Il futuro ora dipende da noi. Un testo di Leonardo Boff

Pubblichiamo, per gentile concessione, questa intensa riflessione del teologo brasiliano Leonardo Boff.         

La COP26 di Glasgow ha deluso nel punto centrale: nel consenso sulla mitigazione del riscaldamento globale, poiché ha accolto favorevolmente anche l’uso del carbone, seppure progressivamente abolito come fonte energetica. Ma ha avuto un merito, mai visto nelle precedenti 25 sessioni della COP. Questa volta, senza eccezioni, è stata ammessa l’esistenza antropica dei cambiamenti climatici. Gli eventi estremi, il rilascio di metano dovuta allo scioglimento del permafrost e delle calotte glaciali, 20 volte più dannoso della CO2, la crescente erosione della biodiversità, la gamma di virus come il Covid-19, il sovraccarico terrestre (Earth Overhoot) che ci spaventa ogni anno, in quanto il consumo attuale richiede più di una Terra e mezzo (1,75) impedendo la bio-capacità e facendoci superare alcune dei Nove Confini Planetari (9 Planetarian Bounderies), che potrebbero mettere a rischio il nostro grado di civiltà, hanno superato i negazionisti che prima preferivano difendere le proprie fortune e capitali sulla vita del pianeta e il nostro futuro comune.

Tali eventi hanno dato vita a scenari apocalittici e a un vero terrore metafisico, nel senso che temiamo per la nostra sopravvivenza su questo pianeta. Molti sono gli avvertimenti di questa eventualità da parte di illustri scienziati e soprattutto di Papa Francesco, che nell’ultima e paradigmatica enciclica, Fratelli tutti (2020) ha affermato categoricamente: siamo sulla stessa barca; o ci salviamo tutti o nessuno si salva” (n.34).

C’è un’accesa disputa in tutto il mondo su come la storia seguirà dopo la pandemia. Diversi modelli sono all’ordine del giorno. Credo che i più radicali vadano scartati, in quanto sono troppo crudeli e contro la vita umana come il Great Reset, il “Grande Ripristino” di un capitalismo dispotico, suggerito dal principe parassita Carlo e assunto dallo 0,1% dei miliardari mondiali . Anche l’allettante “Capitalismo Verde” che punta a ricoprire di verde l’intero pianeta, ma non pone mai il problema della disuguaglianza sociale che penalizza e miete vittime di milioni di vite umane. Accettabili e, in un certo senso, promettenti, sono l’eco-socialismo e il bien vivir y convivir andino. Entrambi sarebbero praticabili sul presupposto di una governance globale e pluralista, disposta a trovare soluzioni globali a problemi globali come la pandemia e un ordine planetario minimo che includa tutti nell’unica Casa Comune, compresa la natura.

Credo che Papa Francesco nella Fratelli tutti abbia presentato alcuni dei valori fondamentali da cui si potrebbe disegnare un paradigma per garantire il futuro della specie e della nostra civiltà: una bio-civiltà centrata sulla fraternità senza frontiere e sull’amicizia sociale universale.

Ci siamo resi conto chiaramente che sono necessari tre presupposti: il primo, superare il paradigma in vigore da alcuni secoli, quello dell’essere umano come dominus (proprietario e padrone), che non si sente parte della natura, ma che la domina con lo strumento della tecno-scienza. Il secondo, assumere un’alternativa al dominus che sarebbe il frater: l’essere umano, uomo e donna, fratelli e sorelle l’uno dell’altro e di tutti gli esseri della natura, perché tutti abbiamo un’origine comune, l’humus della Terra , perché siamo portatori dello stesso codice genetico di base e perché ci sentiamo parte della natura. Il terzo, attivare il “principio della speranza”, più profondo della virtù della speranza, quell’impulso interiore che non conosce né tempo né spazio e che è sempre presente negli esseri umani, portandoli all’indignazione contro gli errori sociali e al coraggio di trasformarli mediante la proiezione di nuovi mondi, di utopie praticabili e di un superamento di sé.

I valori non saranno presi dalle grandi narrazioni già provate, quella dell’illuminismo, del capitalismo e del socialismo sfociate nell’attuale crisi sistemica e che, pertanto, non hanno adempiuto ai loro scopi. Dovremo abbeverarci dal proprio pozzo, nella natura essenziale dell’essere umano.

Lì scoprire che siamo essenzialmente esseri di relazioni illimitate, la cui migliore espressione risiede nell’amore; esseri di solidarietà che all’inizio dell’evoluzione ci ha permesso di fare il salto dall’animalità all’umanità; esseri di cooperazione perché solo insieme possiamo costruire il nostro habitat che si realizza nella convivenza, nella società e nelle civiltà, in una parola, nel bene comune generale; esseri di cura, poiché questo definisce la natura umana da tutti gli esseri viventi e che emerge anche come costante cosmologica: tutto esiste perché tutti i fattori si sono sottilmente combinati per far esplodere la vita, e come sotto-capitolo della vita, la vita umana e l’universo stesso, che senza la dovuta cura di tutti gli elementi, non ci permetterebbe di stare qui a scrivere di queste cose; esseri spirituali, capaci di porre le domande più radicali sul perché della nostra esistenza, assolutamente gratuita, su qual’è il nostro posto nell’insieme degli esseri, a quale destino siamo chiamati e il fatto che lo intuiamo, dietro tutto ciò che esiste e vive, alla base di un’Energia potente e amorevole (il Vuoto Quantico, l’Energia di fondo dell’universo o l’Abisso Generatore di tutto ciò che esiste?) a cui possiamo relazionarci con riverenza e riverente silenzio.

Da questi valori sarà possibile forgiare un altro mondo possibile e ora necessario. Logicamente, il passaggio da un paradigma all’altro non avverrà dall’oggi al domani e non senza grandi difficoltà, opposizioni e crisi. Ma non abbiamo altra alternativa. Come ha scritto Eric Hobsbawn nel suo The Age of Extremes (1995) nell’ultima pagina: Non sappiamo dove stiamo andando. Se l’umanità vuole avere un futuro significativo, non può essere prolungando il passato e il presente. Se proviamo a costruire il terzo millennio su questa base, falliremo. E il prezzo del fallimento, cioè l’alternativa per cambiare la società, è l’oscurità” (p.562).

Ciò è particolarmente vero per coloro che desiderano tornare alla vecchia normalità, perversa per la vita della natura e per la vita umana. Dobbiamo cambiare, altrimenti, come ha detto il segretario dell’Onu, António Guterrez, aprendo i lavori della Cop26: Se non agiamo ora, ci scaveremo la fossa”.

Il futuro è oggi come proclamato dai 100.000 della COP26 parallela di Glasgow. Se non iniziamo da subito ad orientarci sui valori sopra citati, apriremo la strada a un disastro ecologico-sociale di proporzioni mai viste prima. Ma credo e spero, spero e credo che la pulsione di vita, più forte della pulsione di morte, ci porterà ai cambiamenti necessari. Vivremo e ancora brilleremo.

*Ecoteologo brasiliano. Autore di numerosi saggi di etica ecologica, molti tradotti in italiano . Uno degli ultimi è uscito per Castelvecchi editore : Abitare la Terra. Quale via per la fraternità universale? (2021)

 

(Traduzione dal Portoghese di Gianni Alioti)

“L’anima nerissima di Verona”. Intervista a Paolo Berizzi

Paolo Berizzi (Wikipedia)

Paolo Berizzi (Wikipedia)

Nel cuore del ricco Nordest, Verona è il laboratorio italiano dell’estrema destra di potere. Qui ex skinhead e animatori di festival nazirock, capi ultrà che allo stadio inneggiano a Hitler ed esaltano “una squadra a forma di svastica”, tradizionalisti cattolici nemici giurati dell’illuminismo, dello Stato unitario e del “dilagante progressismo ecclesiale”, avvocati dal saluto romano fin troppo facile, promotori di cene e gite in cui “è gradita la camicia nera” entrano in consiglio comunale nella lista del sindaco, organizzano manifestazioni finanziate dal Comune, diventano presidenti di società partecipate o della commissione sicurezza, finiscono a capo dell’Istituto per la storia della Resistenza… In questo libro, Paolo Berizzi racconta le vicende e le contraddizioni di una città unica. Riavvolge il filo che risale non solo ai tempi della repubblica di Salò, di cui Verona fu una delle capitali, ma addirittura agli albori del movimento fascista, visto che quello di Verona fu, nel 1919, il “fascio terzogenito”, nato appena due giorni dopo la fondazione dei Fasci di combattimento in piazza San Sepolcro a Milano. Mostra il fertile terreno di coltura che ha alimentato l’eversione nera, da Ordine Nuovo alla Rosa dei venti al Fronte Nazionale di Franco Freda, o i deliri dei due serial killer che, firmandosi Ludwig, intendevano ripulire il mondo dalla “feccia morale e sociale”, sterminando prostitute, omosessuali, senzatetto, tossicodipendenti, presunti viziosi, preti scomodi. Fotografa un presente in cui la destra radicale monopolizza il tifo calcistico, le proteste ai tempi della pandemia, eventi come il Congresso mondiale delle famiglie. Verona è oggi l’immagine di un possibile futuro per l’Italia e per l’Europa, e questo libro è un invito a non distogliere lo sguardo. Con Paolo Berizzi, giornalista d’inchiesta di Repubblica, in questa intervista mettiamo a fuoco alcuni elementi della sua coraggiosa inchiesta.

Paolo, il tuo libro è una grande inchiesta su Verona che è diventata una “città laboratorio” della estrema destra nazifascista. Riprenderemo fra poco il concetto di “città laboratorio”, ora vorrei soffermarmi su un punto che ti riguarda. Tu sei l’unico giornalista europeo ad essere sotto scorta per le minacce ricevute dall’estrema destra. Questo per le tue coraggiose inchieste giornalistiche di denuncia del fenomeno neofascista. Hai ricevuto minacce per questo libro? Riuscirai a presentarlo a Verona?
“Lo presenterò a Verona il 15 dicembre (20:30) al teatro Santissima Trinità. Con me ci saranno Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, e Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale dell’Anpi. Li ringrazio già da ora. Come autore, non potevo e non potrei chiedere di meglio. Sono due ospiti sensibilissimi al tema della denuncia e del contrasto dei gruppi neofascisti e dell’applicazione piena della Costituzione repubblicana antifascista e antirazzista . La loro presenza al mio fianco a Verona è un segnale importante, che mi fa sentire meno solo. Ricordo che il sindacato di Landini due mesi fa è stato vittima di un attacco squadrista ed eversivo da parte di Forza Nuova, un attacco che qualcuno sembra avere già dimenticato e che invece, nella sua gravità, ci ha riportato a più di 100 anni fa, all’inizio del fascismo. L’assalto alla Cgil è’ stato un attacco frontale alla democrazia, come un attacco alla democrazia è ogni qual volta i neofascisti intimidiscono e mettono nel mirino chi fa informazione e fa inchieste sui loro gruppi. Da anni sono sotto attacco dell’estrema destra neofascista e neonazista e il fatto che l’unico cronista europeo sotto scorta per minacce di questo tipo sia italiano e lavori in Italia  è un triste primato e una spia, credo, del clima che si respira nel nostro Paese. Non sopportano il mio lavoro e siccome l’informazione e la cultura sono un terreno sconosciuto ai fascisti, non sapendo come muoversi e come rispondere, fanno l’unica cosa che sanno fare: intimidire, minacciare, usare la violenza. Due anni fa i gruppi neofascisti veronesi – Forza Nuova in testa – mi minacciarono anche di morte e con una mobilitazione tentarono di impedire anche fisicamente la presentazione di NazItalia in città. Fui costretto – nel silenzio delle istituzioni, sindaco in primis – a presentare in una sala e in un quartiere blindato da centinaia di poliziotti e carabinieri. Ma la risposta della Verona antifascista fu straordinaria. Due anni dopo – siamo a oggi – non si trovava una sala disponibile a ospitare “E’ gradita la camicia nera” . L’intervento di Cgil e Anpi ha sbloccato la situazione. Penso che se un libro di inchiesta diventa un problema di ordine pubblico, in quella città c’è qualcosa che non va. Infatti ho deciso di fare un libro”.

Veniamo al libro. Perché definisci Verona una città laboratorio per l’estrema destra italiana? Cosa rende Verona così particolare e permeabile a questa ideologia di morte?
Si parla di un “rito veronese”… “Verona è da anni il vero laboratorio privilegiato dell’estrema destra. In quella città i gruppi neofascisti e neonazisti vanno a braccetto con la destra istituzionale, sovranista, in doppiopetto, e con gli ultracattolici integralisti, reazionari, oscurantisti, antiabortisti e omofobi. C’è una saldatura e una sinergia di sistema tra questi tre pezzi di società, una specie di osmosi che fa di Verona e del “rito veronese” – un mix di identitarismo, conservatorismo, chiusura, razzismo e orgoglio spinto all’ennesima potenza – un caso unico in Italia. Verona è l’archetipo, è il luogo dove è nato l’asse tra ultradestra e partiti sovranisti. Qui la camicia nera non è gradita solo ai neofascisti dichiarati ma anche a Lega e FdI”. Ci sono anche elementi di satanismo nell’estrema destra? “In passato ce ne sono stati, penso alle organizzazioni eversive e sanguinarie degli anni 70-80 e 90”. Come è stato possibile, in una città bianca democristiana, che una ideologia così sia diventata “senso comune”, o, per usare un termine un pò abusato, sia diventata egemonica? “C’è un filo che parte dal passato, dal fascismo storico e dalla Rsi. Verona era un luogo centrale, uno snodo. Della Rsi è stata teatro e capitale. Poi quel filo – passando dall’eversione nera – è arrivato a oggi. La Verona nera è una minoranza che però, sdoganata dalla politica e dal palazzo, diventa maggioranza ombra: l’estrema destra a Verona non è marginale, è al centro della scena e dentro le istituzioni locali. La città bianca democristiana ha lasciato il posto a una città dove un’ampia zona grigia tiene in pancia la zona nera, le fa da scudo. Quando va male la tollera, quando va bene – quasi sempre – ci va a braccetto”.

Facciamo qualche nome. Chi sono i maggiori “attori” di questa galassia di estrema destra nazifascista?
“Ci sono i leader storici del Veneto Fronte Skinhead e i capi e capetti di Forza Nuova e di Fortezza Europa, quest’ultima, di ispirazione neonazista, è l’ultima formazione nata. Ci sono i capi ultrà della curva dell’Hellas Verona e consiglieri comunali dal saluto romano facile. Molti di questi personaggi fanno parte de cerchio nero del sindaco di FdI Federico Sboarina. L’uomo più vicino al sindaco, suo assistente a palazzo Barbieri, è Umberto Formosa detto “il picchiatore”, già daspato: estrema destra, stadio, l’ambiente è sempre quello. Altri due nomi che ricorrono sono Luca Castellini – tra i denunciati per l’assalto alla Cgil del 9 ottobre a Roma, e Andrea Bacciga, oggi leghista, vicinissimo al sindaco”.

Quali sono gli agenti incubatori che favoriscono il reclutamento in queste formazioni?
“Centrale è L’idea che le mura di Verona vadano difese dai “diversi”. Shakespeare scriveva “non c’è mondo al di fuori delle mura di Verona”. Ecco: il buon butèl veronese – ultrà dell’Hellas, ultracattolico, di estrema destra – si erge a guardiano, a difensore della città, in particolare del centro storico. I ‘diversi’ sono mal sopportati o attaccati: in primis,  immigrati e comunità Lgbtq. Dio patria famiglia sono un motto attuale, come sangue e onore, e così spesso la città dell’amore si fonde con la città dell’odio”.  Nel libro parli, tra l’altro, dell’omicidio del giovane Tommasoli. Ammazzato di botte per una “sigaretta negata”.

Da chi è stato compiuto e cosa ha significato per la città?
“La sigaretta era solo un pretesto. Tommasoli è stato ucciso perchè portava i capelli lunghi legati in un codino: agli occhi dei cinque che l’hanno ucciso a calci e pugni era un diverso. Un diverso che con la sua presenza macchiava il centro storico dove passeggiava con gli amici. I cinque giovani che hanno ucciso Nicola – tutti condannati – erano tutti ultrà dell’Hellas Verona, due erano iscritti a Forza Nuova e uno al Blocco studentesco (l’organizzazione giovanile di CasaPound). L’omiciio Tommasoli è stato un omicidio a sfondo razzista, con una matrice, di fatto, ideologica. E’ stato un abisso di violenza, di odio per l’odio. Troppi l’hanno dimenticato. Ho dedicato il libro a Tommasoli per tenere accesa la memoria”.

Stiamo parlando di organizzazioni violente, quali sono stati gli episodi più gravi che hanno compiuti dagli estremisti di destra?
“Ne parlo nel libro, ce ne sono a decine, molti dei quali finiti in inchieste giudiziarie e sentenze. Pestaggi, pestaggi politici, razzismo e disordini da stadio. Alla base, l’ideologia nazifascista. Non celata ma, anzi, esibita, in piazza come allo stadio. Con la politica  istituzionale che ha strizzato l occhio”.
La destra istituzionale, in particolare il Sindaco Sboarina, come si pone di fronte a questi gruppi? 
“Strizza l’occhio, va a braccetto, coccola, offre spazi e sponde. Ne raccoglie le istanze e condivide iniziative, slogan, manifestazioni e convegni. Ci sono collegamenti, in molti casi i rapporti sono stretti”.

L’altra Verona, quella democratica della solidarietà come sta reagendo a tutto questo?
“Prova a farsi sentire, ma purtroppo resta schiacciata nell’angolo: è oscurata dalla Verona nera e dalla zona grigia che la protegge. C’è una Verona straordinaria, accogliente, solidale, democratica, progressista, anti razzista, attenta ai diritti di tutti soprattutto di chi ne ha meno. Ma non emerge, non emerge perché certa politica ha cucito addosso alla città l’abito e l’immagine che la Verona virtuosa cerca di contrastare. L’abito è la camicia nera”. Ultima domanda : come giudichi la percezione dell’opinione pubblica italiana nei confronti di questi gruppi?  “C’è stata e continua a esserci troppa tolleranza. Sia nel discorso pubblico, sia da parte della politica e della magistratura. All’estero non sono così tolleranti, i gruppi neonazifascsti all’estero li chiudono. Qui no, si tollera, si prende tempo, si decide di non decidere. I fascisti sono tornati sulla scena perchè li abbiamo sottovalutati, e sottovalutandoli li abbiamo normalizzati. Ci sono sempre stati, ma prima avevano vergogna a uscire allo scoperto, adesso non ne hanno più. Trovano terreno fertile. L’indifferenza apre spazi e loro ci si infilano. l’indifferenza diventa complicità. Con il mio lavoro cerco di contrastare i neofascismi e anche l’indifferenza che li favorisce”.

“Un viaggio contro l’imbarbarimento dell’Europa”. Intervista a Maria Antonietta Calabrò

Un viaggio religioso e politico quello di Francesco nell’Isola di Cipro e in Grecia. Oggi il papa è tornato a Lesbo dove ha incontrato i migranti, un incontro forte. E le parole espresse nel suo discorso in difesa dei migranti sono state altrettanto forti. Un altro punto importante, di questo intenso viaggio, è stato il discorso tenuto, ieri ad Atene, alle autorità elleniche. Due discorsi complementari. Domani il pontefice farà ritorno a Roma. Con Maria Antonietta Calabrò, vaticanista dell’Huffington post, cerchiamo di approfondire il significato di questo viaggio apostolico di Papa Francesco.

Maria Antonietta, oggi Papa Francesco è stato nell’isola di Lesbo. Ha incontrato i migranti si è schierato dalla loro parte, ha legato il dramma dell’immigrazione ai nazionalismi che chiudono alla solidarietà, ha detto parole dure contro i costruttori di muri. Un discorso politico potente, rigoroso. Di fronte a queste parole l’Europa balbetta. Qual è il tuo pensiero? 

L’Europa balbetta  si. Ricordo a tutti che “i barbari” vennero denominati così alla fine del mondo antico perché appunto “ balbettavano” , non sapevano esprimersi , erano giudicati appartenenti a una civiltà primitiva, rozza e  feroce e crudele. Concetto ben diverso da quello di straniero , lo straniero era sempre accolto in quanto inviato dalla divinità e per questo era sacro. Papa Francesco ( cosa non facile per un argentino, venuto quasi dalla fine del mondo) sempre più sta sottolineando l’importanza dell’Europa, della civiltà europea, e delle sue radici. Con accenti diversi da quelli del suo predecessore Benedetto XVI, ma quello che fu all’inizio del Pontificato di Ratzinger (tedesco) lo troviamo adesso alla fine di quello di Francesco. Ieri il papa ha voluto passare con la sua auto per ammirare il Partenone, e  con quanta emozione ha detto che il Vangelo è stato scritto in greco e che greca è la stessa definizione della seconda persona trinitaria, quel Gesù di Nazaret che è  il Logos  che era all’inizio dei tempi ed il Logos  che è presso Dio.

Anche per i mezzi di informazione ripetere gli appelli del Papa sui migranti, rischia di logorarsi e di trasformarsi in una comunicazione impoverita,  alla fine sterile ,se sganciata da questa “riscoperta” dell’Europa e della sua” forma “ greco romana.Del resto, il cristianesimo all’inizio ebbe “bisogno” dell’impero romano per diventare universale, globale: ubi Roma, ibi modus. E della “ immortale ” lingua greca, della filosofia greca per per esprimersi e pensarsi. Solo così le genti più diverse furono raggiunte dall’evangelizzazione. Se oggi noi creiamo muri per fermare i migranti e abbiamo trasformato il Mediterraneo ” in un cimitero senza lapidi”, come ha detto Francesco è perché siamo diventati “barbari”.

Veniamo al secondo, straordinario, intervento di questo viaggio: quello tenuto ieri ad Atene di fronte alle autorità elleniche. Il discorso è davvero coltissimo (con citazioni dj Aristotele, dell’Illiade e di Padri della Chiesa greci). Insomma un discorso di politica alta. Ti chiedo quali sono le direttrici del rinnovato europeismo immaginato dal Papa? 

Come dicevo si tratta di due discorsi  assolutamente complementari, ma quello di Lesbo, lo si può comprendere a fondo, solo leggendolo attraverso quello di Atene. Il discorso in cui il Papa ha sottolineato che lui è andato “pellegrino” e che sovrabbondano di spiritualità, cultura e civiltà per attingere alla stessa felicità che entusiasmo “ il grande padre della Chiesa San Gregorio di Nazianzo: “Era la gioia di coltivare la sapienza e di condividerne la bellezza, una felicità non individuale e isolata, ma che nasce dallo stupore, tende all’infinito e si apre alla comunità”.  La Grecia – ha aggiunto – il Papa – invita l’uomo di ogni tempo a orientare il viaggio della vita verso l’Alto. Verso Dio, perchè abbiamo bisogno della trascendenza per essere veramente umani”. Voglio continuare : “mentre nell’Occidente che da qui è sorto si tende a offuscare il bisogno di Cielo, intrappolati nella frenesia  di mille corse terrene dall’avidità insaziabile di un consumismo spersonalizzante

Ad Atene l’uomo – come ha ricordato il Papa citando Aristotele – ha  preso coscienza di “essere un animale politico”. E qui è nata la democrazia .  Il famoso discorso di Pericle agli ateniesi del 431 avanti Cristo ( nonostante sia stato strumentalizzato e poi abbandonato in una deriva populista in Italia) è il più classico esempio di ciò che significa una democrazia ( e per contrasto ciò che è una dittatura che oggi prende le forme di mostruose autocrazie ) : giustizia uguale, eccellenza, rispetto delle leggi e “non dimenticare mai che dobbiamo difendere coloro che ricevono offesa”. E ancora : “Che ci è stato insegnato a rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nel sentire universale di ciò che è giusto e di ciò che è di buon senso”… ed è “per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero”.

Ecco l’Europa caccia i rifugiati perché non ha più “fiducia in se stessa e la prontezza per fronteggiare qualsiasi situazione”,  sono sempre le parole di Pericle, per cui “la povertà non costituisce un impedimento “ a servire lo Stato, il bene comune.

Non trovi significativo che ii Papa abbia citato De Gasperi?

Dovremmo essere orgogliosi come italiani che lo abbia fatto. Ha citato De Gasperi come un padre fondatore dell’Europa e della necessità di andare avanti , verso la giustizia sociale e non a destra o a sinistra

Il Papa continua a criticare gli autoritarismi, i sovranismi, che portano ad un arretramento della democrazia. A quali forze politiche parla?

Beh mi sembra che il riferimento sia molto chiaro . Ma la radice di questi  atteggiamenti umani e politici  è che è al fondo i sovranisti, gli autoritari sono “ barbari”.

Torniamo all’immigrazione. Secondo te le parole di critica alla chiusura erano rivolte solo alla politica oppure erano dirette anche alle conferenze episcopali (Polonia)?

A tutti e due.

Insomma un viaggio politico e religioso. Le due cose in Francesco si saldano. Come in Giovanni Paolo II questa saldatura ha fatto crollare il muro di Berlino, pensi che Francesco riuscirà ad abbattere il muro dei nazionalismi?

La sua scommessa sarà  vinta se riuscirà a far rigermogliare l’Europa, la sua cultura, la sua civiltà, a fornire nuova linfa a quelle radici, che come ha detto, ci sono, sotterranee, non sono attualmente in grado di far crescere un albero. Ma non sono morte. La cosa impressionante è che Francesco indica all’Europa, una strada non dei concetti.  Francesco invita tutti a fare come Ulisse, antico migrante anche se era un re ricco e famoso: a mettersi in mare, un mare agitato, rischioso, fonte di conoscenza e di dolore,  ma che alla fine lo porta in patria. La potenza dell’immagine dell’eroe greco per eccellenza viene  messa al servizio della rotta da intraprendere oggi.  Non c’è  nessuna alternativa a prendere il mare. Ma a Itaca, prima o poi ci si arriva.  Siamo tutti migranti e per questo che i rifugiati di Lesbo e gli altri oltre il filo spinato di Cipro sono nostri fratelli.

“Non cedere alle seduzioni dell’autoritarismo”. Intervento di Papa Francesco alle Autorità elleniche

 

Pubblichiamo il testo integrale del discorso di Papa Francesco, tenuto oggi ad Atene di fronte alle autorità della Grecia. Un discorso denso di riflessioni sullo stato della democrazia in Europa.

 

Signora Presidente della Repubblica,
Membri del Governo e del Corpo diplomatico,
distinte Autorità religiose e civili,
insigni Rappresentanti della società e del mondo della cultura,
Signore e Signori!

Vi saluto cordialmente e ringrazio la Signora Presidente per le parole di benvenuto che mi ha rivolto a nome vostro e di tutti i cittadini greci. È un onore essere in questa gloriosa città. Faccio mie le parole di San Gregorio di Nazianzo: «Atene aurea e dispensatrice di bene… mentre cercavo l’eloquenza, trovai la felicità» (Orazione 43,14). Vengo pellegrino in questi luoghi che sovrabbondano di spiritualità, cultura e civiltà per attingere alla medesima felicità che entusiasmò il grande Padre della Chiesa. Era la gioia di coltivare la sapienza e di condividerne la bellezza. Una felicità, dunque, non individuale e isolata, ma che, nascendo dallo stupore, tende all’infinito e si apre alla comunità; una felicità sapiente, che da questi luoghi si è diffusa ovunque: senza Atene e senza la Grecia l’Europa e il mondo non sarebbero quello che sono. Sarebbero meno sapienti e meno felici.

Da qui gli orizzonti dell’umanità si sono dilatati. Anch’io mi sento invitato ad alzare lo sguardo e a posarlo sulla parte più alta della città, l’Acropoli. Visibile da lontano ai viaggiatori che lungo i millenni vi sono approdati, offriva un riferimento imprescindibile alla divinità. È il richiamo ad allargare gli orizzonti verso l’Alto: dal Monte Olimpo all’Acropoli al Monte Athos, la Grecia invita l’uomo di ogni tempo a orientare il viaggio della vita verso l’Alto. Verso Dio, perché abbiamo bisogno della trascendenza per essere veramente umani. E mentre oggi, nell’Occidente da qui sorto, si tende a offuscare il bisogno del Cielo, intrappolati dalla frenesia di mille corse terrene e dall’avidità insaziabile di un consumismo spersonalizzante, questi luoghi ci invitano a lasciarci stupire dall’infinito, dalla bellezza dell’essere, dalla gioia della fede. Da qui sono passate le vie del Vangelo, che hanno unito Oriente e Occidente, Luoghi Santi ed Europa, Gerusalemme e Roma; quei Vangeli che per portare al mondo la buona notizia di Dio amante dell’uomo sono stati scritti in greco, lingua immortale usata dalla Parola – dal Logos – per esprimersi, linguaggio della sapienza umana divenuto voce della Sapienza divina.

Ma in questa città lo sguardo, oltre che verso l’Alto, viene sospinto anche verso l’altro. Ce lo ricorda il mare, su cui Atene si affaccia e che orienta la vocazione di questa terra, posta nel cuore del Mediterraneo per essere ponte tra le genti. Qui grandi storici si sono appassionati nel raccontare le storie dei popoli vicini e lontani. Qui, secondo la nota affermazione di Socrate, si è iniziato a sentirsi cittadini non solo della propria patria, ma del mondo intero. Cittadini: qui l’uomo ha preso coscienza di essere “un animale politico” (cfr Aristotele, Politica, I, 2) e, in quanto parte di una comunità, ha visto negli altri non dei sudditi, ma dei cittadini, con i quali organizzare insieme la polis. Qui è nata la democrazia. La culla, millenni dopo, è diventata una casa, una grande casa di popoli democratici: mi riferisco all’Unione Europea e al sogno di pace e fraternità che rappresenta per tanti popoli.

Non si può, tuttavia, che constatare con preoccupazione come oggi, non solo nel Continente europeo, si registri un arretramento della democrazia. Essa richiede la partecipazione e il coinvolgimento di tutti e dunque domanda fatica e pazienza. È complessa, mentre l’autoritarismo è sbrigativo e le facili rassicurazioni proposte dai populismi appaiono allettanti. In diverse società, preoccupate della sicurezza e anestetizzate dal consumismo, stanchezza e malcontento portano a una sorta di “scetticismo democratico”. Ma la partecipazione di tutti è un’esigenza fondamentale; non solo per raggiungere obiettivi comuni, ma perché risponde a quello che siamo: esseri sociali, irripetibili e al tempo stesso interdipendenti.

Ma c’è pure uno scetticismo nei confronti della democrazia provocato dalla distanza delle istituzioni, dal timore della perdita di identità, dalla burocrazia. Il rimedio a ciò non sta nella ricerca ossessiva di popolarità, nella sete di visibilità, nella proclamazione di promesse impossibili o nell’adesione ad astratte colonizzazioni ideologiche, ma sta nella buona politica. Perché la politica è cosa buona e tale deve essere nella pratica, in quanto responsabilità somma del cittadino, in quanto arte del bene comune. Affinché il bene sia davvero partecipato, un’attenzione particolare, direi prioritaria, va rivolta alle fasce più deboli. Questa è la direzione da seguire, che un padre fondatore dell’Europa indicò come antidoto alle polarizzazioni che animano la democrazia ma rischiano di esasperarla: «Si parla molto di chi va a sinistra o a destra, ma il decisivo è andare avanti e andare avanti vuol dire andare verso la giustizia sociale» (A. De Gasperi, Discorso tenuto a Milano, 23 aprile 1949). Un cambio di passo in tal senso è necessario, mentre, amplificate dalla comunicazione virtuale, si diffondono ogni giorno paure e si elaborano teorie per contrapporsi agli altri. Aiutiamoci invece a passare dal parteggiare al partecipare; dall’impegnarsi solo a sostenere la propria parte al coinvolgersi attivamente per la promozione di tutti.

Dal parteggiare al partecipare. È la motivazione che ci deve sospingere su vari fronti: penso al clima, alla pandemia, al mercato comune e soprattutto alle povertà diffuse. Sono sfide che chiedono di collaborare concretamente e attivamente. Ne ha bisogno la comunità internazionale, per aprire vie di pace attraverso un multilateralismo che non venga soffocato da eccessive pretese nazionaliste. Ne ha bisogno la politica, per porre le esigenze comuni davanti agli interessi privati. Può sembrare un’utopia, un viaggio senza speranza in un mare turbolento, un’odissea lunga e irrealizzabile. Eppure il viaggio in un mare agitato, come insegna il grande racconto omerico, è spesso l’unica via. E raggiunge la meta se è animato dal desiderio di casa, dalla ricerca di andare avanti insieme, dal nóstos álgos, dalla nostalgia. Vorrei rinnovare a tale proposito il mio apprezzamento per il non facile percorso che ha portato all’“Accordo di Prespa”, firmato tra questa Repubblica e quella della Macedonia del Nord.

Guardando ancora al Mediterraneo, mare che ci apre all’altro, penso alle sue rive fertili e all’albero che potrebbe assurgerne a simbolo: l’ulivo, di cui si sono appena raccolti i frutti e che accomuna terre diverse che si affacciano sull’unico mare. È triste vedere come negli ultimi anni molti ulivi secolari siano bruciati, consumati da incendi spesso causati da condizioni metereologiche avverse, a loro volta provocate dai cambiamenti climatici. Di fronte al paesaggio ferito di questo meraviglioso Paese, l’albero di ulivo può simboleggiare la volontà di contrastare la crisi climatica e le sue devastazioni. Dopo il cataclisma primordiale narrato dalla Bibbia, il diluvio, una colomba tornò infatti da Noè portando «nel becco una tenera foglia di ulivo» (Gen 8,11). Era il simbolo della ripartenza, della forza di ricominciare cambiando stile di vita, rinnovando le proprie relazioni con il Creatore, le creature e il creato. Auspico in tal senso che gli impegni assunti nella lotta contro i cambiamenti climatici siano sempre più condivisi e non siano di facciata, ma vengano seriamente attuati. Alle parole seguano i fatti, perché i figli non paghino l’ennesima ipocrisia dei padri. Risuonano in questo senso le parole che Omero pone sulle labbra di Achille: «Odioso m’è colui, come le porte dell’Ade, ch’altro nasconde in cuore ed altro parla» (Iliade, IX,312-313).

L’ulivo, nella Scrittura, rappresenta anche un invito a essere solidali, in particolare nei riguardi di quanti non appartengono al proprio popolo. «Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornare a ripassare i rami. Sarà per il forestiero», dice la Bibbia (Dt 24,20). Questo Paese, improntato all’accoglienza, ha visto in alcune sue isole approdare un numero di fratelli e sorelle migranti superiore agli abitanti stessi, accrescendo così i disagi, che ancora risentono delle fatiche della crisi economica. Ma anche il temporeggiare europeo perdura: la Comunità europea, lacerata da egoismi nazionalistici, anziché essere traino di solidarietà, alcune volte appare bloccata e scoordinata. Se un tempo i contrasti ideologici impedivano la costruzione di ponti tra l’est e l’ovest del continente, oggi la questione migratoria ha aperto falle anche tra il sud e il nord. Vorrei esortare nuovamente a una visione d’insieme, comunitaria, di fronte alla questione migratoria, e incoraggiare a rivolgere attenzione ai più bisognosi perché, secondo le possibilità di ciascun Paese, siano accolti, protetti, promossi e integrati nel pieno rispetto dei loro diritti umani e della loro dignità. Più che un ostacolo per il presente, ciò rappresenta una garanzia per il futuro, perché sia nel segno di una convivenza pacifica con quanti sempre di più sono costretti a fuggire in cerca di casa e di speranza. Loro sono i protagonisti di una terribile moderna odissea. Mi piace ricordare che quando Ulisse approdò a Itaca non fu riconosciuto dai signori del luogo, che gli avevano usurpato casa e beni, ma da chi si era preso cura di lui. La sua nutrice capì che era lui vedendo le sue cicatrici. Le sofferenze ci accomunano e riconoscere l’appartenenza alla stessa fragile umanità sarà di aiuto per costruire un futuro più integrato e pacifico. Trasformiamo in audace opportunità ciò che sembra solo una malcapitata avversità!

La pandemia è invece la grande avversità. Ci ha fatti riscoprire fragili, bisognosi degli altri. Anche in questo Paese è una sfida che comporta opportuni interventi da parte delle Autorità – penso alla necessità della campagna vaccinale – e non pochi sacrifici per i cittadini. In mezzo a tanta fatica si è però fatto strada un notevole senso di solidarietà, al quale la Chiesa cattolica locale è lieta di poter continuare a contribuire, nella convinzione che ciò costituisca l’eredità da non perdere con il lento placarsi della tempesta. Sembrano scritte per oggi alcune parole del giuramento di Ippocrate, come l’impegno a “regolare il tenore di vita per il bene dei malati”, ad “astenersi dal recare danno e offesa” agli altri, a salvaguardare la vita in ogni momento, in particolare nel grembo materno (cfr Giuramento di Ippocrate, testo antico). Va sempre privilegiato il diritto alla cura e alle cure per tutti, affinché i più deboli, in particolare gli anziani, non siano mai scartati: che gli anziani non siano le persone privilegiate per la cultura dello scarto. Gli anziani sono il segno della saggezza di un popolo. La vita è infatti un diritto, non la morte, la quale va accolta, non somministrata.

Cari amici, alcuni esemplari di ulivo mediterraneo testimoniano una vita così lunga da precedere la comparsa di Cristo. Secolari e duraturi, sono resistiti al tempo e ci richiamano all’importanza di custodire radici forti, innervate di memoria. Questo Paese può essere definito la memoria d’Europa – voi siete la memoria d’Europa – e sono lieto di visitarlo dopo vent’anni dalla storica visita di Papa Giovanni Paolo II e nel bicentenario della sua indipendenza. È nota, al riguardo, la frase del generale Colocotronis: “Dio ha messo la sua firma sulla libertà della Grecia”. Dio mette volentieri la firma sulla libertà umana, sempre e ovunque. È il suo dono più grande, quello che a sua volta più apprezza da noi. Egli, infatti, ci ha creati liberi e la cosa che più gradisce è che liberamente amiamo Lui e il prossimo. A consentirlo contribuiscono le leggi, ma anche l’educazione alla responsabilità e la crescita di una cultura del rispetto. A questo proposito, desidero rinnovare la gratitudine per il riconoscimento pubblico della comunità cattolica e assicuro la sua volontà di promuovere il bene comune della società greca, orientando in tal senso l’universalità che la caratterizza, nell’auspicio che all’atto pratico le siano sempre garantite quelle condizioni necessarie per ben adempiere il suo servizio.

Duecento anni fa, il Governo provvisorio del Paese si rivolse ai cattolici con parole toccanti: “Cristo ha comandato l’amore per il prossimo. Ma chi a noi è più prossimo di voi, nostri concittadini, benché ci siano alcune differenze nei riti? Noi abbiamo l’unica patria, siamo di un unico popolo; noi cristiani siamo fratelli – fratelli nelle radici, nella crescita e nei frutti – per la Santa Croce”. Essere fratelli nel segno della Croce, in questo Paese benedetto dalla fede e dalle sue tradizioni cristiane, esorta tutti i credenti in Cristo a coltivare la comunione a ogni livello, nel nome di quel Dio che tutti abbraccia con la sua misericordia. In questo senso, cari fratelli e sorelle, vi ringrazio per l’impegno e vi esorto a far progredire questo Paese nell’apertura, nell’inclusione e nella giustizia. Da questa città, da questa culla di civiltà si è levato e sempre si levi un messaggio che orienti verso l’Alto e verso l’altro; che alle seduzioni dell’autoritarismo risponda con la democrazia; che all’indifferenza individualista opponga la cura dell’altro, del povero e del creato, cardini essenziali per un umanesimo rinnovato, di cui hanno bisogno i nostri tempi e la nostra Europa. O Theós na evloghí tin Elládha! [Dio benedica la Grecia!]

Dal sito: https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2021/december/documents/20211204-grecia-autorita.html

Il discorso citato di De Gasperi citato dal Papa è questo: https://alcidedigitale.fbk.eu/platform/?from=1948&to=1954&tags=partito

Così nascono i giovani boss della ‘ndrangheta. Intervista a Claudio Cordova

Il familismo criminale della ‘ndrangheta genera nuovi boss giovani. Chi sono gli emergenti? Ne parliamo con Claudio Cordova, giornalista calabrese. Tra le sue inchieste più famose ricordiamo quella sui rapporti tra la massoneria  e la ‘ndrangheta. Cordova è autore di  un importante saggio : Gotha. Il legame indicibile tra ‘ndrangheta, massoneria e servizi deviati (PaperFirst, 2019).

Claudio, per analizzare la struttura della’ ndrangheta si usa un termine, un concetto sociologico, di “familismo amorale”. Cosa si intende e perché si “applica” nella analisi del fenomeno criminale della ‘ndrangheta?

E’ un concetto che Banfield incollò alle dinamiche e logiche mafiose negli scorsi decenni. Ma credo che possa essere ancor più calzante per la ‘ndrangheta. Se, in Sicilia, non esisteva la “cosca Riina” o la “cosca Provenzano”, ma i clan erano e sono strutturati per luoghi d’origine o aree di influenza – i “Corleonesi” o la mafia del quartiere Brancaccio – la ‘ndrangheta è strutturata in famiglie. Famiglie di sangue. Con un cognome che significa ancora più unità, ancora più ermetismo. Famiglie che proseguono la propria opera criminale spesso per discendenza diretta. Del resto, la ‘ndrangheta ruba riti, ruba tradizioni. Piega alle proprie logiche perverse anche concetti neutri o anche positivi. Oltre al tema della “famiglia”, penso alle idee di “onore” e “rispetto”. Che, evidentemente, nell’accezione ‘ndranghetista diventano elementi fondamentali per alimentare l’omertà.

In questo contesto, di familismo criminale assoluto, trova forza la struttura’ ndranghetista. Il legame di sangue non è comune con le altre mafie. E’ così?

Essere strutturata in famiglie di sangue, con rapporti di parentela assai stretti, la rende più immune rispetto alle altre organizzazioni criminali al fenomeno dei collaboratori di giustizia. Il cosiddetto “pentitismo”. E’ più difficile, umanamente, collaborare e mandare in carcere il proprio padre o il proprio fratello, rispetto a un “estraneo” con cui si sono commessi dei crimini. La ‘ndrangheta ha avuto, storicamente, meno collaboratori rispetto alle altre mafie. E, soprattutto, di livello inferiore. Per intenderci, la ‘ndrangheta non ha avuto il suo Tommaso Buscetta, che al giudice Giovanni Falcone ha aperto, letteralmente, le porte dei livelli più alti di Cosa Nostra. Questo perché la ‘ndrangheta è una struttura chiusa, che la fa assomigliare molto a una setta. E in questa chiusura familiare, un ruolo sempre più importante lo rivestono le donne. Di rado (solo per adesso) con gradi apicali nella struttura, ma vestali e custodi proprio di quello spirito familiare, che è l’humus ‘ndranghetista.

A che punto siamo sul fronte dei pentiti? Ci sono cambiamenti?

Si muove qualcosa in più. Le nuove leve sembrano più pericolose, ma meno forti e integraliste dei vecchi capi. Questo ha portato ad alcune collaborazioni di 35enni/40enni. Ma, anche in questo caso, salvo casi sporadici, come, per esempio, Emanuele Mancuso, nipote dei boss del potente casato vibonese, non parliamo di boss, ma di luogotenenti o, più spesso, manovalanza. La ‘ndrangheta è un’organizzazione subdola, quindi anche il fenomeno del pentitismo, a volte può celare delle insidie e far parte di un piano. Solo per citare un esempio recente: la controversa collaborazione del boss di Cutro, Nicolino Grande Aracri. Per anni egemone in Emilia Romagna. Sulla carta probabilmente l’elemento della ‘ndrangheta più importante a pentirsi, ma sulla cui attendibilità i magistrati nutrono seri dubbi. In generale, il concetto dei “falsi pentiti” e dei depistaggi non è solo uno strumento di Cosa Nostra, come crediamo in maniera riduttiva. Ma, anzi, molto presente nelle strategie ‘ndranghetiste. Calunnia, isolamento e delegittimazione sono armi spesso anche più efficaci delle pistole.

Parliamo delle nuove generazioni di boss. Quanto pesa la storia criminale della famiglia ‘ndranghetista nei figli dei capi delle cosche?

Pesa moltissimo. Le famiglie che appartengono al gotha della ‘ndrangheta – penso ai De Stefano o ai Piromalli, ma anche ai Condello e ai Mancuso – non sono in questa condizione di grande potere per caso. Ma per la loro storia. Nella ‘ndrangheta la tradizione conta molto. E, viceversa, se si sbaglia, si viene tagliati fuori. Anche se si ha un cognome importante. Ci sono cosche, anche importanti, che ancora pagano scelte fatte circa trent’anni fa. La famiglia Fontana di Reggio Calabria, per esempio, nel corso della seconda guerra di ‘ndrangheta non si schierò dalla parte ritenuta “giusta”. E quindi per anni è stata relegata ad affari considerati “minori”. Che comunque ha saputo far fruttare bene. Ma quel che conta è che la ‘ndrangheta non dimentica. Mai.

Esiste una ereditarietà del ruolo di capo nella’ ndrangheta?

Certamente. Ma, anche in questo caso, i gradi da generale bisogna guadagnarseli. Essere figli di un grande boss è un ottimo punto di partenza sotto il profilo criminale, ma poi bisogna dimostrare di essere all’altezza. Faccio solo un esempio esplicativo: dei figli del superboss Paolo De Stefano, quello a prendere le redini del clan, fino a diventare “Capo Crimine” della ‘ndrangheta, non è stato il figlio maggiore, Carmine. Ma il secondogenito, Giuseppe, che ha dimostrato doti delinquenziali fuori dal comune e che già, appena 18enne, godeva del rispetto degli anziani della ‘ndrangheta. Esistono diversi casi di “figli illustri” che per la loro scarsa attitudine al comando o per alcuni comportamenti fuori dal “codice” della ‘ndrangheta sono stati messi da parte. O talvolta anche eliminati.

Facciamo un il punto sui “rampolli” emergenti della’ndrangheta. Molti di loro appartengono alle famiglie storiche della mafia calabrese (Molè, CondelloSibio/De Stefano, Greco, Macrì, Tegano, Mancuso ecc). In che ambito operano? Chi sono gli emergenti?

Certamente i De Stefano. Sono quelli che hanno dimostrato maggiore capacità di rigenerarsi. Anche se colpiti da dure condanne. Giuseppe De Stefano, per esempio, potrebbe trascorrere tutta la vita dietro le sbarre. Carmine entra ed esce di galera e Dimitri, un tempo considerato fuori dai giochi, ha imparato a gestire le logiche criminali. Ma non dimentichiamo Giorgino Condello Sibio, oggi De Stefano perché riconosciuto dalla famiglia. A Milano frequentava gli ambienti più “in”. Così come erano e sono di casa a Milano (nel mercato ortofrutticolo, soprattutto) i Piromalli.  In generale, gli ambiti di intervento sono quelli di sempre. L’edilizia, gli appalti, la sanità. E, ovviamente, la droga. Con una crescente capacità di interloquire con la classe dirigente. Ma sempre più spesso notiamo la capacità di sfruttare i nuovi business. I rampolli dei Tegano, i cosiddetti “Teganini” hanno mostrato di sapersi muovere bene nel “gambling”, il gioco d’azzardo online. Con l’abilità di muoversi anche in altri Paesi, come Malta. Sempre e comunque grazie a professionisti e soggetti “cerniera” o “facilitatori” degli affari.

Com’è il loro stile di vita?

I vecchi boss mantenevano un profilo basso, operavano sotto traccia. Pur miliardari, non mostravano opulenza. E sapevano essere tattici, anche da giovani. I nuovi rampolli di ‘ndrangheta questo lo fanno molto meno. Sono più disinvolti e spregiudicati. Si mostrano nei locali della movida e spesso terrorizzano commercianti ed esercenti. Con atteggiamenti e richieste che ne rivelano la pochezza: dalla rissa per uno sguardo di troppo, alla pretesa di non pagare, anche se il conto è di poche decine di euro. Ecco, forse è un po’ presto per parlare di una “camorrizzazione” delle nuove leve della ‘ndrangheta. Con questi comportamenti sono molto più molesti e pericolosi. Ma di certo non andranno lontano.

Tra loro ci sono degli “strateghi” (ovvero gente capace di individuare nuovi ambiti di infiltrazione)?

Roccuccio Molè, sebbene meno che 30enne, ragionava e operava già da leader. E’ solo l’ultimo esempio. Ma ci sono giovani che hanno la stoffa criminale per portare avanti i propri casati. Nella fattispecie, i Molè erano indicati in grande difficoltà. E il giovane, nipote omonimo del boss ucciso l’1 febbraio 2008, voleva riportare la famiglia di Gioia Tauro ai fasti di un tempo. In generale, devo dire che le nuove leve della ‘ndrangheta si muovono meglio altrove. Non sul territorio d’origine, dove i fari degli inquirenti sono maggiormente accesi, ma la Nord o all’Estero, dove possono muoversi più indisturbati. E, ovviamente, dove possono fare la bella vita.
Ci sono dei pentiti, giovani che rompono con la  storia della famiglia?

I collaboratori ci sono tutto sommato in ogni famiglia. Ma raramente hanno i cognomi importanti o del clan originario. A parte l’eccezione di Emanuele Mancuso, di cui parlavo prima, di solito si tratta di soggetti che gravitano intorno al clan o che sono al suo interno. Ma che non hanno i cognomi De Stefano, Piromalli, Condello, Libri, o altri casati così importanti. Il pentimento di un De Stefano “puro” sarebbe dirompente, per esempio. Ma fin qui non è accaduto. E’ accaduto in passato, invece, con le donne. Penso alla collaborazione di Giuseppina Pesce, giovane di una delle cosche più importanti. Ecco, le donne. Come dicevo prima, sono le custodi del nucleo familiare. Ma possono essere l’anello della catena che si spezza, facendo scelte coraggiose catastrofiche per i clan. Non solo per il loro patrimonio conoscitivo, ma anche perché metterebbero a nudo le debolezze della famiglia.

Ci sono programmi di recupero, quanto sono efficaci?

Il più famoso è il programma “Liberi di scegliere”, portato avanti dal Tribunale dei Minori di Reggio Calabria e da Libera, che adesso sta avendo concretezza anche altrove. Roccuccio Molè vi aveva aderito. Evidentemente con scarsi risultati. Ma, a parte questo caso eclatante, è innegabile che alcuni risultati siano stati raggiunti. Personalmente penso che questo programma vada implementato in tutte le zone in cui serve. Ma, allo stesso tempo, considerando la ‘ndrangheta non solo un fenomeno criminale e militare, resto fedele alla mia idea che serva un percorso culturale per sdradicarla. E non parlo solo di quelle famiglie col cognome “classico”. Parlo dell’intera società, dei professionisti, delle famiglie cosiddette “perbene”. La società calabrese, purtroppo, è profondamente pervasa da una cultura ‘ndranghetista. Che non significa che tutti i calabresi siano affiliati. Ma che in tanti resta viva la logica del compromesso, della raccomandazione, del sotterfugio. Che sono i primi gradini della mentalità ‘ndranghetista.

Ultima domanda : Vedi qualche rottura, rispetto al passato, nel rapporto tra ‘ndrangheta e la politica calabrese?

Nessuna, purtroppo. Anzi, vedo ormai una tendenza consolidata: se prima era l’esponente della ‘ndrangheta a cercare il politico – un po’ per chiedere favori, un po’ per nobilitarsi – oggi sono i politici che, poco dopo aver firmato la propria candidatura vanno a trovare lo ‘ndranghetista. Di fatto consegnando se stessi e la propria eventuale attività istituzionale alla ‘ndrangheta, in cambio di pacchetti di voti. Sono innumerevoli i casi e anche recentissimi. La politica non intende la Cosa Pubblica come qualcosa della collettività, ma come qualcosa su cui mettere le mani. E non si fuoriesce mai dalla logica giudiziaria: andare a trovare uno ‘ndranghetista, essere intercettato e parlare di attività politiche, avere una certa affinità con soggetti controindicati, potrà anche non essere reato. Ma è certamente qualcosa che dovrebbe essere ostativo all’attività politica. Non dobbiamo aspettare che sia la magistratura a dettare le linee, ma recuperare quel senso di etica, quella questione morale che oggi vedo assolutamente scomparsa in ogni schieramento.