Fine del “renzismo” o fine del PD? Intervista a Sofia Ventura

Matteo Renzi in conferenza stampa (Ansa)

Matteo Renzi in conferenza stampa (Ansa)

 Mentre la cronaca della politica fa registrare quanto sia complicatissimo far partire la legislatura, Il clamoroso risultato di domenica scorsa continua far discutere l’opinione pubblica, e continuerà a farlo  ancora nei prossimi mesi.  Il PD intanto cerca di riorganizzarsi. Lunedì si svolgerà la direzione nazionale, la prima senza Matteo     Renzi. Ma da quel risultato sorge una domanda strategica: è la fine del “renzismo” o la fine del PD? Ne parliamo con Sofia Ventura, politologa, docente di Scienza Politica all’Università di Bologna.

 

 

Sofia Ventura (Ansa)

Sofia Ventura (Ansa)

Professoressa Ventura, il risultato clamoroso di domenica, che ci consegna due vincitori Lega e Movimento 5stelle, che ha fatto segnare la disfatta del PD a guida renziana. Quindi si può dire che segna anche la fine di un progetto, di una idea di politica “creata” da Matteo Renzi (rottamazione. allargamento del consenso politico verso ceti moderati, iper decisionismo, ecc). È così?
Questa sconfitta clamorosa, 5 milioni di voti in meno rispetto alle europee del 2014, 2 milioni e mezzo rispetto al voto legislativo del 2013 e quasi sei milioni persi dalle legislative del 2008, segna probabilmente la fine del progetto del Pd nel suo insieme. Un progetto in realtà mai veramente decollato, segnato da un peccato originale, ovvero essere soprattutto lo strumento per due gruppi dirigenti in difficoltà (Ds e Margherita), per sopravvivere e continuare a svolgere un ruolo nelle istituzioni, usando le stesse istituzioni come risorsa di potere. Un peccato originale che spiega anche la scarsa capacità di sviluppare una visione culturale comune e convincente, forse anche a causa di un altro vizio di origine, ovvero la pretesa di trarre una visione riformista da due culture, quella comunista (e post-comunista) e quella dell’ultima Dc, che di riformista avevano davvero poco, ignorando la forza storica e intellettuale del riformismo socialista.

Renzi si è inserito nella lacerante crisi della breve esperienza del Pd, utilizzando innanzitutto quelle forme di democrazia diretta, le primarie, che all’inizio avevano avuto solo un ruolo legittimante di scelte compiute altrove e che con lui si trasformano in un vero e proprio oggetto contundente, in uno strumento di sfida e cambiamento. Purtroppo la sua spinta propulsiva non è andata molto oltre. Dopo l’ondata legittimante di elezioni dirette (la sconfitta più che onorevole del 2012, la vittoria del 2013), ha proseguito con l’onda rottamatrice e delle promesse mirabolanti, in un gioco di sfide continue, senza fermarsi a pensare e a mettere in campo un vero progetto politico e di partito. La speranza di allargamento verso nuovi elettori centristi, dopo l’illusione del 2014, è così naufragata di fronte alla pochezza del progetto e della leadership, mentre i ceti popolari e, più in generale, l’universo dei non garantiti, ai quali non è stato rivolto alcun messaggio, hanno continuato a spostarsi verso altri lidi.

 Sappiamo quanto sia facile per questo Paese innamorarsi del leader carismatico di turno, ed è un limite questo d cultura politica, eppure fino a poco tempo fa il renzismo aveva segnato, per molti italiani, un segno di speranza. Quali sono state, secondo lei, le cause della sua crisi profonda?
Innanzitutto la debolezza intellettuale e culturale, l’assenza di una visione, dello sforzo di costruire una visione andando oltre alcuni slogan e luoghi comuni. E qui forse il riformismo socialista (pensiamo solo ai “meriti e ai bisogni” di Claudio Martelli) avrebbe aiutato. Invece ci si è accontentati della eco di un blairismo orecchiato in un mondo profondamento cambiato. Peraltro senza interrogarsi su quali settori di una società profondamente mutata dovessero essere individuati come principale target, dimenticando i più svantaggiati e illudendosi che il modo fosse fatto di start up. Quindi l’ossessione per il consenso a qualunque costo, che ha prodotto un atteggiamento ambiguo, oscillante tra la pretesa di essere forza responsabile e l’inseguimento delle parole d’ordine della nostra anti-politica, dalla propaganda anti-casta al ritmo intermittente di europeismo/anti-europeismo. Una ossessione, tra l’altro, legata anche ad una ambizione smodata, un inseguimento del potere e del successo a prescindere attraverso un procedere meramente tattico, a detrimento di una visione strategica. E l’incapacità di auto-critica, di apprendere dagli errori, come si nota anche dalla sconcertante reazione di Renzi di fronte alla sconfitta del 4 marzo (“ah sì, avete vinto? e allora adesso voglio proprio vedere!” “Noi? Noi abbiamo fatto cose meravigliose, voi non avete capito, forse non abbiamo comunicato abbastanza bene, ma ora ricominciamo e vedrete. Il passato? Quale passato?”). Infine l’incapacità di costruire, forse la non volontà di costruire, un serio gruppo dirigente, fatto non solo di yes men e yes women, ma di persone capaci e con pensiero critico (e il coraggio di esprimerlo), oltre che il totale disinteresse per un partito, già ereditato in pessime condizioni (si pensi al potere del micronotabilato e dei potentati locali) e lasciato in quelle condizioni.

Eppure una qualche idea positiva l’aveva, per esempio la non ideologizzazione della politica. O forse è anche questo un limite?
Liberarsi dai lacci di una visione arcaica, fuori tempo, della politica e della sinistra è stato certamente un merito del renzismo. Purtroppo, però, a quella visione è stata sostituita solo una debole e nebulosa ‘mentalità’. Anche destrutturare e sconfiggere l’oligarchia che aveva soffocato lo sviluppo del Pd è stato un merito, ma, anche qui, vediamo che a ciò si è sostituito un personalismo altrettanto inefficace in relazione alla possibilità di costruire qualcosa di nuovo, dal punto di vista organizzativo e del pensiero.

In prospettiva, conoscendo il personaggio, Renzi potrebbe essere tentato di fare un partito tutto suo?
Non lo escluderei. Sarebbe in linea con il suo esasperato narcisismo. Ma credo che gli manchino le risorse materiali e intellettuali, le capacità organizzative e anche comunicative (al contrario di quanto alcuni ritengono Renzi non è affatto uno straordinario comunicatore) per realizzare un tale obiettivo e avere successo. Certo, avrebbe comunque un certo seguito, poiché in questi anni si è formato un gruppo di elettori-seguaci (e qui richiamo la forza del narcisismo, non solo dei leader, ma anche dei seguaci, quando questi sono alla ricerca di una identità che trovano nella fedeltà al loro amato leader), un po’ come nel caso di Berlusconi. Ma in generale mi pare che l’immagine di Renzi si sia ormai logorata.

Adesso per la Sinistra italiana si apre una fase di “rigenerazione”. Da dove ripartire secondo lei?
Da zero. Anzi, da meno uno, rimettendo in discussione tanti suoi totem e guardando a come funziona il mondo reale. Ma ci vorrà tanto tempo e forse una nuova generazione.

Ultima domanda: quale strada per far partire la legislatura?
Non ne ho la minima idea. Vedo una destra cannibalizzata dalla Lega, e forse anche il drastico rimpicciolimento di una domanda di destra liberale e popolare (che già non è mai stata molto ampia), un partito che ha scarsa dimestichezza con le regole del gioco liberal-democratico e possiede un ceto politico e una leadership al di sotto della soglia della decenza, nonché modalità di funzionamento opache (il M5S), una sinistra al capolinea. Osservo e spero vi possano essere tempi migliori.

 

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