Stiamo distruggendo il futuro dei nostri giovani? Un testo di Leonardo Boff

 

Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, questo testo di Leonardo Boff.

La parte più decisiva della COP26 di Glasgow riguardante la riduzione dei gas serra, che causano il riscaldamento globale, si è conclusa melanconicamente. L’accordo di Parigi del 2015, che impegna le potenze economicamente più forti a raggiungere l’obiettivo di mitigazione del riscaldamento entro il 2030, non arrivando a un aumento di temperatura maggiore di 1,5 gradi Celsius, non ha prodotto alcun effetto. Ora a Glasgow si è tentata la stessa cosa. il più grande emettitore, la Cina, con il 27% e un altro grande emettitore, l’India, hanno rifiutato gli obiettivi e hanno solo dichiarato che fino al 2030 avrebbero mitigato il riscaldamento. I cambiamenti non vengono fatti dall’oggi al domani, ma in un processo difficile e coerente. Guardando indietro, possiamo dire con relativa certezza che entro il 2030 supereremo i 1,5 gradi Celsius. La stessa ONU, con i suoi consulenti specializzati, ha avvertito che con lo sviluppo del metano, 80 volte più dannoso della CO2, e seguendo i piani attuali arriveremo a + 2,7 gradi Celsius.

Questo rappresenta la “tribolazione della desolazione”: aumenteranno sensibilmente gli eventi estremi con tifoni, gravi siccità, inondazioni ovunque, specialmente nelle città costiere, erosione della biodiversità, aumento disperato della povertà, della miseria con milioni di emigranti climatici, destabilizzando molti paesi soprattutto in Medio Oriente e in Africa. Non è bastato l’avvertimento lanciato da António Guterrez, Segretario Generale delle Nazioni Unite in occasione dell’apertura dei lavori della COP26, che questa è “l’ultima opportunità” per cambiamenti radicali se non vogliamo “scavarci la fossa”. Qui riecheggiano le parole di Papa Francesco della Fratelli tutti: “siamo sulla stessa barca o ci salviamo tutti insieme o nessuno si salva” (n.30.34.)

È ormai chiaro agli analisti più seri: il problema non è il clima, ma il sistema capitalista che produce le perturbazioni del clima. I vari progetti per il periodo post-pandemia come il Greet Reset (il grande ripristino), il Capitalismo Verde, Il futuro che ci aspetta e la Responsabilità Sociale d’Impresa rappresentano gli interessi dei paesi opulenti e non gli interessi generali dell’umanità. Le soluzioni sono intra-sistemiche, senza mai mettere in discussione la vera causa delle attuali minacce. Al contrario, radicalizzano il sistema di accumulazione prevalente con la cultura consumistica che ha generato. La loro preoccupazione ecologica è superficiale e negano le minacce che gravano sul sistema-vita e sul sistema-Gaia, un super essere vivente. E così andiamo allegramente verso una tragedia ecologico-sociale di proporzioni inimmaginabili. Vale anche la pena sottolineare che la distruzione delle foreste e l’aumento dell’urbanizzazione globale, associato all’aumento della temperatura, potrebbero rilasciare – questo è l’avvertimento dei più grandi epidemiologi – una gamma incalcolabile di virus più pericolosi del Covid-19. Che non sia il prossimo Big one, già avvertito, contro il quale nessun vaccino sarebbe efficace e che potrebbe portarsi via gran parte dell’umanità. Et tunc erit finis.

In questo contesto, vogliamo fare riferimento al Quinto Tribunale Internazionale dei Diritti della Natura. Basandosi su un’approfondita indagine scientifica e giuridica, ha emesso due verdetti, uno sulla violazione dei diritti della natura e l’altro sull’Amazzonia. Mi limito all’Amazzonia, perché è la più colpita. Già il titolo è significativo: “l’Amazzonia, un essere vivente minacciato”. Il rapporto dettagliato, supportato dai dati scientifici e giuridici più attendibili, arricchito dalle testimonianze vive dei rappresentanti dei 9 paesi amazzonici, sia di indigeni, sia di altri abitanti della regione, rilasciate il 4 novembre di persona o virtualmente (nel mio caso, dal corpo dei giurati), fa paura.

Nel verdetto, senza mezzi termini, si afferma “l’Amazzonia come soggetto di diritti”. Questi sono sistematicamente violati. Si denuncia che in Amazzonia “è in atto un ecocidio, tali sono le cifre di deforestazione, perdita di biodiversità, contaminazione e prosciugamento delle risorse idriche, desertificazione, tra le altre cose che incidono gravemente sulla capacità di ripristino naturale dell’ecosistema di vita e viola il diritto di esistere della naturaÈ un crimine contro la natura e contro lumanità…”.

La relazione dell’esperto di studi amazzonici Antônio Nobre ha chiarito che nell’Amazzonia brasiliana (67% del totale) siamo vicini al punto di svolta. Ancora un po’ e i danni saranno irreversibili e ci incammineremo verso una sorta di “savanizzazione” . Questo fatto destabilizza i climi del paese, dei paesi limitrofi e dello stesso sistema mondiale. Solo incorporando la saggezza dei popoli indigeni, che naturalmente si prendono cura della foresta sentendosi parte di essa, assumendo una bio-economia adatta a quell’ecosistema e un estrattivismo rispettoso della foresta, per il quale lottava Chico Mendes, potremo fermare il processo di degradazione. Nel lungo e dettagliato rapporto si dimostra che nella vasta regione amazzonica sono in atto un ecocidio, un etnocidio e un genocidio. La situazione è disastrosa.

Tornando alla COP26, c’è un’evidente mancanza di consapevolezza delle minacce che gravano sulla Terra viva e sull’umanità da parte dei “decisions makers”, dei governanti delle diverse nazioni. Mai, in nessun momento, i paesi che rappresentano il rischio maggiore hanno riconosciuto che il sistema socio-economico-politico da essi promosso, in una parola, il capitalismo come modo di produzione e il neoliberismo come sua espressione politica, è la causa principale dell’eventuale Armageddon ecologico.

Non possiamo essere tenuti in ostaggio dalla bolla capitalista. È urgente romperla. Come? Papa Francesco ci indica una direzione: «Non si può uscire da questa crisi senza spostarsi nelle periferie». Dall’alto possiamo aspettarci solo lo stesso o peggio. Dalle periferie, dal basso, dai numerosi movimenti sociali popolari e dalle sperimentazioni alternative, nel lavoro sul territorio con un altro tipo di economia solidale, preservando i beni comuni, con una democrazia quotidiana e partecipativa, con altri valori umano-spirituali (amore, solidarietà, cura, compassione ecc.) si sta generando un nuovo modo di abitare la Casa Comune.

Senza questa necessaria svolta, stiamo distruggendo il futuro dei nostri giovani e anche il futuro della nostra civiltà. Abbiamo poco tempo e poca saggezza. Ma con la sofferenza attuale, l’amore per la Madre Terra e il riscatto dell’intelligenza cordiale, sempre più emergente, potremo forgiare un futuro di speranza. Così lo voglia Dio.

Leonardo Boff, teologo e filosofo. Tra gli ultimi saggi pubblicati in italiano ricordiamo: Abitare la terra. Quale via per la fraternità universale? (Ed. Castelvecchi, Roma 2021).

Dal sito: https://leonardoboff.org/2021/11/07/destruindo-o-futuro-de-nossos-jovens/

(Traduzione dal portoghese di Gianni Alioti)

 

“LA GRANDE MALATTIA DEGLI USA E’ LA DIPENDENZA DALLE ARMI”. INTERVISTA A MAURIZIO SIMONCELLI

Armeria (Photo by Samuel Corum/Anadolu Agency/Getty Images)

Armeria (Photo by Samuel Corum/Anadolu Agency/Getty Images)

L’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo – IRIAD ha pubblicato nei giorni scorsi un interessante studio sulle armi negli Stati Uniti. Il quadro che emerge è molto preoccupante. Ne parliamo, in questa intervista, con Maurizio Simoncelli,  Vicepresidente e cofondatore dell’Istituto di Ricerche InternazionaliArchivio Disarmo.

Professore, nei giorni scorsi, come istituto avete pubblicato un interessante studio sull’uso delle armi negli USA. Per prima cosa le chiedo: quanto è dipendente la società americana dalle armi da fuoco? Quali sono le “radici” di questa dipendenza?
La diffusione delle armi da fuoco negli Stati Uniti presso i privati cittadini affonda le sue radici nella storia di quel paese, dapprima nella rivolta armata contro la madrepatria inglese, poi nell’espansione dei coloni europei in territori immensi popolati da tribù di nativi che sono state spesso brutalmente espropriate della loro terra ed anche in una dura lotta per la sopravvivenza in aree dove non esistevano istituzioni adeguate a far rispettare la legge: la grande epopea del Far West narrataci da Hollywood ha delineato molto bene quelle vicende. La necessità di possedere un’arma fu codificata poi nel secondo emendamento della Costituzione, proprio in connessione alla resistenza popolare contro le truppe inglesi, tant’è che vi si parla di “milizia armata”.

Possiamo dare qualche numero su questa dipendenza?
Le vendite totali di armi da fuoco già nell’agosto 2020 avevano superato le vendite totali del 2019. Si calcola che circa il 30% degli americani detenga almeno un’arma, mentre il 66% ne possieda più d’una. Secondo la National Shooting Sports Foundation, un gruppo commerciale del settore, oltre 50 milioni di persone partecipano agli sport di tiro negli Stati Uniti e nel 2020 sono state vendute 20 milioni di pistole, di cui 8 milioni effettuate da acquirenti per la prima volta.

Quanto incide la lobby delle armi sul Pil statunitense?
Nell’intera industria della difesa statunitense (militare e civile) si valuta un’occupazione di circa 1.400.000 addetti (dati 2019) e si parla di cifre intorno ai 240 miliardi di dollari annui. Complessivamente settore delle armi leggere e relative munizioni si stimano 54.000 addetti nel in 790 industrie con un mercato che vale 19 miliardi di dollari (dati Ibisworld.com). Nella sola industria della Smith & Wesson (pistole, revolver e fucili) si contano 2.240 occupati, presso la Colt 19.700. Le entrate per l’industria delle armi da fuoco e delle munizioni sono cresciute del 13,4% solo nel 2020, quindi del 13,7% nel 2021 poiché l’industria è classificata come infrastruttura critica essenziale e autorizzata a continuare a operare dal Dipartimento della sicurezza interna.

Sappiamo che tra gli obiettivi del Presente Biden  c’è quello di ridurre drasticamente la vendita di armi da assalto e i caricatori a capienza elevata (che sono le armi più usate nelle sparatorie). È un obiettivo possibile?
Il presidente Biden, sin dall’inizio del suo mandato, ha dichiarato la sua volontà di contrastare il massacro annuale dovuto alla diffusione di un’enorme varietà di armi, dalle pistole ai fucili d’assalto e oltre. Le ragionevoli proposte di limitare la vendita di armi da assalto e di caricatori a capienza elevata purtroppo trovano una forte resistenza da parte della lobby armiera, che con la sua influenza sui membri del Congresso e su un’ampia fetta della società statunitense riesce a bloccare ogni tentativo di seppur minima regolazione.

Attualmente come funziona la regolamentazione della vendita di armi da fuoco?
Non esiste un sistema di raccolta dati a livello federale. Il National Instant Criminal Background Check System (NICS), facente capo all’FBI, è ad oggi l’unica fonte attendibile, peraltro ancora approssimativa. Il sistema, complesso e lacunoso, prevede che l’eventuale acquirente debba compilare un modulo, dichiarando di essere in regola per possederla. I negozianti devono controllare, collegandosi ad una agenzia federale, che il potenziale compratore non abbia precedenti penali o sia per qualche ragione segnato come “inabile” (disturbi mentali comprovati, tossicodipendenti, coloro che hanno commesso violenze domestiche e sospetti terroristi) a possedere un’arma, attraverso il meccanismo di “background check”. Tuttavia, è difficile che l’FBI possa accedere alle cartelle cliniche. Per i terroristi, invece, la legge è bloccata al Senato dal 2016. Nel modulo non si specifica quante armi si vogliono comprare e, se il controllo da parte dell’agenzia federale non avviene entro tre giorni, l’acquirente può comprare l’arma, Inoltre non tutti i negozi di armi usano esclusivamente il sistema NICS, mentre rimane aperta la questione dei venditori presso le fiere e i negozi di pegni, soprattutto online, o tra privati, dove per l’acquisto serve solo la patente di guida. Infine in molti Stati non viene richiesta la registrazione.

Il famoso secondo emendamento della Costituzione non è possibile eliminarlo?
Il Secondo Emendamento della Costituzione statunitense (promulgata nel 1789) afferma che «essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben organizzata milizia, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto». La Corte Suprema nel 2008 si è espressa a favore di questa detenzione, considerando l’importanza della difesa dello Stato e il conseguente diritto del cittadino ad avere un’arma per adempiere a questo scopo. Anche se ci sono state imponenti manifestazioni popolari dopo ogni mass shooting, la potenza della lobby armiera, cioè la NRA National Rifle Association, riesce ad impedire ogni tentativo di maggior controllo del settore.

Volendo approfondire un po’ di più quanti americani possiedono armi e chi sono i possessori?
Si parla di 393.347.000 armi possedute su una popolazione di 327
milioni di persone. Di queste ultime si calcola che il 40% di esse detenga in casa almeno un’arma. E’ interessante ricordare che, secondo una ricerca del PEW Center del 2017, il possesso di armi è più comune tra gli uomini (soprattutto bianchi) rispetto alle donne. Il 46% della popolazione rurale dichiara di possedere armi, rispetto al 28% degli abitanti della periferie e al 19% di quelli delle aree urbane.

Chi sono le vittime delle armi da fuoco? E le maggiori cause
Si parla di quasi 40.000 morti all’anno, uccisi sia in sparatorie d massa (le cosiddette mass shooting), sia in situazioni di violenza privata, sia (e in misura maggiore) per suicidi. Nel 2014 le vittime di mass shooting erano 271, nel2021 606. Agli inizi di novembre 2021 ben 17.000 persone sono state uccise con armi da fuoco, 34.000 ferite e 20.000 suicidatesi. Dato che ogni mese questo bollettino di “guerra silenziosa” vede nuove vittime, possiamo aspettarci altre migliaia di vite umane falciate di qui alla fine dell’anno in corso. E’ comunque opportuno ricordare che la legislazione in merito al possesso delle armi da fuoco varia da stato a stato, con il risultato che quelli con maggiori restrizioni in merito hanno mediamente un minor numero di vittime. In Texas risulta in mano ai privati più di un milione di armi, oltre mezzo milione in Florida e oltre 400.000 in Virginia e California, mentre in quello di New York 92.000 e in Massachusetts 45.000.

Anche la Pandemia ha giocato un ruolo devastante nell’aumento della vendita delle armi… Perché?
Incredibilmente la diffusione della pandemia ha aumentato l’insicurezza dei cittadini statunitensi, che, per timore di disordini connessi a conseguenti scarsità di risorse alimentari o crisi occupazionali, hanno pensato bene di garantirsi con acquisti massicci di armi per difendersi da assalti di eventuali malintenzionati, di fatto ritenendo incapaci le forze dell’ordine di gestire una possibile situazione del genere.

Rispetto agli USA il nostro Paese è più rigoroso?
Da diversi anni il nostro Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo IRIAD monitora queste vicende statunitensi, dato che quel grande paese spesso ha precorso con largo anticipo tappe che poi la società italiana ha raggiunto, nel bene o nel male. La legislazione italiana in questo campo è più rigorosa, tanto che la licenza per il porto d’armi per difesa personale è concessa con estrema attenzione dalle autorità competenti (appena 18.000). Altro discorso è quello relativo alle armi da caccia, che possono richiedere appunto i cacciatori (738.000): possono avere un numero illimitato di fucili da caccia a due o tre canne con un calibro non superiore ai dodici millimetri e un massimo di 1.500 cartucce.
Il vero, grosso problema è quello del porto d’armi per uso sportivo: l’impennata di questi “sportivi” appare quanto meno sospetta. Infatti la cifra si è quadruplicata in pochi anni passando dalle 125.000 persone del 2002 all’oltre mezzo milione di adesso; peraltro, risultano circa solo 100.000 tesserati presso le unioni sportive. E’ verosimile che questo sia un modo per aggirare le norme stringenti del porto d’armi per uso personale. Non esiste un controllo che i detentori di armi per uso sportivo pratichino effettivamente tale disciplina e frequentino i poligoni di tiro delle unioni sportive. In generale non risultano richiesti frequenti esami psichiatrici e tossicologici. Per di più, tra il 2017 e il 2019 un omicidio su 10 è stato commesso con armi regolarmente detenute.
Nel nostro Paese, nonostante il reale e significativo decremento degli omicidi volontari (469 nel 2015, 318 nel 2019 – dati ISTAT), negli ultimi anni è andata aumentando la richiesta di armi ad uso civile, in relazione ad una narrazione allarmistica da parte di alcuni mass media e di forze politiche che molto hanno puntato sull’insicurezza riuscendo ad ottenere l’approvazione in Parlamento delle nuove norme del porto d’armi (decreto n. 104/2018) e sulla legittima difesa (legge n. 36 del 26 aprile 2019). Anche in Italia, le armi da fuoco, tra l’altro, emergono come mezzo nel caso di suicidio maschile (13,5 per cento), mentre nel caso dei condannati il rapporto uomini/donne nel caso di violazioni delle norme in materia di armi, munizioni ed esplosivi è addirittura del 95,3 per cento (ISTAT 2019).

“Ahi Sudamerica! Oriundi, tango e fútbol”. Intervista a Marco Ferrari

Un giovane Sívori in azione al River Plate a metà degli anni 1950 (WikipediaCommons)

È in libreria il nuovo libro di Marco Ferrari “Ahi Sudamerica! Oriundi, tango e fútbol” nella collana “I Robinson/Storie di questo mondo” di Laterza. Il volume racconta l’emigrazione italiana in Sud America. Marco Ferrari, scrittore spezzino con alle spalle un lungo curriculum in giro per il mondo (da “Alla rivoluzione sulla Due Cavalli” a “L’incredibile storia di Antonio Salazar: il dittatore che morì due volte) ci racconta il perché di questo libro dedicato al ruolo degli italiani nel mondo latino-americano.

Quanto dura la fase migratoria italiana verso il Sudamerica?

“Quella numericamente più importante dura un secolo, dall’unità italiana al boom industriale degli anni Sessanta, che la conciude, spostando l’emigrazione dal sud al nord della penisola. Gli italiani che si trasferirono nelle Americhe ammontano a 26 milioni. All’inizio del Novecento, Genova e Buenos Aires erano quasi un’unica città separata da un oceano di mare. Nel 1890 venne inaugurata dal Genio Civile genovese la Stazione Marittima.  Ampliata nel 1914, venne completata nel 1930. Il nuovo edificio, composto da tre corpi di fabbrica con passerelle di collegamento tra le varie sale, divise in prima e seconda classe nel piano primo e di terza classe nel piano calata, è quello che vediamo oggi. Il gemello argentino della Stazione Marittima si chiama Hotel de los Inmigrantes, un edificio lungo e squadrato, come una caserma di diecimila metri quadrati, circondato da un parco verde, appena discosto dalle rive dal fiume, in Avenida Atlantica Argentina. È il luogo che simboleggia l’approdo di milioni di italiani sul Rio de la Plata. Oggi, vedendolo, pare dominato dal silenzio della storia. Eppure, siamo a due passi dal chiassoso centro di Buenos Aires e molto vicini al moderno Porto Madero che ha subito le stesse trasformazioni del Porto Antico di Genova con ristoranti, locali, multisale cinematografiche e centri di divertimento”.

Che ruolo hanno avuto gli italiano in Sud America?

“Già negli anni Trenta a Buenos Aires e Montevideo gli italiani superavano per numero gli immigrati degli altri paesi e i nativi messi assieme. E’ il tempo in cui “un argentino è un italiano che parla spagnolo ma pensa di essere inglese”. Per arricchire le nascenti metropoli furono invitati, a diversi riprese, maestri architetti e artisti italiani cesellatori di forbite ricchezze urbanistiche e monumentali come Palazzo Barolo a Buenos Aires. Montevideo, poi, è stata forgiata dagli italiani: Carlo Zucchi e il Teatro Solis ideato nel 1841; Luigi Andreoni per l’Ospedale Italiano Umberto I° del 1890; Giovanni Tosi e il progetto dell’Hotel National del 1885; gli scultori carraresi Giuseppe Livi, Carlo Piccoli e Giuseppe Del Vecchio e le loro marmoree statue al Cimitero Centrale. Oggi solo le fotografie e i documentari in bianco e nero ci descrivono il cambio d’identità di tanti emigrati italiani. Poi i controlli della polizia di frontiera che non erano così severi come a Ellis Island. Quindi il primo respiro vero, a pieni polmoni, l’impatto con un mondo sconosciuto e diverso ma in fin dei conti non opposto al luogo di partenza.
 
E poi gli italiani diventano protagonisti del nuovo sport: il
football. Cosa creano?

“Nascono squadre mitiche, dagli Xenienses del Boca Juniors ai millionarios del River Plate, senza dimenticare il Club Màrtires de Chicago, anarchico e socialista, e l’Indipendiente, ovvero “Indipendientes de la patronal”. E dall’altra parte, come in un romanzo di Guareschi, il salesiano Lorenzo Massa faceva scendere in campo il San Lorenzo, la squadra oggi tifata anche da papa Francesco. Ma la febbre del calcio si trasmette a tutto il continente e gli italiani sono sempre i portatori sani di questa epidemia, da San Paolo del Brasile a Caracas, da Asunción a Montevideo, dove nasce il Peñarol, fondato da emigranti di Pinerolo”.

In un’Italia autarchica i figli degli oriundi furono i primi a
tornare grazie al pallone?

“In tutte queste squadre presto cominciano a crescere gli “oriundi”, ovvero tutti coloro che scelsero il pallone come metodo più sicuro per percorrere a ritroso la strada verso l’Europa. Un fenomeno che dura dall’autarchico fascismo alla riapertura delle frontiere calcistiche negli anni ottanta del secolo scorso. Scopriamo così le imprese e le avventure improbabili di calciatori geniali e destinati a segnare la storia: dal capitano del Bologna Badini al trio delle meraviglie del Torino fino al grandioso Guillermo Antonio Stabile, el filtrador. Così tra i tangueros della Juventus, da Cesarini a Sivori, il Bologna uruguaiano voluto da Mussolini e i romanisti, “traditori della patria”, in fuga dal regime fascista, ci sorprendiamo e ci commuoviamo di fronte alle vicende di questi figli dell’Europa rovesciata e depositata dall’altra parte dell’Atlantico, come scriveva Jorge Luis Borges. Storie malinconiche e surreali in cui pure Lionel Messi, la pulga, può scoprire di avere qualcosa in comune con Giacomo Leopardi.

Tra le tante storie che hai raccontato a quale sei più legata?
Certamente la vicenda del primo allenatore italiano che vinse un campionato in Sudamerica: si chiamava Vessillo Bartoli, era nato a Vado Ligure nel 1908 e faceva parte della rosa di quella squadretta operaia di provincia che passò alla storia per essersi aggiudicata la prima Coppa Italia del 1922 battendo in finale l’Udinese. La sua modesta carriera da mediano si svolse tutta nel ponente ligure, toccando come massima quota la serie C, poiché dopo il Vado approdò al Savona e quindi all’Imperia. Appese le scarpe al chiodo, Vessillo si mette a studiare il “metodo” e quindi si fa avvincere dal “sistema” di Chapman. Qualche amico emigrato lo avvisa che il calcio sta esplodendo anche sulle sponde del Paraguay, andò laggiù, nel maggio 1950 venne assunto dallo Sportivo Luqueño. I giornali gli storpiano il nome in “Vessilio Bártoli”, confondendolo spesso con l’omonimo Vito Andrés Sabino Bártoli, allenatore argentino di nascita e italiano d’origine. Nel novembre del 1951 la compagine gialloblù conquista il suo primo campionato nazionale totalizzando 29 punti, quattro in più del secondo classificato, il Cerro Porteño, campione in carica.
 
Un’influenza italiana sul calcio latinoamericano che è giunta
sino ai giorni nostri, come testimonia il caso Parmalat….

“Nel 1948 nacque a Caracas il Deportivo Italia rimasto in vita con quel nome sino al 2010. Era il 18 agosto ’48 quando un gruppo di emigrati prese la decisione di dedicarsi al calcio: quelle persone erano Carlo Pescifeltri, Lorenzo Tommasi, Bruno Bianchi, Giordano Valentini, Samuel Rovatti, Angelo Bragaglia, Giovanni Di Stefano, Giuseppe Pane, Luca Molinas e Alfredo Sacchi. Gli anni d’oro degli “Azules”, dai colori della maglia, identici alla nazionale italiana, furono quelli dell’era dei fratelli Mino e Pompeo D’Ambrosio, originari di San Marco Evangelista, provincia di Caserta, che durò dal 1958 al 1978. In venti anni arrivano grandi successi: quattro campionati nazionali, cinque secondi posti; tre Copa de Venezuela; sei partecipazioni alla Copa Libertadores. Nell'agosto 1998 il Deportivo Italia – passato sotto il controllo della multinazionale italiana Parmalat – divenne “Deportivo Italchacao Fútbol Club, S.A.”, mantenendo i colori, il logo e la storia della squadra degli “Azules” della comunità italiana nel Venezuela. L’Italchacao vinse il Campionato di calcio venezuelano nel 1999 e fu secondo l’anno successivo. Con il crack Parmalat del 2003 l'Italchacao sprofondò in Seconda Divisione venezuelana e rinvigorì i suoi trascorsi solo nel 2006 riacquistando il nome originario di Deportivo Italia, sotto la direzione tecnica di Raul Cavalieri e la presidenza dell'Italo-venezuelano Eligio Restifo. Dal 2010 di nuovo il cambio di nome a favore di Deportivo Petare Fútbol Club, voluto dall’azionista maggioritario della squadra capitolina, l’ingegnere Mario Hernández. Una decisione illegale secondo l’allora presidente Restifo”.

“Il problema non è “cosa farà Mario” da grande, ma che fine farà l’agenda Draghi”. Intervista a Giorgio Tonini

 

 

La politica del nostro Paese sta vivendo giorni complicati. Come si arriverà alla elezione del Presidente della Repubblica? E come si comporteranno le forze politiche? Ne parliamo con un acuto osservatore della politica italiana: Giorgio Tonini. Tonini ex senatore PD, giornalista ed esponente di spicco dell’area liberal, attualmente è Consigliere Pd della Provincia autonoma di Trento e della Regione Trentino-Alto Adige.

 

 

 

Senatore Tonini, incominciamo questa nostra conversazione dal centrosinistra. Il principale partito del centrosinistra, il Pd, ha avuto una vittoria importante alle amministrative, poi però ha subito una pesante sconfitta al Senato. Mi riferisco alla votazione sul ddl Zan. Sappiamo lesito che ha avuto (un esito pesante per il centrosinistra, ma sulle conseguenze politiche torneremo dopo). Che idea si è  fatto della vicenda?

 

Sono lontano dal Parlamento da tre anni e mi è dunque difficile giudicare il lavoro e l’impegno degli altri. Non c’è nulla di più sgradevole, del resto, dei maestri del giorno dopo. La complessità delle dinamiche, non solo politiche, di questo Parlamento è poi tale da rendere pressoché impossibile prevedere in anticipo le mosse dei tanti, troppi attori che affollano le Camere. E tuttavia, proprio la constatazione di questa complessità avrebbe dovuto (credo) suggerire al Pd un approccio, ad un tema tanto controverso, più aperto e dialogico. Mi permetto di ricordare sommessamente che così facemmo, nella scorsa legislatura, con la legge sulle unioni civili: una legge di compromesso, che esclude il matrimonio per le coppie omosessuali, ma riconosce loro il diritto di affermare la valenza giuridica della loro unione. Grazie a questa mediazione la legge è stata approvata in Parlamento ed è stata accettata dalla società italiana, nelle sue diverse articolazioni politiche, culturali, religiose. E nella scorsa legislatura noi senatori del Pd eravamo il gruppo di maggioranza relativa e avevamo in mano l’arma della questione di fiducia, che infatti Renzi, allora presidente del Consiglio, pose al Senato sbloccando la situazione. A maggior ragione si sarebbe dovuto usare la prudenza e la propensione alla mediazione con numeri tanto meno favorevoli. Vorrei aggiungere che l’attitudine al dialogo e alla mediazione, in particolare sui temi cosiddetti “eticamente sensibili”, non è solo raccomandabile sul piano della prudenza e sapienza tattica: è parte costitutiva del patrimonio genetico del Pd, si pone, per così dire, come una “informazione cromosomica”, che dovrebbe essere messa in atto in modo immediato, quasi istintivo. Perché il Pd è nato sulla base della convinzione che mettendo insieme in modo aperto e dialogico visioni, culture, tradizioni diverse, si possano trovare soluzioni migliori, più avanzate, più condivise e in definitiva più efficaci, ai problemi del paese e delle persone. Se il Pd dimentica questa sua “vocazione”, finisce per perdere e soprattutto rischia di perdersi.

 

Veniamo alle conseguenze. Per Enrico Letta, quellesito segna la perdita di fiducia nei confronti di Renzi. Certo questo pone, per alcuni osservatori, qualche problema: ovvero come proseguire nella costruzione del campo largo” del centrosinistra. Qualcuno ha parlato di rischio fortino per il PD. Insomma come dovrebbe, secondo lei, proseguire il cammino per la costruzione del campo largo? Egiusto il richiamo allUlivo?

 

Non voglio sminuire l’importanza dell’impegno per i diritti civili, che è  tanto più sacrosanto quando riguarda minoranze discriminate, ma non credo che il naufragio del ddl Zan avrà conseguenze elettorali significative. Come ha detto nei mesi scorsi Romano Prodi, sono altre le questioni prioritarie nell’agenda delle famiglie italiane, a cominciare dalle questioni economiche e sociali. La sfida per la politica riformista è ancora quella di costruire un consenso maggioritario attorno ad un programma di riforme che renda il nostro paese più forte e più competitivo, perché più efficiente e più giusto. Gli alleati vanno selezionati sulla base di questo criterio. Tutto il resto, secondo me, viene dal maligno, dal demone della divisione (diavolo, come è  noto, vuol dire divisione), che è la malattia, congenita forse più che infantile, della sinistra italiana. Il Pd è nato per unire e quando è riuscito a farlo ha dimostrato di poter essere maggioranza nel paese. Quanto al campo largo, a mio modo di vedere è un’espressione equivoca. Di positivo ha la tensione unitiva, che era alla base dell’Ulivo e poi del Pd. Ma non rende chiaro ed esplicito che l’unità che si persegue è quella dei riformisti e non genericamente di tutti coloro che sono contro la destra, come fu, non con l’Ulivo, ma con l’Unione, che vinse ma poi non riuscì a governare…

 

Una domanda sulla identità del PD. Gli ultimi sondaggi lo danno in crescita, perché? E cosa manca al PD di Letta?

 

Il Pd è entrato in questo Parlamento come il grande sconfitto delle elezioni del 2018, vinte a mani basse dai due populismi, quello di Grillo e quello di Salvini, che non a caso hanno dato vita al primo governo Conte, il governo giallo-verde, il governo che voleva portare l’Italia fuori dall’euro, dall’Europa, dalla stessa solidarietà atlantica. Quel progetto, folle e velleitario, è crollato sotto il peso delle sue stesse contraddizioni, a cominciare dalla negazione del principio di realtà. È stato a quel punto che il Pd è tornato in gioco, in quanto partito “degasperiano”, fedele ai principi costitutivi dell’Italia repubblicana, a cominciare proprio dall’europeismo e dall’atlantismo, nonché da un’aperta economia sociale di mercato. La pandemia e il grande piano “New Generation Eu” hanno fatto il resto. Al di là dei sondaggi, il Pd è tornato al centro del sistema politico, perché si è posto naturalmente come asse del possibile riformismo europeista italiano, prima col governo Conte2, poi con quello Draghi. Enrico Letta è un leader che ha tutti i numeri per incarnare questo ruolo centrale del Pd. Sondaggi e soprattutto risultati elettorali stanno dando corpo a questa prospettiva. La strada da fare è chiara, ma è ancora lunga e Letta penso sia il primo a saperlo.

 

Veniamo a Matteo Renzi. Che luomo sia uno spregiudicato giocatore di Poker lo sanno anche i sassi. Ora però ci sono i fatti: lalleanza in Sicilia con uno dei massimi rappresentanti di quello che è stato il berlusconismo rampante” (Micicché), landata a Riad proprio nel giorno della votazione (un segno brutto di sfrontatezza). Questi, insieme ad altri, sono segni di una volontà di sconfiggere il centrosinistra a partire dal Quirinale. Trova meccaniscistiche” queste mie considerazioni?

 

Tutte le purtroppo numerose operazioni di scissione del Pd, da Rutelli a Bersani e D’Alema, fino a Calenda e Renzi, frutto anche dell’affievolirsi di quella forza centripeta che è alla base della esistenza stessa del partito “casa comune dei riformisti”, hanno certamente indebolito il Pd, senza peraltro dar vita a vere forze politiche nuove, in grado di insidiare il primato dem nel centrosinistra. Anche Italia Viva si è dimostrata una vicenda perlopiù interna al ceto politico, per così dire al “palazzo”, senza alcun reale rapporto con le dinamiche in atto nella società italiana. Come sempre, le operazioni di palazzo finiscono per compensare la loro inconsistenza in termini di consenso e radicamento sociale, con la spregiudicatezza nella manovra politico-parlamentare: una spirale di solito inevitabilmente regressiva. Il Pd non deve rispondere alle provocazioni, deve mantenere la mano tesa, anche perché ci sono elettori, prima e più che partitini e leaderini, da riavvicinare, rimotivare, riconquistare.

 

Una domanda sul centrodestra: sono proprio così uniti? Come può il centrosinistra mettere in evidenza le divisioni strategiche tra Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia?

 

Sono uniti come tre amici che vogliono partire insieme da Milano: ma uno, il più anziano, vuole andare a Bruxelles, un’altra a Budapest e il terzo non sa che pesci pigliare. Però si fanno fotografare alla Stazione Centrale, uniti e sorridenti. Il loro problema è che, come hanno dimostrato le recenti elezioni amministrative, all’unità del centrodestra non crede più nessuno. Perché le divisioni tra Forza Italia e Fratelli d’Italia, con in mezzo una Lega incerta e divisa, se non lacerata, tra Salvini e Giorgetti, hanno un carattere strategico, hanno a che fare con questioni di fondo, non con problemi di dettaglio. A cominciare dal rapporto con l’Europa, per finire con quello col governo Draghi: Berlusconi e i suoi al governo, insieme alla Lega di Giorgetti e dei governatori del Nord, Meloni fieramente all’opposizione e Salvini con un piede dentro e uno fuori. Il campo del centrosinistra, M5S di Conte compreso, è molto ma molto più frammentato, ma paradossalmente  assai più unito sulle questioni fondamentali, a cominciare dal rapporto con l’Europa e col governo Draghi. L’unica speranza di unità, per il centrodestra, è considerare il governo Draghi come una parentesi e non come uno spartiacque. Una speranza che va in senso opposto agli interessi e ai sentimenti del paese e può dunque portare il centrodestra ad una sconfitta strategica. Anche per questo il Pd dovrebbe fare propria, in modo inequivoco, la lettura del governo Draghi come spartiacque, che cambia in profondità la politica italiana e non come una parentesi da chiudere quanto prima per tornare al “business as usual”: incuranti del fatto che lo “status quo ante” coincide con una competizione tra due schieramenti diversamente inadeguati alla complessità dei problemi dell’Italia. Solo proponendosi in modo netto ed esplicito come sostenitore e continuatore della discontinuità rappresentata dal governo Draghi, il Pd può candidarsi credibilmente alla guida del paese.

 

Parliamo del governo Draghi. Volendo fare un bilancio, per carità assolutamente provvisorio, come giudica il cammino percorso ? Ci sono stati errori? E come giudica latteggiamento del Sindacato nei confronti del governo?

 

Fin qui, il percorso del governo Draghi è stato privo di errori rilevanti e ricco di risultati importanti, sia sul fronte del contrasto alla pandemia e della campagna vaccinale, sia su quello della ripresa economica e della partecipazione italiana al piano europeo “New Generation EU”. Al momento, l’Italia è, tra i grandi paesi europei, quello col più alto tasso di vaccinazioni e il più alto tasso di crescita economica. E tuttavia, la sfida non può ancora dirsi vinta. Sul piano sanitario, non siamo ancora arrivati all’immunità di gregge e difficilmente ci arriveremo se non si supereranno presto le ambiguità di alcune forze politiche, a cominciare dalla Lega, nei confronti del mondo no-vax. E sul piano socioeconomico, la ripresa in atto non si è ancora tramutata in aumento strutturale del tasso di crescita potenziale, condizione tra l’altro per rendere sostenibile nel medio periodo il nostro debito pubblico, gonfiato dall’emergenza pandemia. Perché ciò accada, sono necessarie le riforme e le riforme si fanno in Parlamento e richiedono il consenso delle forze politiche e dei gruppi parlamentari. Questo consenso al momento sembra essere più passivo che attivo. È come se le forze politiche, in particolare ma non solo di centrodestra, considerassero il governo Draghi una medicina amara da mandare giù, con la speranza di poterne presto fare a meno. Il governo Draghi come parentesi, invece che come spartiacque. La vicenda delle pensioni è emblematica. Piegando le resistenze della Lega e purtroppo anche della Cgil, Draghi ha ottenuto il superamento di quota 100, che nel 2022 diventerà quota 102. Ma non è ancora riuscito a costruire il consenso su cosa succederà nel 2023. A fine ‘21 non sappiamo con quali regole si andrà in pensione nel ‘23. È l’idea della parentesi che vuole scongiurare lo spartiacque. O, se si preferisce, è il morto che afferra il vivo. Speriamo che non sia questa la cifra del dibattito parlamentare sulla legge di bilancio.

 

Guardiamo a Mario Draghi. Lunedì Alan Friedman sulla Stampa di Torino ha scritto un articolo assolutamente lusinghiero nei confronti del Premier. Tanto da affermare che erano tanti anni che lItalia non esprimeva una leadership così autorevole a livello mondiale. Forse Alan Friedman ha ragione. Si pone,però, il problema di dare continuità a questa leadership. Tanto che durante il G20 la stampa italiana rilanciava la domanda che facevano i leader politici di Usa e Europa: cosa farà Mario?”. Eun problema di non poco conto visto la prossima scadenza sistemica: quella del Quirinale.  Dalla risposta a quella domanda dipenderà il futuro della politica italiana. Le chiedo: quale Scenario vede? Per il PD è meglio un Draghi al Quirinale? Oppure è meglio che continui lopera da Presidente del Consiglio?

 

Il problema, a mio modesto avviso, non è “cosa farà Mario” da grande, ma che fine farà l’agenda Draghi. È penoso (e molto preoccupante) vedere che il centrodestra (di governo e di opposizione) si riunisce per candidare Berlusconi al Quirinale, mentre il centrosinistra cerca un nome sul quale convergere e Renzi non si sa de cha parte sta. Come se non si facesse parte della stessa maggioranza di governo. Come se si pensasse che non debba esserci alcun rapporto tra la maggioranza che sostiene il governo Draghi e quella che eleggerà il prossimo presidente della Repubblica. Come se si fosse dato per acquisito lo schema della parentesi, anziché quello dello spartiacque. Uno schema palesemente disastroso per l’Italia. Il Pd dovrebbe prendere l’iniziativa di un confronto nella maggioranza di governo per cercare insieme la soluzione di assetto migliore per “dare continuità alla discontinuità” rappresentata dall’agenda Draghi: in questa, ma anche nella prossima legislatura, posto che il programma di investimenti e di riforme previsto dal PNRR ha necessariamente una gittata pluriennale, che va ben oltre il mandato dell’attuale Parlamento. Se si aprirà questo confronto all’interno della maggioranza, si potrà ragionare insieme sullo scenario migliore e sulla persona da eleggere alla presidenza della Repubblica. Lo scenario migliore, nell’interesse del paese, è quello di una convergenza tra le forze politiche di maggioranza (aperta ovviamente anche all’opposizione) attorno alla figura di un garante super partes di un accordo di fondo tra avversari, per cui chiunque vinca le prossime elezioni politiche, non saranno messi in discussione i pilastri portanti dell’Agenda Draghi. Se così avverrà, non sarà troppo difficile individuare la persona più idonea e convergere sul suo nome.

Italia: un paradiso per gli oligarchi russi. Intervista a Gianluca Paolucci

Soldi, molti soldi, traffici opachi, storie di spionaggio. Un viaggio nel potere segreto degli oligarchi, un gruppo ristretto di persone spesso legate a Putin e connesse tra loro che ha conquistato uninfluenza in Italia decisamente allarmante.

Secondo studi recenti la Russia ha la quota più alta al mondo di dark money, soldi opachi detenuti allestero: un trilione di dollari. Si stima che un quarto di questi sia collegato a Vladimir Putin e a suoi stretti associati, e il Cremlino sembra sempre più capace di pilotare operazioni aggressive. LItalia è uno dei pezzi di questo grande gioco: gli oligarchi russi in Italia investono e comprano grandi proprietà. Agiscono portando avanti attività che sono a volte al confine con lo spionaggio. Il libro ricostruisce la loro rete di rapporti in Italia: troveremo i rapporti dei servizi segreti italiani sugli investimenti fatti per sostenere operazioni di influenza politica, i passaggi in Italia degli avvelenatori di Skripal, la ricostruzione puntuale dei giganteschi flussi di denaro dalla Russia verso il nostro paese. Di tutto questo si occupa un libro, appena uscito nelle librerie, scritto da due bravi giornalisti del quotidiano la Stampa di Torino. Parliamo di  “Oligarchi.Come gli amici di Putin stanno comprando l’Italia (Ed. Laterza, pag. 240, € 18). Scritto da da Jacopo Iacoboni e Gianluca Paolucci. Con Gianluca Paolucci, in questa intervista, approfondiamo alcuni elementi della loro inchiesta.

Gianluca, tu e Jacopo avete fatto un grande lavoro di investigazione, utilizzando anche fonti inedite (di intelligence), sulla presenza degli oligarchi russi (molto vicini allo “zar” Vladimir PUTIN). Per prima vorrei chiederti se avete avuto reazioni da parte russa, sappiamo che Jacopo, per le sue inchieste, aveva ricevuto minacce pesanti da parte del potere russo….

Al momento no.

 Nel vostro saggio ci sono i nomi dei potentissimi oligarchi, alcuni di loro sono ex ufficiali del KGb e sono ancora legati al l’apparato di intelligence russo (FSB e il famigerato GRU).  Parliamo adesso di alcuni di loro presenti da anni nel nostro Paese. In particolare di due potenti oligarchi presenti da anni in Italia: Yakunin e Lebedev… Entrambi con immense proprietà in Umbria. Chi sono e che tipo di attività hanno svolto nel nostro Paese?

Per quanto riguarda i Lebedev, nel libro raccontiamo di un rapporto della nostra intelligence che cita le proprietà in Umbria come centrali per attività di ingerenza russa. Discorso diverso per gli Yakunin: l’investimento del fondo Vyi riguarda la trasformazione di un antico castello in un resort di lusso. La singolarità è che le due proprietà sono vicinissime e hanno lo stesso socio italiano (un avvocato di Roma). Per aggiungere un po’ di pepe al tutto, nel campo da golf che è in mezzo ai due castelli giocava ogni tanto Mario Draghi, che ha una splendida casa in campagna non troppo lontano.

Più in generale in quale attività del nostro paese, principalmente, si è avuta l’infiltrazione degli oligarchi?

L’elenco è lungo: gli investimenti immobiliari, ma anche attività industriali, in particolare in settori chiave come l’energia

Sappiamo che per le loro operazioni gli oligarchi utilizzano il meccanismo del “Laundromat” (lavatrice). Un meccanismo contorto di schermi, utilizzato per aggirare le sanzioni, che è difficile squarciare. Qual è stato il caso più clamoroso di riciclaggio messo in essere dagli oligarchi?

Sono diversi. Pensa al caso di Danske Bank, dalla quale sono transitati forse 200 miliardi capitali opachi prevalentemente provenienti dalla Russia e dai paesi ex Urss. O ancora la cosiddetta Frode Magnitsky, dal nome dell’avvocato russo che l’ha denunciata, poi arrestato e morto in carcere. Nel libro riportiamo anche le società offshore rivelate da Magnitsky che sono state utilizzate per fare investimenti in Italia.

 Avete scoperto come ha funzionato in Italia questa diabolica “lavatrice”?

Beh abbiamo scoperto è un po’ tanto, dato che su questo lavorano da anni alcuni dei migliori giornalisti investigativi del mondo. Abbiamo potuto analizzare i flussi di denaro verso l’Italia è visto come, attraverso questi schemi, siano arrivati nel nostro paese almeno due miliardi di euro.

Ci sono state banche italiane coinvolte?

Il problema delle normative antiriciclaggio è che le banche possono aver fatto arrivare questi soldi senza violare alcuna normativa, in maniera perfettamente legittima. Il controllo spetta alla banca d’ingresso in Europa e la cronaca, da Danske Bank a Ukio Bancas, ha mostrato come questi istituti fossero in realtà dei terminali per il riciclaggio di denaro proveniente dalla Russia

Capitali russi sono riusciti, per qualche tempo, ad essere dominanti in una economia locale importante come quella città di Siena. È così?

Beh sì. Qui c’entra in qualche modo la crisi di Mps, che ha lasciato la città in crisi economiche e con un clamoroso vuoto di potere. In questo si è inserito un signore, Igor Bidilo, che ha fatto investimenti importanti nel settore del turismo e ristorazione. Il tutto con l’appoggio e la connivenza della politica, ovviamente. Tra i suoi legami in città c’è Salvatore Caiata, candidato dai Cinquestelle nel 2018, espulso dopo il suo coinvolgimento in una indagine sul riciclaggio e adesso nel gruppo di Fratelli dItalia.

In questo tempo di Covid anche un vaccino può essere un*arma di penetrazione. Parliamo qui dello Sputnik…

Lo Sputnik è un esempio perfetto di come la Russia utilizzi l’arma della propaganda. È l’unica vaccino con un proprio account social che ne racconta i successi al mondo eppure in Russia la percentuale di popolazione vaccinata è molto bassa e in questo momento il paese sta vivendo una fase drammatica dell’emergenza con oltre mille morti al giorno. A proposito, l’uomo che voleva produrre il vaccino Sputnik in Italia, un imprenditore da anni attivo in Russia che si chiama Vincenzo Trani, ha recentemente chiamato Matteo Renzi nel board di una sua società.

Poi abbiamo anche oligarchi, definiamoli così per capirsi, “ideologi” come Malofeev. Ultra tradizionalista ortodosso. Molto conosciuto in Italia, vicino ai sovranisti italiani. Che attività ha svolto nel nostro Paese?

Malofeev, è cosa nota, è uno dei punti di riferimento dei sovranisti di mezza Europa. Per quanto riguarda l’Italia, oltre ai rapporti con esponenti della Lega Nord, nel libro raccontiamo di un convegno tenutosi a Milano e organizzato dall’Associazione Lombardia Russia di Gianluca Savoini sulle opportunità di investimento in Crimea, convegno finanziato appunto da Malofeev, all’epoca già sanzionato dagli USA per il suo coinvolgimento nel conflitto del Donbas tra Ucrainia e separatisti filorussi.

 Non solo con la destra gli Oligarchi hanno avuto dei rapporti politici. Con i 5stelle ma non solo, è così?

Il problema di fondo, che nel libro cerchiamo di raccontare, è che la penetrazioni di questi personaggi, dei loro capitali e dei loro interessi ha riguardato indifferentemente politica, economia, istituzioni.

Siamo alla fine della nostra conversazione. Il tema fa davvero impressione. Tiriamo, per quanto è possibile, un po’ di conclusioni: possiamo definire gli oligarchi come dei facilitatori del “putinismo”? Da quello si legge l’attività di contrasto a queste attività nel nostro Paese non è stata molto brillante, per cui si può dire che l’Italia per loro è stata una sorta di “paradiso”?

Come accennavo nella risposta precedente, l’Italia è stato un rifugio accogliente per questi soggetti anche per ragioni storiche. Tra queste ci sono anche attività perfettamente lecite, sia chiaro, il problema è che da parte italiana, a tutti i livelli, è mancata la minima attenzione verso ciò che stava succedendo e soprattuto verso le reali finalità di questa “penetrazione”.