La strana vita di un riformista europeo. Romano Prodi si racconta

(La recensione uscirà nel numero 3 della “Rivista dell’AREL”. Il numero è interamente dedicato al FORUM ITALIA-SPAGNA, organizzato ogni anno dall’ Arel, agenzia di studi economici diretta da Enrico Letta. Tra i numerosi contributi segnaliamo una bella intervista Carmen Yanez, moglie del grande scrittore cileno Luis Sepulveda, ucciso dal Covid-19 nell’aprile del 2020. Sarà possibile acquistare la rivista, nelle librerie, a partire dalla prossima settimana).

 Un libro che ha avuto un grande riscontro di lettori e di opinione pubblica. Non poteva che essere così. Il personaggio, infatti, è tra quelle persone – in Italia onestamente non sono moltissime – che nel dibattito politico fanno pensare.

Il titolo incuriosisce. «Strana vita la mia. Sono del 1939. Appartengo a una generazione partita con la guerra, ma che poi è stata fortunatissima». E ha ragione. «Non solo per il noto fattore “C”, o per gli incarichi accademici o politici, ma perché può vantare di averci davvero provato a lasciare un segno», scrive Marco Ascione nell’introduzione. Per questo il libro si presenta ricco di storia e suggestioni.

L’immagine che esce fuori dalla lettura di queste pagine è quella di un uomo assolutamente consapevole di possedere grande competenza e con gli strumenti giusti per attivare le azioni di governo. Un uomo appassionato e determinato. Proprio come diceva di lui Edmondo Berselli: «Una bonomia che gronda da tutti i suoi artigli». “Artigli”, l’immagine è forte ma sta a significare certamente un uomo che non si piega (ne sanno qualcosa i cardinali Ruini e Bagnasco), ma anche la forza delle sue “armi”: riformismo e competenza.

Alla base della sua formazione economica c’è una formazione umanistica. Aver frequentato il Liceo Classico, l’Università Cattolica, la facoltà di Legge, gli ha permesso di gettare le fondamenta del suo “discorso” economico. La London School of Economic è la fucina dalla quale uscivano, e continuano a uscire, grandi economisti. Per un giovane di quei tempi, i primissimi anni Sessanta, frequentare quell’ambiente significa sprovincializzare le sue “categorie” politiche ed economiche. Se c’è un tratto permanente nella vita di Prodi è l’assoluto rifiuto di ghetti politici, culturali e perfino ecclesiali («sono un cattolico adulto»). Ha fatto dell’innovazione, e quindi del riformismo, il tratto della sua azione. Ed è anche un uomo attento alla complessità della storia.

Il libro si sviluppa sullo sfondo della grande storia italiana ed europea. Dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri. Forte è il legame con la sua terra: l’Emilia. L’Emilia democristiana che si confronta con quella comunista. Ma quella Emilia democristiana è una terra riformista. Pensiamo ai Dossetti, ai Gorrieri senza dimenticare il “bolognese d’adozione” Beniamino Andreatta (il rapporto con Andreatta è stato, come si sa, particolarissimo). Lo stesso comunismo emiliano non era certo, per come si svilupperà, un vetero comunismo. Anzi!

Per cui si può ben dire che senza quel confronto sviluppatosi in quell’Emilia non vi sarebbe stato il grande progetto dell’Ulivo.

Il saggio di Prodi, scritto con il bravo giornalista del «Corriere» Mario Ascione, presenta e fa conoscere gli innumerevoli incontri del Professore.

Dall’esperienza, anche drammatica, con l’IRI («il mio Vietnam»), alla breve avventura ministeriale,  fino alla Presidenza del Consiglio, per due volte, passando per la Presidenza della Commissione Europea. Sono davvero tanti, impossibile qui ricordarli tutti (una sola annotazione critica: un vero peccato non aver trattato, professore, il suo rapporto con il sindacato confederale, con la Cisl in particolare. Siamo certi che il suo riformismo si è alimentato, anche, del rapporto con uomini come Pierre Carniti, Raffaele Morese e Bruno Manghi, per fare solo tre nomi. E Franco Marini è citato come segretario del PPI non come sindacalista).

Ma l’importanza del libro è nel suo messaggio politico, che si sviluppa in tre direzioni.

La prima. Come già detto, il suo riformismo si alimenta del riformismo emiliano, e in questa radice si comprende il suo obiettivo strategico: tenere insieme tutte le componenti riformiste. Famose, al riguardo, sono le sue parole al Congresso del PDS nel 1995: «Mi sento uno di voi, siamo un solo tronco ma con radici diverse». Questa scelta lo pone agli antipodi di un cattolico, che in gioventù gli è stato molto amico, il potente cardinale conservatore Camillo Ruini. Una scelta non indolore per Prodi. Ma anche in questo ha mostrato di essere, sulla scia del Concilio Vaticano II, un figlio adulto della Chiesa cattolica: testimoniare con laicità e responsabilità il suo impegno politico. Dicevamo del primo grande progetto politico, quello di unire tutti i riformismi, interrottosi con la fine dell’Ulivo. Con la Segreteria del PD di Enrico Letta Prodi vede la ripresa di questo grande disegno.

Il secondo messaggio è di natura economico-sociale. E questo contiene una forte critica al neoliberismo per una forte impronta di solidarietà sociale. Per questo il Professore vede un nuovo ruolo dello Stato nella rifondazione economica dell’Italia.

La terza componente sta nella grande attenzione alla dimensione internazionale dell’azione politica. Una dimensione che si è caratterizzata fin dall’inizio della sua “bella avventura” grazie alla formazione in U.K. e USA e si è consolidata poi con l’impegno in Europa. Per Prodi l’atlantismo (quindi il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti) non deve essere coniugato in modo becero come fortezza occidentale contro il resto del mondo. È invece la base per costruire il multilateralismo, quindi il dialogo con Cina e Russia. Senza fare sconti a nessuno degli attori in campo. Guai a cedere alla nuova “guerra fredda” (tra USA e Cina), una guerra per la supremazia. In questo scenario l’Europa deve crescere nella sua consapevolezza di essere protagonista per l’equilibrio del pianeta. Per questo Prodi auspica il superamento del bipolarismo per proporre un maturo multilateralismo: «Il cammino verso il multilateralismo renderebbe certamente più percorribile un pacifico cammino di sviluppo del nostro pianeta» (p. 205). E l’appello è rivolto soprattutto all’Europa.

Allora, in questo quadro articolato, si capiscono le sue parole conclusive: «Il filo conduttore di queste mie semplici pagine (…) sta proprio nella profonda convinzione che il dialogo sia lo strumento più importante che la politica ha a disposizione. E sono anche convinto che, in questo momento storico, solo l’Europa possegga la cultura e l’autorità per poterlo usare» (p. 215).

Ecco il grande ed esigente lascito politico di Romano Prodi.

ROMANO PRODI (con MARCO ASCIONE)

Strana vita, la mia.  Ed. Solferino, Milano 2021

 

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