
Un giovane Sívori in azione al River Plate a metà degli anni 1950 (WikipediaCommons)
È in libreria il nuovo libro di Marco Ferrari “Ahi Sudamerica! Oriundi, tango e fútbol” nella collana “I Robinson/Storie di questo mondo” di Laterza. Il volume racconta l’emigrazione italiana in Sud America. Marco Ferrari, scrittore spezzino con alle spalle un lungo curriculum in giro per il mondo (da “Alla rivoluzione sulla Due Cavalli” a “L’incredibile storia di Antonio Salazar: il dittatore che morì due volte) ci racconta il perché di questo libro dedicato al ruolo degli italiani nel mondo latino-americano.
Quanto dura la fase migratoria italiana verso il Sudamerica?
“Quella numericamente più importante dura un secolo, dall’unità italiana al boom industriale degli anni Sessanta, che la conciude, spostando l’emigrazione dal sud al nord della penisola. Gli italiani che si trasferirono nelle Americhe ammontano a 26 milioni. All’inizio del Novecento, Genova e Buenos Aires erano quasi un’unica città separata da un oceano di mare. Nel 1890 venne inaugurata dal Genio Civile genovese la Stazione Marittima. Ampliata nel 1914, venne completata nel 1930. Il nuovo edificio, composto da tre corpi di fabbrica con passerelle di collegamento tra le varie sale, divise in prima e seconda classe nel piano primo e di terza classe nel piano calata, è quello che vediamo oggi. Il gemello argentino della Stazione Marittima si chiama Hotel de los Inmigrantes, un edificio lungo e squadrato, come una caserma di diecimila metri quadrati, circondato da un parco verde, appena discosto dalle rive dal fiume, in Avenida Atlantica Argentina. È il luogo che simboleggia l’approdo di milioni di italiani sul Rio de la Plata. Oggi, vedendolo, pare dominato dal silenzio della storia. Eppure, siamo a due passi dal chiassoso centro di Buenos Aires e molto vicini al moderno Porto Madero che ha subito le stesse trasformazioni del Porto Antico di Genova con ristoranti, locali, multisale cinematografiche e centri di divertimento”.
Che ruolo hanno avuto gli italiano in Sud America?
“Già negli anni Trenta a Buenos Aires e Montevideo gli italiani superavano per numero gli immigrati degli altri paesi e i nativi messi assieme. E’ il tempo in cui “un argentino è un italiano che parla spagnolo ma pensa di essere inglese”. Per arricchire le nascenti metropoli furono invitati, a diversi riprese, maestri architetti e artisti italiani cesellatori di forbite ricchezze urbanistiche e monumentali come Palazzo Barolo a Buenos Aires. Montevideo, poi, è stata forgiata dagli italiani: Carlo Zucchi e il Teatro Solis ideato nel 1841; Luigi Andreoni per l’Ospedale Italiano Umberto I° del 1890; Giovanni Tosi e il progetto dell’Hotel National del 1885; gli scultori carraresi Giuseppe Livi, Carlo Piccoli e Giuseppe Del Vecchio e le loro marmoree statue al Cimitero Centrale. Oggi solo le fotografie e i documentari in bianco e nero ci descrivono il cambio d’identità di tanti emigrati italiani. Poi i controlli della polizia di frontiera che non erano così severi come a Ellis Island. Quindi il primo respiro vero, a pieni polmoni, l’impatto con un mondo sconosciuto e diverso ma in fin dei conti non opposto al luogo di partenza.
E poi gli italiani diventano protagonisti del nuovo sport: il
football. Cosa creano?
“Nascono squadre mitiche, dagli Xenienses del Boca Juniors ai millionarios del River Plate, senza dimenticare il Club Màrtires de Chicago, anarchico e socialista, e l’Indipendiente, ovvero “Indipendientes de la patronal”. E dall’altra parte, come in un romanzo di Guareschi, il salesiano Lorenzo Massa faceva scendere in campo il San Lorenzo, la squadra oggi tifata anche da papa Francesco. Ma la febbre del calcio si trasmette a tutto il continente e gli italiani sono sempre i portatori sani di questa epidemia, da San Paolo del Brasile a Caracas, da Asunción a Montevideo, dove nasce il Peñarol, fondato da emigranti di Pinerolo”.
In un’Italia autarchica i figli degli oriundi furono i primi a
tornare grazie al pallone?
“In tutte queste squadre presto cominciano a crescere gli “oriundi”, ovvero tutti coloro che scelsero il pallone come metodo più sicuro per percorrere a ritroso la strada verso l’Europa. Un fenomeno che dura dall’autarchico fascismo alla riapertura delle frontiere calcistiche negli anni ottanta del secolo scorso. Scopriamo così le imprese e le avventure improbabili di calciatori geniali e destinati a segnare la storia: dal capitano del Bologna Badini al trio delle meraviglie del Torino fino al grandioso Guillermo Antonio Stabile, el filtrador. Così tra i tangueros della Juventus, da Cesarini a Sivori, il Bologna uruguaiano voluto da Mussolini e i romanisti, “traditori della patria”, in fuga dal regime fascista, ci sorprendiamo e ci commuoviamo di fronte alle vicende di questi figli dell’Europa rovesciata e depositata dall’altra parte dell’Atlantico, come scriveva Jorge Luis Borges. Storie malinconiche e surreali in cui pure Lionel Messi, la pulga, può scoprire di avere qualcosa in comune con Giacomo Leopardi.
Tra le tante storie che hai raccontato a quale sei più legata?
Certamente la vicenda del primo allenatore italiano che vinse un campionato in Sudamerica: si chiamava Vessillo Bartoli, era nato a Vado Ligure nel 1908 e faceva parte della rosa di quella squadretta operaia di provincia che passò alla storia per essersi aggiudicata la prima Coppa Italia del 1922 battendo in finale l’Udinese. La sua modesta carriera da mediano si svolse tutta nel ponente ligure, toccando come massima quota la serie C, poiché dopo il Vado approdò al Savona e quindi all’Imperia. Appese le scarpe al chiodo, Vessillo si mette a studiare il “metodo” e quindi si fa avvincere dal “sistema” di Chapman. Qualche amico emigrato lo avvisa che il calcio sta esplodendo anche sulle sponde del Paraguay, andò laggiù, nel maggio 1950 venne assunto dallo Sportivo Luqueño. I giornali gli storpiano il nome in “Vessilio Bártoli”, confondendolo spesso con l’omonimo Vito Andrés Sabino Bártoli, allenatore argentino di nascita e italiano d’origine. Nel novembre del 1951 la compagine gialloblù conquista il suo primo campionato nazionale totalizzando 29 punti, quattro in più del secondo classificato, il Cerro Porteño, campione in carica.
Un’influenza italiana sul calcio latinoamericano che è giunta
sino ai giorni nostri, come testimonia il caso Parmalat….
“Nel 1948 nacque a Caracas il Deportivo Italia rimasto in vita con quel nome sino al 2010. Era il 18 agosto ’48 quando un gruppo di emigrati prese la decisione di dedicarsi al calcio: quelle persone erano Carlo Pescifeltri, Lorenzo Tommasi, Bruno Bianchi, Giordano Valentini, Samuel Rovatti, Angelo Bragaglia, Giovanni Di Stefano, Giuseppe Pane, Luca Molinas e Alfredo Sacchi. Gli anni d’oro degli “Azules”, dai colori della maglia, identici alla nazionale italiana, furono quelli dell’era dei fratelli Mino e Pompeo D’Ambrosio, originari di San Marco Evangelista, provincia di Caserta, che durò dal 1958 al 1978. In venti anni arrivano grandi successi: quattro campionati nazionali, cinque secondi posti; tre Copa de Venezuela; sei partecipazioni alla Copa Libertadores. Nell'agosto 1998 il Deportivo Italia – passato sotto il controllo della multinazionale italiana Parmalat – divenne “Deportivo Italchacao Fútbol Club, S.A.”, mantenendo i colori, il logo e la storia della squadra degli “Azules” della comunità italiana nel Venezuela. L’Italchacao vinse il Campionato di calcio venezuelano nel 1999 e fu secondo l’anno successivo. Con il crack Parmalat del 2003 l'Italchacao sprofondò in Seconda Divisione venezuelana e rinvigorì i suoi trascorsi solo nel 2006 riacquistando il nome originario di Deportivo Italia, sotto la direzione tecnica di Raul Cavalieri e la presidenza dell'Italo-venezuelano Eligio Restifo. Dal 2010 di nuovo il cambio di nome a favore di Deportivo Petare Fútbol Club, voluto dall’azionista maggioritario della squadra capitolina, l’ingegnere Mario Hernández. Una decisione illegale secondo l’allora presidente Restifo”.