli ultimi anni su di lui si è ricomposto un sentimento abbastanza diffuso di simpatia ma appena sarà chiaro che vuole diventare Capo dello Stato, diventerà oggetto di una campagna forsennata. In parte giustificata. Come può fare il presidente della Repubblica un condannato in via definitiva e anche in attesa di processo? Non può e questa speranza di risarcimento postumo costerà carissima a Berlusconi, se insisterà: dissiperà il credito riconquistato».

Mentre stiamo ragionando sul dopo elezioni, ecco arrivare la notizia di un accordo tra Matteo Renzi e Miccichè in Sicilia. Cose siciliane o preludío di un qualcosa?
«Matteo Renzi, il personaggio più ricco di talento politico apparso sulla scena italiana negli ultimi 10 anni, dopo aver commesso alcuni errori esiziali, sembra essere motivato soprattutto dalla prospettiva di un buon tenore di vita: per questo non sembra più puntare ad essere leader e sembra attratto maggiormente da attività professionali diverse dalla politica».

Per Enrico Letta si tratta di una bella vittoria. La sua linea è uscita vincente. Ma sappiamo della estrema volatilità del voto. Come dovrà investire il prezioso tesoretto di queste amministrative?
«Come investire il successo ovviamente lo deciderà il Pd. Sicuramente dovranno ricordarsi del 1993: il Pds e i progressisti avevano vinto a Roma e Napoli, pochi mesi dopo persero le Politiche. E tenendo presente un dato che è più impressionistico che misurabile. Il Pd vince, anzi stravince, ma non convince. Finché vivrà di “rendita”, senza esprimere una linea da “partito della nazione”, il Pd vincerà ma non convincerà. E questo è destinato a pesare negli orientamenti degli elettori».

Pensi che reggerà la linea pro Pd di Conte nel movimento 5stelle?
«Reggerà. Anche a costo di diventare irrilevanti a medio termine. Virginia Raggi ha dimostrato che i voti ci sono ancora ma su una linea “contro”, di chi è capace di predicare alterità anche stando al governo. A breve il Movimento è destinato a diventare una corrente esterna del Pd. Di Maio si è “imborghesito” e ama restare al governo, Conte non ha la stoffa per reinventarsi il M5s. L’unica vera scossa, e anche forte, potrebbe arrivare se Di Battista per davvero metterà su un movimento tipo gilet gialli. Per non sparire in pochi mesi, i Cinque stelle potrebbero essere costretti ad un ritorno, pur tardivo, alle origini».
Cosa dobbiamo aspettarci da qui all’elezione del nuovo presidente della Repubblica? Un “Bailamme”?
«Si, il rischio bailamme esiste. Al netto di un appuntamento di complicata gestione come il rinnovo della presidenza della Repubblica, alcuni dati, e non le impressioni, sono  eloquenti. Il Pd ha stravinto nei Comuni ma centro-destra e Cinque Stelle hanno straperso. Sin qui nulla di trascendentale ma il tutto è reso più instabile da una clamorosa asimmetria: 8 dei 10 comuni più popolosi del Paese sono guidati dal centrosinistra, le Regioni sono a stragrande maggioranza di centrodestra e in Parlamento la forza di maggioranza relativa sono i Cinque Stelle!Ora , dobbiamo saper aspettare. Se ai primi di gennaio la “pratica” non sarà stata ben lavorata potrebbe accadere di tutto».

E se la conclusione di tutto questo fosse : Mario Draghi candidato Premier per una coalizione Ursula? Troppa grazia?  

«Al momento è soltanto un legittimo sogno per chi apprezza Draghi. Ma sono tanti…»