Il mondo capovolto dei complottisti. Intervista a Leonardo Bianchi

Militanti Qanon

L’idea generale sulle teorie del complotto è che siano un qualcosa di pericoloso e al tempo stesso di estremamente marginale, mentre i complottisti sarebbero dei pazzoidi che vanno in giro con gli occhi sgranati convinti di essere inseguiti da elicotteri neri. È un assunto, questo, che conforta la maggior parte delle persone: noi non siamo come loro.  Ma la realtà è ben più complessa: le ricerche e gli studi più recenti dimostrano inequivocabilmente  che il complottista può essere più o meno chiunque. Perché chiunque – in una o più fasi della sua vita – ha creduto ad almeno una teoria del complotto: in gergo, è finito «nella tana del Bianconiglio».  Partendo dai Protocolli dei Savi di Sion, passando per QAnon e spingendosi fino alla pandemia e all’assalto al Congresso degli Stati Uniti, Leonardo Bianchi costruisce, in questo saggio, un quadro organico delle teorie del complotto, spiegando come nascono, in che modo e perché si diffondono, e cosa rivelano della società in cui viviamo. Il tutto senza mai rinunciare a quel rigore dell’analisi e del giudizio che ne fanno una delle voci più credibili del giornalismo italiano. Un libro che merita attenzione . Con l’autore approfondiamo alcuni punti interessanti del suo saggio. Leonardo Bianchi è giornalista e blogger, è news editor di VICE Italia. Ha collaborato, tra gli altri, con Valigia Blu e Internazionale. Dal 2008 scrive di politica, attualità Cultura anche sul suo blog satirico La Privata Repubblica.

Complotti! Da Qanon alla pandemia, cronache dal mondo capovolto

Il Libro: Complotti! Da Qanon alla pandemia, cronache dal mondo capovolto, Ed.Minimum fax, 2021, pagg. 323. 18 €

Leonardo, inizierei questa nostra conversazione con alcuni dati, presi dal Censis. Il 12,7% degli italiani pensa che la scienza provochi più danni che benefici. Questo è uno dei dati più sconcertanti del rapporto sull’Italia del 2021. Ve ne sono anche altri, ancora più drammatici. Ma questo sintetizza una mentalità. Ti chiedo come ti spieghi, in una pandemia, questa sfiducia nella scienza (sicuramente minoritaria)?

Come ha fatto in tanti altri aspetti della società, la pandemia ha accelerato una tendenza che esisteva già da tempo.

Un esempio su tutti: l’opposizione vaccinale non nasce certo con i vaccini anti-Covid, ma fin dall’invenzione dei vaccini. E non a caso, le argomentazioni antivacciniste contemporanee non hanno nulla di nuovo; anzi, sono delle versioni rivedute e aggiornate di teorie (come quella secondo cui la vaccinazione di massa è un metodo per ridurre la popolazione), che già circolavano da anni, riferite però ad altri vaccini.

A grandi linee, questo succede perché la mentalità complottista si nutre dei vuoti di conoscenza, che del resto sono fisiologici in certi ambiti. La scienza non ha risposte per tutti gli aspetti della vita umana, e questo vale a maggior ragione di fronte all’emersione di un virus sconosciuto che ha avuto un impatto devastante sulle vite di ciascuno di noi.

Infine, c’è un aspetto squisitamente politico: già prima della pandemia, diversi partiti e leader avevano fatto ampio ricorso a teorie antiscientifiche che avevano contribuito a erodere la fiducia di una parte dell’opinione pubblica nei confronti della scienza.

La pandemia si è inserita in quadro di incertezza e fragilità, e l’ha fatto saltare in aria. In questo senso, è stata davvero la tempesta perfetta.

Veniamo al tuo libro. Il saggio ci offre una analisi davvero interessante del fenomeno complottista. Un fenomeno tutt’altro che banale. Incominciamo con un dato storico. Sappiamo che le teorie complottiste sono sempre esistite (esempio: i protocolli dei savi di Sion). Però tu fai partire la tua narrazione da un, guarda che caso, dispaccio abbastanza famoso della Cia che riguarda l’omicidio di JF Kennedy. Perché?
Ho deciso di far partire il primo capitolo dal dispaccio numero 1035-960 della Cia (inviato il primo aprile del 1967) perché è all’origine di una, chiamiamola così, meta teoria cospirativa: ossia una teoria del complotto sul termine “teoria del complotto”, che sarebbe stato inventato dalla Cia per screditare chi aveva dubbi sulla versione ufficiale dell’omicidio JFK.

In sostanza, il cablogramma era una sorta di vademecum per – cito testualmente – “contrastare e screditare le affermazioni dei complottisti, nonché limitare la circolazione di certe teorie in altri paesi”. Il dispaccio è venuto fuori solo dieci anni dopo, nel 1977, e le teorie su di esso hanno iniziato a circolare dagli anni Ottanta a oggi.

A oggi ne esistono due versioni: la prima sostiene che la Cia abbia inventato il termine “teoria del complotto” da zero; l’altra riconosce la previa esistenza del termine (che risale alla fine dell’Ottocento), ma afferma che la Cia gli abbia dato una connotazione negativa.

Naturalmente non è così, visto che chi ha redatto quel testo dava per scontato il termine “complottista”, al punto tale da non doverlo nemmeno definire. E la connotazione negativa era un diretto risultato della Seconda Guerra Mondiale, in cui testi complottisti come i Protocolli dei Savi di Sion erano serviti da “licenza per un genocidio” (come li ha definiti lo storico Norman Cohn).

Tra l’altro, se l’obiettivo della Cia era arginare le teorie sull’omicidio di JFK, be’, è uno dei fallimenti più clamorosi di sempre: ancora adesso oltre la metà dei cittadini statunitensi non crede alla versione ufficiale.

Cosa è esattamente una “teoria complottista”?
Di definizioni ne sono state proposte molte, ma ormai penso che il campo sia sufficientemente delimitato e privo di equivoci. Una di quelle che mi convince di più è quella dei politologi Joseph Uscinski e Joseph Parent, che nel saggio American Conspiracy Theories descrivono le teorie del complotto come delle “spiegazioni di eventi storici, presenti o futuri, in cui il principale agente è un gruppo ristretto di persone che trama in segreto contro il bene pubblico”.

Usando un’analogia efficace, i due aggiungono che le teorie del complotto sono come un liquido che si adatta sempre al recipiente che le contiene, prendendo così la sua forma. E infatti, non esiste un singolo aspetto della vita umana che non sia suscettibile di diventare una teoria cospirativa.

A quale “logica” (tra molte virgolette) risponde?
Grosso modo, la logica complottista si basa su tre assunti: nulla è come sembra; niente accade per caso; tutto è connesso.

La pandemia, per restare sull’attualità, non è una vera pandemia; è una pandemia, cioè un evento pianificato a tavolino da malvagi cospiratori (che poi sono sempre i soliti: Bill Gates, George Soros, ecc.) per schiavizzare l’umanità e instaurare una “dittatura sanitaria” globale.

È interessante notare poi che il complottismo è un sistema di pensiero chiuso e autoreferenziale: le teorie si confermano reciprocamente tra loro, e una volta che si crede in una teoria del complotto si finisce a credere in tutte le altre.

Chi sono i complottisti? È possibile fare un profilo del complottista?
L’idea generale è che i complottisti siano dei mattoidi che vivono da reclusi in uno scantinato, e comunque ai margini della società.

Ecco: questo è un facile stereotipo, perché la faccenda è molto più sfumata e complessa di così. Anche perché, come giustamente rileva lo psicologo Jan-Willem van Prooijen in The Psychology of Conspiracy Theories, se credere in una teoria del complotto fosse l’indicatore di una patologia mentale, allora “vivremmo in una società altamente patologica”.

Diversi studi recenti, che cito nel libro, mostrano come le teorie del complotto permeano ogni strato della società e si distribuiscono più o meno equamente sullo spettro demografico, socioeconomico, occupazionale, di genere, culturale e ideologico.

Per come funziona il nostro cervello, inoltre, la propensione a credere in una teoria del complotto è universale: tutti, almeno una volta nella vita, siamo finiti nella “tana del Bianconiglio” – o siamo suscettibili a credere nell’esistenza di qualche cospirazione fittizia.

Facciamo qualche nome. Quali sono le organizzazioni complottiste più famose?
È raro che da una teoria del complotto nasca una vera e propria organizzazione; più spesso, sono le organizzazioni a sfruttare le teorie del complotto.

A volte, però, da una specifica teoria possono nascere dei veri e propri movimenti: è il caso dei cosiddetti Truther, ossia le persone convinte che l’attentato alle Torri Gemelle sia un inside job del governo americano, e più recentemente di QAnon – che è senza dubbio il movimento complottista più famoso e partecipato negli Stati Uniti, in Australia e in alcuni paesi europei.

Non sto qui a riassumerne l’intera storia (per farlo servirebbe un altro libro), ma a grandi linee si tratta di una teoria nata nel 2017 sull’imageboard 4chan dai post di un fantomatico “Q”, che sostiene di essere una talpa con accesso a informazioni riservate sulla guerra tra Donald Trump e la sua amministrazione e una presunta “cricca” di pedofili satanisti annidata dentro le istituzioni Usa.

Per quanto le premesse di tale teoria siano assurde, col tempo QAnon è riuscita a inglobare praticamente ogni altra teoria del complotto, fino ad esplodere definitivamente con la pandemia – attraverso la quale ha poi attecchito in altri paesi, su tutti il Regno Unito e la Germania.

Anche se le “profezie” di Q hanno sempre fallito, attorno a QAnon si è sviluppata una comunità di credenti, al punto tale che qualche studioso l’ha definita una “iper-religione” moderna. Come movimento politico ha infine mostrato la sua pericolosità più e più volte: uno dei primi assalitori a entrare fisicamente nel Congresso americano il 6 gennaio del 2021, tanto per fare un esempio, indossava una maglietta con la lettera Q.

Sappiamo che il complottismo può essere usato come arma non convenzionale nei conflitti politici e nei rapporti tra Stati. Un esempio è Trump. Come ha usato il complottismo l’ex presidente USA?
Trump ha costruito la sua intera carriera politica sul complottismo: non dimentichiamo che il suo vero ingresso in campo c’è stato con la diffusione della teoria razziste sul luogo di nascita di Barack Obama (il cosiddetto “birtherism”)

Da lì in poi ha sempre rilanciato ogni tipo di teoria del complotto, specialmente quelle che gli facevano comodo per mobilitare la sua base, dominare l’agenda mediatica o che – molto banalmente – lo vedevano come protagonista. Come QAnon: Trump ha più volte flirtato con i seguaci del movimento, e alla fine della sua presidenza li ha apertamente elogiati definendoli dei “patrioti”.

Dopo le elezioni del novembre del 2020, Trump e il suo entourage hanno abbracciato in toto le teorie del complotto sulle elezioni “rubate” da Joe Biden, portandole alle estreme conseguenze.

Vladimir Putin ha fatto uso di teorie complottiste?
Ogni leader politico autoritario ricorrere alle teorie cospirative, perché fondamentalmente sono un dispositivo del potere. Putin, i media del Cremlino e i servizi di sicurezza russi hanno sempre usato il complottismo come arma di repressione del dissenso interno, e come strumento per seminare caos all’estero sfruttando le divisioni già esistenti nelle società americane ed europee – e il caso delle interferenze nelle elezioni americane del 2016 ne è probabilmente la riprova più lampante.

In Europa e in Italia chi ha usato e continua ad usare il complottismo come arma politica?
Per quanto riguarda l’Italia, fino a non troppo tempo fa il Movimento Cinque Stelle è stato il partito che più di ogni altro ha incorporato il complottismo nella sua propaganda. Penso che ci ricordiamo fin troppo bene i microchip e le scie chimiche dell’ex deputato Paolo Bernini, il “falso allunaggio” dell’attuale sottosegretario all’interno Carlo Sibilia, o il tweet del senatore Elio Lannutti che rilancia con nonchalance i Protocolli dei Savi di Sion.

Anche Giorgia Meloni e Matteo Salvini hanno sempre utilizzato teorie cospirative, su tutte quella della “sostituzione etnica” – l’idea secondo cui l’immigrazione non sarebbe il frutto di complesse dinamiche geopolitiche, climatiche e sociali, ma un piano di presunte “élite globaliste” per rimpiazzare le popolazioni europee autoctone (cioè bianche e cristiane).

Meloni e Salvini sono ovviamente in ottima compagnia in Europa, e negli ultimi anni sempre più partiti della destra radicale europea hanno sdoganato e normalizzato il complottismo – specialmente con lo scoppio della pandemia.

Esempi davvero estremi in tal senso sono il leader olandese del Forum per la Democrazia (FvD) Thierry Baudet, e il candidato francese di estrema destra Eric Zemmour, che è il più vocale propagandista della teoria della “sostituzione etnica”.

Da chi è usato il “Great Reset”?
Poco sopra ho citato Baudet, e non è una coincidenza: il deputato del FvD ha più volte rilanciato questa teoria, secondo la quale la pandemia – ancora una volta – sarebbe un evento pianificato per far scattare questo fantomatico “Grande Reset” delle società occidentali e arrivare a una specie di “socialismo globale”, paradossalmente sotto l’egida del World Economic Forum, ossia l’incarnazione del neoliberismo capitalista.

Questo per dire che il “Grande Reset” è soprattutto farina nel sacco delle destre più o meno estreme, dal momento che – in ossequio al principio secondo cui nessuna teoria del complotto nasce da zero – è una versione modernizzata di quella del Nuovo Ordine Mondiale (New World Order), nata intorno all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, che a sua volta è una teoria che aveva riportato in auge la paranoia anticomunista del periodo maccartista.

Che rilevanza hanno per i servizi di informazione nella loro operatività le teorie complottiste?
Direi che hanno una grossa rilevanza, e l’hanno sempre avuta. I Protocolli dei Savi di Sion sono stati diffusi – o addirittura creati ad hoc – dall’Ochrana, la polizia segreta russa zarista, per fomentare l’antisemitismo e causare pogrom contro gli ebrei.
Più in generale, anche i servizi segreti hanno sempre usato le teorie del complotto; dopotutto, come ha scritto lo storico Aldo Giannuli, “i servizi non sono solo antenne riceventi di informazioni, ma anche emittenti, e a pari merito”. E le teorie del complotto sono uno strumento formidabile per condizionare il mondo dell’informazione.
La loro è comunque una posizione decisamente ambigua, perché ogni teoria sui servizi – essendo la loro attività, per l’appunto, segreta – è plausibile. I servizi sono del resto dei produttori di complotti veri e propri, e la storia del nostro paese è lì a dimostrarlo.

La rete è uno strumento potente di diffusione. Ci fai un esempio?
L’esempio più indicativo del rapporto tra Internet e complottismo è ancora una volta QAnon. Anche se incorpora elementi antichi, su tutti l’accusa del sangue contro gli ebrei, la teoria è il frutto di una cultura specifica – quella di 4chan, e in particolare della board (una sottosezione) /pol/, che sta per “politicamente scorretto”.

Tuttavia, QAnon sarebbe rimasto confinato su 4chan se non fossero intervenuti tre amministratori di altre board di 4chan e una youtuber complottista di estrema destra: è grazie a loro che il verbo si è diffuso al di fuori di quel recinto, trasmigrando su Reddit e poi sfondando in social network più grossi come Reddit e Facebook.

C’è comunque da dire, come hanno fatto molti commentatori, che le piattaforme hanno avuto una grossa responsabilità nella crescita impetuosa di QAnon; Facebook ha iniziato a cancellare le pagine e gli account QAnonisti solo nel 2020, quando ormai era troppo tardi.

Mi preme sottolineare un’ultima cosa, a tal proposito: quando QAnon ha raggiunto una certa massa critica sui social, e poi nella realtà, a quel punto i mass media hannodovuto parlarne. E spesso e volentieri non l’hanno fatto nella maniera appropriata, finendo per amplificare i suoi messaggi.

In altre parole: QAnon è nato su Internet, ma non sarebbe esploso senza i media – e ovviamente senza il ruolo attivo della politica.

Siamo giunti così alla fine del nostro dialogo. Ti chiedo: c’è una via per confutare le teorie complottiste?
È consolante pensare che i complottisti e le complottiste siano dei reietti della società, dominati dall’illogicità o vittime del “pensiero magico”, e che basti evidenziare i loro errori e le loro storture per sbarazzarsi delle teorie cospirative. Peccato che non sia così facile.

Le teorie del complotto sono totalmente immuni da ogni confutazione. Come ha scritto Rob Brotherton, autore di Menti sospettose, “se sembra un complotto, significa che era un complotto. Se non sembra un complotto, era sicuramente un complotto. Le prove contro la teoria del complotto diventano prove del complotto”.

La verità è che non esiste una bacchetta magica che valga per tutti – non c’è nessuna “pillola rossa”, per usare il gergo complottista mutuato da Matrix, che ti faccia uscire dalla cosiddetta “tana del Bianconiglio”. Per farlo bisogna intraprendere un difficile percorso personale, che non ha alcuna garanzia di successo. E non sarà di certo un articolo di debunking, oppure una persona che ti dà del pazzo o del cretino, a metterti su questa strada.

Il nuovo Cile di Gabriel Boric. Intervista ad Alberto Cuevas

Gabriel Boric

Le elezioni presidenziali cilene, vinte dal giovane candidato di sinistra, Gabriel Boric segnano un momento di svolta per il Cile. Come sarà il nuovo Cile di Gabriel Boric? Che ripercussioni avrà sull’America Latina? Ne parliamo con un importante interlocutore cileno, fuggito dalla dittatura fascista di Pinochet, che da molti anni vive in Italia: Alberto Cuevas. Alberto Cuevas è un Dirigente d’Azienda in pensione avendo operato negli ultimi vent’anni a Italia Lavoro, oggi ANPAL. E’ stato Direttore delle riviste “Progetto”, “Andes” e “Alamedas. Docente di Storia dell’America latina all’Università di Trieste e di Politiche migratorie all’Università di Urbino. Attualmente è consulente e collabora alla Convenzione Costituente che elabora la nuova Costituzione in Cile. Ha numerose pubblicazioni, l’ultimo volume appena uscito in Cile “La crisis del Trabajo” è stato pubblicato dall’Università Miguel De Cervantes e di prossima pubblicazione in Italia.

Alberto, la sorprendente vittoria di Gabriel Boric nelle elezioni Presidenziali cilene, per molti osservatori internazionali segna una svolta per il Paese latinoamericano.  Perché?
In Cile sta finendo un ciclo. Un ciclo che è durato trent’anni e che ha fatto del Cile un paese virtuoso per molti aspetti. In questi anni il paese ha visto crescere la “classe media” dal 23 al 58 per cento. Il Pil è superiore del 60 per cento alla media dei paesi del subcontinente americano. È il primo paese per reddito per capita. La povertà in Cile è passata in questi trent’anni dal 38 all’8 per cento. La denutrizione infantile da molti anni non è più un problema (ma lo è invece l’obesità infantile). Insomma finisce quindi un ciclo che ha visto aumentare lo sviluppo, ma in questi anni sono cresciute, in modo esponenziale, anche le disuguaglianze.
Nell’ottobre 2019 una vera e propria rivolta sociale sconvolse il paese. Erano soprattutto i giovani e gli studenti che contestavano l’aumento di 30 pesos della metropolitana di Santiago. Il conflitto dilagò anche di fronte alle mediocri e provocatorie risposte del governo di Sebastian Pinera. Nacque così lo slogan “Non sono trenta pesos ma trent’anni”. Si contestava così tutta la transizione alla democrazia iniziata nel 1990 trascinando con sé anche il fiorente periodo di grande sviluppo economico e sociale precedente.
Il paese aveva vissuto una lunga fase di progresso, sì, ma era cresciuta anche la consapevolezza che la crescita e lo sviluppo economico non possono andare a scapito del clima e del rispetto alla natura. Con la pandemia sono emersi con grande forza molti problemi: l’indebitamento delle famiglie, la disoccupazione e la precarietà del lavoro, i problemi dell’immigrazione incontrollata, la sicurezza urbana, la salute diventata una merce privata, la scuola anch’essa privata e disperatamente disuguale. Gabriel Boric propone di cambiare registro, una sorta di rivoluzione gentile di stampo socialdemocratico. È questo il compito più impegnativo del nuovo governo, provare cioè a cambiare il modello economico, dare vita ad un nuovo paradigma, con idee e programmi nuovi che puntino a costruire un modello economico meno invasivo, con più attenzione alla transizione ecologica. E la sfida è soprattutto per questa nuova generazione che si affaccia alla politica con freschezza e nuove idealità. Vedremo. Io sono ottimista.

Cosa significa per l’America Latina? L’anno prossimo vi saranno l’elezioni in Brasile…
Da molti anni il Cile è un modello per il resto dell’America latina. Lo fu con la Rivoluzione nella libertà di Eduardo Frei negli anni ’60, poi con Salvador Allende con la Unidad Popular e l’idea del socialismo nella democrazia. A suo modo anche la brutalità di Pinochet e la sua dittatura con la sua ferocia, con i desaparecidos, con la sua sequela di morte, tortura ed esilio dei dissidenti, costruì una traccia che seguirono le altre dittature militari latinoamericane negli anni ’70 del secolo scorso. Ma è soprattutto il Cile del dopo Pinochet che ha colpito l’immaginario collettivo delle nuove generazioni dell’America latina. Oggi il 67 per cento dei cileni dice che sta meglio rispetto a trent’anni fa. Il 76 per cento dei bambini che si ammala di cancro guarisce, un dato non molto lontano dei paesi industrializzati (che arrivano all’80 per cento). Oggi c’è una macchina ogni quattro abitanti, 25 anni fa c’era una macchina ogni 15 abitanti. Ma questo modello oggi è in crisi. Boric rappresenta un progetto che prevede il rovesciamento di quel modello, porre cioè fine al modello neo liberista, regolare il mercato, rafforzare il controllo e la presenza dello Stato nell’economia, la scuola e la salute. Ma soprattutto intervenire nella transizione ecologica per decarbonizzare il paese. E ancora una volta il Cile segna il cammino del futuro per il subcontinente. Ma questo è tutto da vedere.

Facciamo un piccolo identikit del nuovo presidente, che è il più giovane Capo
di Stato dell’America latina. Qual è la sua storia?
Gabriel Boric è nato a Punta Arenas nell’estremo sud del Cile australe, nel 1986. Ha studiato giurisprudenza ma senza laurearsi. Da dirigente studentesco passa alla Camera dei Deputati dove viene eletto in rappresentanza della sua Regione, cioè Magallanes, Tierra del Fuego e Antartide cilena per il periodo 2018- 2022.
Da studente è stato assistente alle cattedre di Storia istituzionale del Cile e Teoria della giustizia e Diritto internazionale dei diritti umani.
All’Università di Santiago si è unito al gruppo politico Izquierda Autónoma. Nel 2016 ha fondato il Movimento Autonomista e poi Convergencia Social.
Egli ha avuto soprattutto dopo la rivolta dell’ottobre del 2019 un eccezionale ruolo di mediatore e di negoziatore molto propositivo neutralizzando la rivolta sociale attraverso l’elezione di una Convenzione Costituente per scrivere la nuova Costituzione al posto di quella ancora vigente di Pinochet.
Oggi questo leader cerca di dimostrare che per governare è necessaria un’alleanza politica ampia, che bisogna incontrarsi con il centrosinistra e con i settori progressisti che hanno già avuto esperienze di governo in Cile. In questo senso, Boric ha costruito la sua leadership proponendo un percorso di cambiamento e di trasformazioni per il Cile nella consapevolezza però che tutto questo è possibile attraverso un modello graduale e con ampie alleanze politiche e sociali.

Parliamo del partito “Convergencia Social”. Come nasce e che tipo di programma propone?
E’ sorprendente, ma Convergencia Social è un piccolo partito che fa parte del Frente Amplio, un raggruppamento questo che raduna diversi gruppi, movimenti e partiti della sinistra radicale cilena. Convergencia Social si definisce un partito femminista, ecologista, socialista e di emancipazione sociale, ma pone al centro della sua politica e delle sue proposte il rapporto con i territori, con le regioni in un paese come il Cile estremamente centralizzato. Propone anche un rapporto diverso tra lo Stato e i Popoli originari. Bisogna ricordare che in Cile il 12 per cento della popolazione è di origine indigena.

Sappiamo che non era favorito. Quali sono state le ragioni politiche che hanno consentito la vittoria? L’allargamento della coalizione?
Credo che la chiave fondamentale della vittoria di Boric sia stato il rapporto con i territori, con le regioni, cioè la forza della novità che rappresenta un leader che proviene dalla periferia, dal sud, con una forte idea di decentralizzare il paese.
Un contributo essenziale alla leadership e alla campagna di Boric è poi venuta dalle donne, impersonate dalla presidente del Collegio Medico del Cile, e cioè il sindacato corporativo dei medici cileni, la dottoressa, Izkia Siches, che in questo periodo di pandemia ha avuto un enorme successo con le sue analisi e proposte
per affrontare l’epidemia del Covid.
La vittoria poi è stata possibile grazie a larghe maggioranze che si sono mobilitate al di fuori dei partiti. Sono soprattutto i giovani che hanno visto in un Governo di Boric uno spazio vero di trasformazioni e di cambiamenti.

Sul piano sociale da chi era sostenuto?
Giovani, donne e territori regionali sono il capitale elettorale che ha consentito una vittoria, due mesi fa del tutto inattesa. Non trascurabile poi è la sensibilità ecologica in un paese che porta avanti un modello estrattivo e di forte consumo della natura. Infine credo abbia avuto un ruolo importante il rispetto e le proposte verso le varie identità e diversità sessuali.
Diverso è il caso del mondo del lavoro, con sindacati molto deboli, con forti vincoli normativi che poco incidono nella vita sociale ed economica del paese. La disoccupazione e la precarietà del lavoro tuttavia
sicuramente hanno agevolato l’apertura e l’ascolto alle proposte di Gabriel Boric.

In Cile c’è una importante comunità ebraica e una Chiesa cattolica con una
storia importante. Come si sono schierati?
Ufficialmente nessuna si è sposta apertamente, la trasversalità è in Cile, come altrove, un fenomeno della modernità, tuttavia non è un mistero che importanti settori del cattolicesimo cileno si è schierato apertamente con il candidato del cambiamento. José Antonio Kast, il candidato delle destre, proponeva una revisione della legge, già estremamente limitata, dell’aborto; proponeva il sostegno alle famiglie “regolari”, non solo escludendo le famiglie non tradizionali (gay, trans, etc) ma anche quelle non regolarmente registrate come matrimonio, in un paese dove il 92 per cento dei bambini nasce fuori dal matrimonio. La stessa dinamica ha coinvolto la Comunità ebraica dove importanti istituzioni comunitarie, ad esempio l’Associazione Diana Aron hanno dato appoggio esplicito al candidato della sinistra.

Il Cile è un paese pieno diseguaglianze economiche e sociali. Qual è il dato più drammatico?
Credo che le sfide più importanti che Gabriel Boric dovrà affrontare sono fondamentalmente cinque: 1. la terribile situazione della salute pubblica in cui alla pandemia si è aggiunta la crisi irreversibile del modello di sanità privata che dovrà essere profondamente rivisto e trasformato; 2. La scuola e l’Università, anch’esse soggette al modello americano della supremazia del privato, fonte profonda e primaria di disuguaglianze. In Cile 8 su 10 studenti universitari appartengono alla prima generazione che arriva agli studi superiori. Ma i giovani escono dall’Università con il peso di un mutuo di 20/30 anni che limita il loro orizzonte di vita; 3. La questione dell’immigrazione. Come l’Europa, anche il Cile è un paese soggetto a forti flussi immigratori e come l’Italia di vent’anni fa non ha oggi le strutture, né le istituzioni, né la cultura per accogliere migliaia di immigrati che arrivano come turisti e poi rimangono nel paese. Il Nord del Cile e il deserto di Atacama sono poi frontiere impossibili da controllare, Ecco una sfida di grande rilievo per il nuovo presidente. 4. La riforma della previdenza. Il paradosso è che il paese che inventò il Sistema contributivo che prevede la determinazione di calcolo delle prestazioni basata sull'intera vita assicurativa di un individuo, oggi è costretto a rinnegarlo. E questo per averlo fatto e concepito in forma ideologica, avendone fatto quasi una bandiera nazionalistica. 5. La Questione Mapuche. L’occupazione incessante delle terre a sud del fiume Bío-Bío annettendo le terre dei Mapuches che, per secoli, avevano avuto una notevole autonomia dal potere centrale, oggi è insostenibile. Da anni c’è un conflitto, anche militare, con le popolazioni indigene che diventa via via sempre più grave. Finora è mancato dialogo e risposte credibili. Forse la sfida più impegnativa.
A queste cinque sfide aggiungerei i temi della sicurezza urbana, il narco traffico, la decentralizzazione amministrativa, il tutto nel quadro di un paese che con la Convenzione Costituente sta cercando di darsi una struttura istituzionale diversa e con una pandemia ancora in atto.

Adesso si dovrà cambiare la Costituzione. In che direzione cambierà?
E’ difficile dire oggi in che direzione cambierà la nuova costituzione. Alcune cose però saranno sicuramente chiare nella nuova Costituzione: i costituenti cileni stanno cercando eliminare tutte le “trappole” che, con lo scudo del “diritto di proprietà”, impediscono ogni trasformazione del paese. Un esempio, la vecchia costituzione impedisce la Negoziazione collettiva per categoria produttiva. Non sappiamo ancora, perché il dibattito è appena iniziato, se ci sarà un regime presidenziale, semi presidenziale o parlamentare. I prossimi mesi saranno determinanti ma il fatto che ci sia un governo non ostile alla nuova costituzione è sicuramente un fatto di grande importanza. E non è poco.

Tu sei un ex esule cileno, fuggito dalla dittatura criminale di Pinochet come è stata accolta nella comunità cilena europea la notizia della elezione di Boric?
Direi molto bene. E’ una piccola comunità dove Gabriel Boric ha ottenuto 389 voti contro 178 di José Antonio Kast.

Passi per sconfiggere in Brasile il fascismo e la politica dell’odio. Un testo di Leonardo Boff*

 

Pubblichiamo queste riflessioni, del famoso teologo Leonardo Boff, sulle prossime elezioni presidenziali. Infatti, nel 2022, si svolgeranno, in Brasile, oltre alle elezioni presidenziali anche quelle politiche per il rinnovo del Parlamento. L’articolo va collocato in questo contesto politico.

Questo articolo è dedicato a coloro che combattono in Brasile per una
democrazia ferita e per il riscatto della nazione devastata.

Le forze politiche, nemiche della vita, si sono alleate con il Coronavirus e stanno favorendo la decimazione di oltre 600.000 vite. Il loro obiettivo è condurci ai tempi premoderni, smantellando la nostra cultura e scienza, sopprimendo i diritti del lavoro e della sicurezza sociale, diffondendo menzogne e un odio codardo per i poveri, le popolazioni indigene, i quilombola, gli afro-discendenti, gli omosessuali e le persone LGBTI.

Ideologicamente tali forze sono ultraconservatrici con un profilo spiccatamente fascista. Sono salite al più alto potere della repubblica. Il principale rappresentante di queste forze vuole, con ogni mezzo, anche contro la legge, essere rieletto. Come parlamentare ha magnificato i torturatori e ha difeso le dittature. Come capo di stato, è stato indulgente con i grandi incendi nella foresta amazzonica, con i taglialegna e con l’insediamento di imprese minerarie e garimpos, anche nelle terre indigene. Ha commesso crimini contro l’umanità per il suo negazionismo nei confronti degli immunizzanti al Covid-19 e si è mostrato insensibile e senza alcuna empatia verso la sofferenza di migliaia di famiglie in lutto e milioni di disoccupati e affamati.

Purtroppo constatiamo la fragilità, fino all’omissione, delle nostre istituzioni ufficiali o giuridiche e la bassa intensità della nostra democrazia. Niente o poco è stato fatto per allontanare questa figura sinistra, autoritaria e fascistoide. Non possiamo assistere, impassibili, alla disgregazione demografica, culturale, politica e spirituale del nostro Paese.

Di fronte a questa tragedia storica, abbiamo bisogno, attraverso i mezzi elettorali, di frenare la pulsione di morte, presente nel potere esecutivo e nei suoi ausiliari. È necessario infliggere una clamorosa sconfitta elettorale a colui che si è dimostrato pazzo, indegno, malevolo e incapace di governare il popolo brasiliano. Merita di essere allontanato, legalmente, dalla scena politica e pagare per i suoi crimini, in modo che, alla fine, si possa vivere con un minimo di sviluppo equo e sostenibile, con pace sociale, con gioia schietta e con felicità collettiva.

Per realizzare questo passo politico ed etico, nei limiti della Costituzione e dell’ordinamento giuridico democratico, è importante, a mio avviso, compiere i seguenti passi:

Primo, garantire, se possibile al primo turno, la vittoria per la presidenza, da parte di qualcuno dotato di carisma, con la fiducia della grande maggioranza e con la capacità di tirarci fuori dal baratro oscuro in cui siamo stati gettati. In precedenza ha dimostrato di essere in grado di realizzare questa redenzione.
Non c’è bisogno di rivelare il suo nome perché è già emerso dai sondaggi
elettorali.

Secondo, non basta eleggere un presidente con tali caratteristiche. È fondamentale garantirgli un’ampia rappresentanza parlamentare affinché il presidenzialismo di coalizione non comprometta gli ideali e le finalità, presenti in origine e applicabili, come l’opzione per politiche sociali che vadano incontro alle grandi maggioranze impoverite e oppresse, con trasparenza, con l’etica di solidarietà a partire dai più vulnerabili e con un’attiva e fiera sovranità.
Altrettanto importante è garantire l’elezione dei governatori e, a tempo debito, di sindaci e consiglieri che, nei territori e alla base, diano sostegno al governo centrale con senso di giustizia sociale e cura della vita delle persone e della natura.

Terzo, – il più importante – rafforzare e, ove necessario, riprendere il lavoro di base, organizzando comitati popolari di ogni tipo, in modo che partecipino e si articolino con le organizzazioni già esistenti e attive nei campi della salute, istruzione, uguaglianza di genere e in altri ambiti, creando una coscienza di cittadinanza. Non basta garantire l’inserimento nel sistema attuale, perverso e antipopolare, ma creare una coscienza di cambiamento, puntando a un altro
tipo di società con democrazia partecipativa, ecologica e sociale.

Questo lavoro di base è imperativo se vogliamo creare le condizioni per una trasformazione che viene dal basso e creare movimenti progressisti e libertari, che traducano i sogni in pratiche fattibili e quotidiane. È a questo livello, al pianterreno, che inizia la prova del nuovo e si alimenta l’energia necessaria per continuare la rifondazione di un nuovo Brasile, contro il prolungamento della dipendenza storica, contro il gira-volta presente nella élite dell’arretratezza e contro l’oligopolio dei media, braccio ideologico della classe dominante, erede della cultura schiavista.

Siamo convinti che questo sofferente caos distruttivo passerà e si trasformerà nel promettente caos generativo di un ordine nuovo, più alto, più giusto, fraterno e premuroso per tutta la vita. Infine, di un Brasile nel quale avremo la gioia di vivere e convivere, dove sarà più facile l’amorevolezza e la giovialità che caratterizzano il meglio che è in noi.

*Leonardo Boff eco-teologo, filosofo e scrittore. Ha scritto: Brasil: concluir a refundação ou prolongar a dependência, Vozes 2018.

(Traduzione dal porrtoghese di Gianni Alioti)

I diritti della natura e della Terra. Un testo di Leonardo Boff*

Pubblichiamo, per gentile concessione, questo testo del teologo Leonardo Boff. Il testo ci richiama ai nostri doveri nei confronti della Madre Terra, la nostra Casa Comune. Occorre stipulare un nuovo “contratto naturale” con la terra.  Il 14 dicembre Leonardo Boff compirà 83 anni. Un bellissimo traguardo. Una vita spesa su più fronti: dalla teologia alla lotta per la giustizia sociale, fino alla grande battaglia per l’ecologia. Il suo amico Juan Josè Tamayo, teologo spagnolo della liberazione, per il suo compleanno ha scritto un bellissima lettera a Leonardo Boff in cui si ripercorre il suo cammino di vita (il testo spagnolo si trova qui: https://leonardoboff.org/2021/12/12/leonardo-boff-ochenta-y-tres-anos-en-camino/) . Ci uniamo anche noi agli  auguri di Tamayo, augurando a Leonardo Boff di continuare ad essere un segno di buona utopia e di speranza per tutti. . Ad multos annos, Leonardo.

Con l’intrusione del Covid-19 e l’aumento di eventi estremi, la natura e la Terra sono entrate nel radar delle preoccupazioni umane. Il fatto è che siamo all’interno della sesta estinzione di massa, aggravata dall’antropocene e dal necrocene degli ultimi decenni. Per questo s’impone un altro tipo di rapporto con la natura e con la Terra, la nostra Casa Comune, affinché mantengano la loro bio-capacità.

Questo accadrà solo se rifaremo il contratto naturale con la Terra e se considereremo che tutti gli esseri viventi, portatori dello stesso codice genetico di base (gli stessi 20 amminoacidi e le 4 basi fosfatiche), formano la grande comunità della vita così intesa dalla d. Questa afferma categoricamente che tutti loro hanno un valore intrinseco, indipendentemente dall’uso che ne facciamo, ed è per questo che meritano rispetto e sono soggetti di dignità e diritti. Più gvolte nella sua enciclica ecologica Laudato si Papa Francesco sottolinea che «ogni creatura ha un suo valore e un suo significato proprio» (n.76).

Ogni contratto è stipulato sulla base della reciprocità, dello scambio e del riconoscimento dei diritti di ciascuna delle parti. Dalla Terra riceviamo tutto: la vita e i mezzi per vivere. In cambio abbiamo un dovere di gratitudine, di retribuzione e di cura. Ma abbiamo rotto da tempo questo contratto naturale. Abbiamo sottoposto la Madre Terra a una vera guerra, nell’ansia di strapparle, senza altra considerazione, tutto ciò che ritenevamo utile per il nostro uso e godimento.

Se non ristabiliamo questo legame di reciprocità duratura, alla fine potrebbe non volerci più sulla sua faccia terrestre. Ecco perché la sostenibilità qui è essenziale, poiché costituisce la base per un vero e proprio rifacimento del contratto naturale. Il Presidente della Bolivia, l’indigeno Aymara Evo Morales Ayma, nella sua dichiarazione alle Nazioni Unite il 22 aprile 2009, mentre si discuteva se il 22 aprile continuasse ad essere la Giornata della Terra o se dovesse essere la Giornata della Madre Terra, ha affermato alcuni di questi diritti:

– Diritto alla vita e all’esistenza;

  • Diritto ad essere rispettata;
  • Diritto alla rigenerazione della sua bio-capacità e continuazione dei suoi cicli e processi vitali liberi da alterazioni umane;
  • Diritto a mantenere la propria identità e integrità come esseri differenziati, autoregolati e interconnessi;
  • Diritto all’acqua come fonte di vita;
  • Diritto all’aria pulita;
  • Diritto alla salute integrale;
  • Diritto di essere liberi da contaminazione, inquinamento e rifiuti tossici o radioattivi;
  • Diritto a non essere geneticamente alterata e modificata nella sua struttura, minacciandone cosi l’integrità o il funzionamento vitale e sano;
  • Diritto al pieno e tempestivo ripristino dopo le violazioni dei diritti riconosciuti in questa Dichiarazione e causate dalle attività umane”.

La sua proposta fu accettata all’unanimità dall’Assemblea dei Popoli. Dal 19 al 23 aprile 2009 si celebrò a Cochabamba, convocato da Evo Morales, il Vertice dei Popoli sui Cambiamenti Climatici e i Diritti della Madre Terra. Da qui nacque la Carta dei Diritti della Madre Terra con i punti da lui dichiarati all’ONU. Io stesso ero presente con l’incarico in Assemblea di fondare teoricamente tali diritti.

Questa visione ci consente di rinnovare il contratto naturale per e con la Terra che, articolato con il contratto sociale tra le persone, rafforzerà in definitiva la sostenibilità planetaria e garantirà i diritti della natura e della Terra.

Oggi sappiamo, dalla nuova cosmologia, che tutti gli esseri non possiedono solo massa ed energia. Sono anche portatori di informazioni che derivano da interazioni permanenti tra loro, che crescono fino a esplodere come autocoscienza. Questo fatto implica livelli di soggettività e di storia. Qui sta la base scientifica che giustifica l’espansione della personalità giuridica alla Terra vivente.

Dagli anni ’70, del secolo scorso, come ipotesi e dal 2002 come teoria scientifica, si è accolta la visione che la Terra è una Super Entità vivente che si comporta in modo sistemico, articolando i fattori fisico-chimici ed ecologici in modo tale da essere sempre viva e produrre la vita.

Nell’affermare che la Terra è un Super Essere vivente, è in capo a Lei la dignità e il rispetto che tutta la vita merita. Cresce sempre di più la chiara consapevolezza che tutto ciò che esiste merita di esistere e tutto ciò che vive merita di vivere. E sta a noi accogliere la sua esistenza, difenderla e garantirle le condizioni per continuare ad evolversi.

Inoltre, nessuno dubita che l’essere umano sia soggetto di diritti inalienabili e goda di soggettività e storia. Ora, questo essere umano, come sostengono molti cosmologi e antropologi, è la Terra stessa che, in un momento avanzato della sua complessità, ha cominciato a sentire, pensare, amare e prendersi cura. Questi diritti umani, per il fatto che noi siamo Terra, devono essere attribuiti anche alla Terra. I moderni l’hanno chiamata Gaia, gli antichi la chiamavano Grande Madre e gli andini Pacha Mama.

Questa soggettività ha una storia, cioè s’incontra dentro l’immenso processo cosmo-genico facendo si che la Terra viva attraverso gli esseri umani, specchiandosi, contemplando l’universo e rappresentando lo stadio più avanzato del cosmo finora conosciuto.

Michel Serres, filosofo della scienza francese, ha giustamente affermato: “La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo ha avuto il merito di dire ‘tutti gli uomini hanno diritti’ ma il difetto di pensare che solo gli uomini abbiano diritti”.

Ci sono volute molte lotte per riconoscere pienamente i diritti delle donne, delle popolazioni indigene, dei neri, come ora richiede molti sforzi riconoscere i diritti della natura e della Madre Terra, formata dall’insieme di tutti gli ecosistemi.

A causa del loro reciproco intreccio, la Terra e l’Umanità condividono lo stesso destino. Spetta a noi, sua parte cosciente e suoi curatori, far sì che questo comune destino abbia successo a condizione di rispettare la dignità e i diritti della Madre Terra.

*Leonardo Boff , ecoteologo, ha scritto: Dignità della Terra: ecologia, grido della Terra- grido dei poveri (1999/2015).

(Traduzione dal portoghese di Gianni Alioti)

 

PIATTAFORME DIGITALI E RIDER: L’EUROPA INDICA LA STRADA ITALIANA. Intervista a Giuseppe Sabella

Com’è noto, giovedì scorso la Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva sulle tutele ai lavoratori delle piattaforme digitali. Tra gli obiettivi della misura, che andrà ora al vaglio di Consiglio e Parlamento, anche quello di garantire la privacy dei lavoratori e il controllo umano degli algoritmi che ne permettono il funzionamento. Inoltre, la Commissione europea ha avviato una consultazione invitando cittadini, imprese, parti sociali, mondo accademico, enti governativi e portatori di interessi a presentare osservazioni sul progetto di orientamenti relativi all’applicazione del diritto dell’Ue in materia di concorrenza ai contratti collettivi riguardanti le tutele dei lavoratori autonomi individuali prestatori di servizi. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Oikonova / Think-industry 4.0.

Sabella, qual è la sua valutazione in merito alla proposta di direttiva della Commissione in materia di tutele ai lavoratori delle piattaforme digitali?

Il cambio di passo della Commissione von der Leyen, rispetto alla stagione guidata da Jean Claude Juncker, è rilevante in materia di politiche sociali. Al di là delle circostanze anche drammatiche che hanno favorito il grande accordo sul Next Generation EU, ricorderei che lo scorso anno, sempre attraverso lo strumento della direttiva, la Commissione richiamava gli stati membri all’introduzione del salario minimo adeguato. È anzitutto evidente la forte intenzione dell’Europa di imprimere un cambiamento in materia di diritti sociali, cosa per altro molto in linea con l’Agenda Onu 2030 che non è soltanto un programma per l’ambiente. In sintesi, il Green Deal europeo vuole essere un nuovo corso. Speriamo lo sia anche nei fatti e non solo nei piani di Bruxelles. In secondo luogo, in materia di salario minimo come in materia di piattaforme digitali, è evidente l’attenzione che la Commissione mostra per la contrattazione collettiva.

Perché ritiene significativa questa attenzione?

In Italia, da tempo, i ministri del lavoro che si alternano parlano dei loro obiettivi spesso prescindendo dal ruolo delle Parti sociali. Non è questa una difesa d’ufficio di nessuno, soltanto vi sono aspetti della regolazione del lavoro che se vengono fagocitati dal decisore politico diventano rigidissimi. Da più osservatori, ad esempio, nel nostro Paese si invoca un intervento sul lavoro da remoto. È evidente che c’è un vuoto normativo da colmare, ma non può essere la legge a disciplinare i rapporti tra impresa e lavoro, se non a costruire una cornice, come sta facendo la Commissione in particolare in materia di piattaforme, favorendo il lavoro delle Parti. Impresa e lavoro devono poter tornare a intervenire in modo rapido su norme e accordi che stipulano. La legge, in questo senso, è burocratica e apre al contenzioso giudiziale.

Mentre il vicepresidente Dombrovskis dice che, se svolgono lavoro subordinato, i lavoratori delle piattaforme digitali devono avere lo stesso livello di tutele che hanno gli altri lavoratori, c’è chi muove accuse alla Commissione di ostacolare i grandi player del lavoro digitale. È così?

Mi sembra francamente un’accusa un po’ fantasiosa. Anzitutto, la direttiva introduce alcuni criteri – se la piattaforma determina il salario o impone un tetto salariale; se controlla l’operato del rider; se individua orari di lavoro determinati, o limita i periodi di vacanza, e impedisce al lavoratore di farsi sostituire; se stabilisce regole perentorie che il lavoratore deve adottare; se impedisce al rider di ampliare il proprio ventaglio di clienti – e dice che nel caso in cui due di queste condizioni si verificassero contestualmente, si tratterebbe di subordinazione. Concretamente, oggi sono oltre 28 milioni le persone nell’UE che lavorano mediante piattaforme digitali e si prevede che nel 2025 arriveranno a essere 43 milioni. La stragrande maggioranza di queste persone sono lavoratori autonomi. Si stima – questo è il punto – che 5,5 milioni di questi lavoratori siano erroneamente classificati come indipendenti, il che si traduce, tra l’altro, nel mancato versamento di contributi per un importo compreso tra 1,6 e 4 mld di euro l’anno. In buona sostanza, la traduzione della direttiva da parte degli stati membri riguarderebbe al momento meno del 20% del totale dei lavoratori digitali. Mi sembra, in sintesi, sia questo l’inizio di una chiarezza importante circa la classificazione del lavoro emergente.

In Italia la giurisprudenza in particolare era già arrivata a riconoscere lo status di lavoro dipendente ai fattorini digitali. Tra l’altro, il lavoro dell’eurogruppo italiano pare sia stato importante nello sviluppo di questa direttiva. Che conclusioni trarne?

In primis, nella fattispecie, il dlgs 81/2015 – che su altri punti è stato smontato dalla Corte Costituzionale – ha sancito un orientamento importante nel diritto del lavoro italiano, ovvero quello di applicare la disciplina della subordinazione anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative ed etero-organizzate. Da qui la decisione finale della magistratura di ricondurre il caso riders al lavoro subordinato. D’altro canto, lo stop dei Tribunali di Bologna e Firenze per l’illegittimità del contratto Assodelivery-Ugl chiede di individuare nuove soluzioni condivise dalle Parti sociali. In questo senso, la direttiva europea, favorisce un intervento del governo per la riapertura di un tavolo nazionale.

Cosa possiamo prevedere come possibile evoluzione della situazione italiana?

Al punto in cui siamo, l’evoluzione deve arrivare dalla contrattazione collettiva. E qui qualche considerazione possiamo farla. Oggigiorno, per quanto il sindacato dei lavoratori fatichi a essere attrattivo, va anche detto che il ritardo è del sindacato confederale. Sul piano dei sindacati di categoria, si continuano a rinnovare accordi che sono funzionali al lavoro e che a livello europeo sono ritenuti innovativi. Penso in particolare a contratti dell’industria. Questo per dire che le relazioni industriali conservano un ruolo importante nel nostro Paese che non credo verrà meno nei prossimi anni, anzi. Per non allontanarci troppo dal settore delle piattaforme, se pensiamo all’accordo che qualche mese fa i sindacati hanno raggiunto con Amazon, è evidente che si è avviata una fase di relazioni industriali di importante qualità tra il colosso dell’e-commerce e il nostro sindacato. Accordo “storico” hanno detto autorevoli rappresentanti del sindacato al termine della trattativa e la stessa azienda non ha nascosto soddisfazione. Voglio dire con questo una cosa molto semplice: in Italia sappiamo fare i contratti e oggi si è universalmente capito, dopo le intemperie dell’ultimo decennio, che il lavoro ha bisogno dell’impresa. Ricordo, in questo senso, una frase di Susanna Camusso – già segretaria generale della Cgil – in piena crisi economica (2013): “bisogna salvare l’impresa per salvare il lavoro”. In un Paese con una cultura del lavoro così conflittuale come il nostro, negli ultimi anni – complici la crisi economica del 2008 e la pandemia – abbiamo fatto importanti passi in avanti da questo punto di vista. Naturalmente ognuno tira acqua al suo mulino. Ma, come emerge anche dalle stime sulla crescita degli organismi internazionali, siamo tutt’altro che impreparati per affrontare il nuovo ciclo economico alle porte. È merito, anche, della contrattazione collettiva.