PIATTAFORME DIGITALI E RIDER: L’EUROPA INDICA LA STRADA ITALIANA. Intervista a Giuseppe Sabella

Com’è noto, giovedì scorso la Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva sulle tutele ai lavoratori delle piattaforme digitali. Tra gli obiettivi della misura, che andrà ora al vaglio di Consiglio e Parlamento, anche quello di garantire la privacy dei lavoratori e il controllo umano degli algoritmi che ne permettono il funzionamento. Inoltre, la Commissione europea ha avviato una consultazione invitando cittadini, imprese, parti sociali, mondo accademico, enti governativi e portatori di interessi a presentare osservazioni sul progetto di orientamenti relativi all’applicazione del diritto dell’Ue in materia di concorrenza ai contratti collettivi riguardanti le tutele dei lavoratori autonomi individuali prestatori di servizi. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Oikonova / Think-industry 4.0.

Sabella, qual è la sua valutazione in merito alla proposta di direttiva della Commissione in materia di tutele ai lavoratori delle piattaforme digitali?

Il cambio di passo della Commissione von der Leyen, rispetto alla stagione guidata da Jean Claude Juncker, è rilevante in materia di politiche sociali. Al di là delle circostanze anche drammatiche che hanno favorito il grande accordo sul Next Generation EU, ricorderei che lo scorso anno, sempre attraverso lo strumento della direttiva, la Commissione richiamava gli stati membri all’introduzione del salario minimo adeguato. È anzitutto evidente la forte intenzione dell’Europa di imprimere un cambiamento in materia di diritti sociali, cosa per altro molto in linea con l’Agenda Onu 2030 che non è soltanto un programma per l’ambiente. In sintesi, il Green Deal europeo vuole essere un nuovo corso. Speriamo lo sia anche nei fatti e non solo nei piani di Bruxelles. In secondo luogo, in materia di salario minimo come in materia di piattaforme digitali, è evidente l’attenzione che la Commissione mostra per la contrattazione collettiva.

Perché ritiene significativa questa attenzione?

In Italia, da tempo, i ministri del lavoro che si alternano parlano dei loro obiettivi spesso prescindendo dal ruolo delle Parti sociali. Non è questa una difesa d’ufficio di nessuno, soltanto vi sono aspetti della regolazione del lavoro che se vengono fagocitati dal decisore politico diventano rigidissimi. Da più osservatori, ad esempio, nel nostro Paese si invoca un intervento sul lavoro da remoto. È evidente che c’è un vuoto normativo da colmare, ma non può essere la legge a disciplinare i rapporti tra impresa e lavoro, se non a costruire una cornice, come sta facendo la Commissione in particolare in materia di piattaforme, favorendo il lavoro delle Parti. Impresa e lavoro devono poter tornare a intervenire in modo rapido su norme e accordi che stipulano. La legge, in questo senso, è burocratica e apre al contenzioso giudiziale.

Mentre il vicepresidente Dombrovskis dice che, se svolgono lavoro subordinato, i lavoratori delle piattaforme digitali devono avere lo stesso livello di tutele che hanno gli altri lavoratori, c’è chi muove accuse alla Commissione di ostacolare i grandi player del lavoro digitale. È così?

Mi sembra francamente un’accusa un po’ fantasiosa. Anzitutto, la direttiva introduce alcuni criteri – se la piattaforma determina il salario o impone un tetto salariale; se controlla l’operato del rider; se individua orari di lavoro determinati, o limita i periodi di vacanza, e impedisce al lavoratore di farsi sostituire; se stabilisce regole perentorie che il lavoratore deve adottare; se impedisce al rider di ampliare il proprio ventaglio di clienti – e dice che nel caso in cui due di queste condizioni si verificassero contestualmente, si tratterebbe di subordinazione. Concretamente, oggi sono oltre 28 milioni le persone nell’UE che lavorano mediante piattaforme digitali e si prevede che nel 2025 arriveranno a essere 43 milioni. La stragrande maggioranza di queste persone sono lavoratori autonomi. Si stima – questo è il punto – che 5,5 milioni di questi lavoratori siano erroneamente classificati come indipendenti, il che si traduce, tra l’altro, nel mancato versamento di contributi per un importo compreso tra 1,6 e 4 mld di euro l’anno. In buona sostanza, la traduzione della direttiva da parte degli stati membri riguarderebbe al momento meno del 20% del totale dei lavoratori digitali. Mi sembra, in sintesi, sia questo l’inizio di una chiarezza importante circa la classificazione del lavoro emergente.

In Italia la giurisprudenza in particolare era già arrivata a riconoscere lo status di lavoro dipendente ai fattorini digitali. Tra l’altro, il lavoro dell’eurogruppo italiano pare sia stato importante nello sviluppo di questa direttiva. Che conclusioni trarne?

In primis, nella fattispecie, il dlgs 81/2015 – che su altri punti è stato smontato dalla Corte Costituzionale – ha sancito un orientamento importante nel diritto del lavoro italiano, ovvero quello di applicare la disciplina della subordinazione anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative ed etero-organizzate. Da qui la decisione finale della magistratura di ricondurre il caso riders al lavoro subordinato. D’altro canto, lo stop dei Tribunali di Bologna e Firenze per l’illegittimità del contratto Assodelivery-Ugl chiede di individuare nuove soluzioni condivise dalle Parti sociali. In questo senso, la direttiva europea, favorisce un intervento del governo per la riapertura di un tavolo nazionale.

Cosa possiamo prevedere come possibile evoluzione della situazione italiana?

Al punto in cui siamo, l’evoluzione deve arrivare dalla contrattazione collettiva. E qui qualche considerazione possiamo farla. Oggigiorno, per quanto il sindacato dei lavoratori fatichi a essere attrattivo, va anche detto che il ritardo è del sindacato confederale. Sul piano dei sindacati di categoria, si continuano a rinnovare accordi che sono funzionali al lavoro e che a livello europeo sono ritenuti innovativi. Penso in particolare a contratti dell’industria. Questo per dire che le relazioni industriali conservano un ruolo importante nel nostro Paese che non credo verrà meno nei prossimi anni, anzi. Per non allontanarci troppo dal settore delle piattaforme, se pensiamo all’accordo che qualche mese fa i sindacati hanno raggiunto con Amazon, è evidente che si è avviata una fase di relazioni industriali di importante qualità tra il colosso dell’e-commerce e il nostro sindacato. Accordo “storico” hanno detto autorevoli rappresentanti del sindacato al termine della trattativa e la stessa azienda non ha nascosto soddisfazione. Voglio dire con questo una cosa molto semplice: in Italia sappiamo fare i contratti e oggi si è universalmente capito, dopo le intemperie dell’ultimo decennio, che il lavoro ha bisogno dell’impresa. Ricordo, in questo senso, una frase di Susanna Camusso – già segretaria generale della Cgil – in piena crisi economica (2013): “bisogna salvare l’impresa per salvare il lavoro”. In un Paese con una cultura del lavoro così conflittuale come il nostro, negli ultimi anni – complici la crisi economica del 2008 e la pandemia – abbiamo fatto importanti passi in avanti da questo punto di vista. Naturalmente ognuno tira acqua al suo mulino. Ma, come emerge anche dalle stime sulla crescita degli organismi internazionali, siamo tutt’altro che impreparati per affrontare il nuovo ciclo economico alle porte. È merito, anche, della contrattazione collettiva.

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