
Libia, milizie governative in un sobborgo della capitale Tripoli (MAHMUD TURKIA / AFP / Getty Images)
Come si svilupperà il conflitto armato in Libia scatenato da Haftar? Quali sono gli interessi in gioco? Di questo parliamo, in questa intervista, con la professoressa Michela Mercuri. La professoressa Mercuri è docente universitario, componente dell’Osservatorio sul Fondamentalismo religioso e sul terrorismo di matrice jihadista (O.F.T.). Analista di politica estera, consulente, autrice, editorialista e commentatrice per programmi TV e radio nazionali. Le sue attività si concentrano su Mediterraneo e Medio Oriente, analizzando l’impatto della storia sulle problematiche attuali. Ha firmato diverse pubblicazioni, tra cui il libro “Incognita Libia – cronache di un paese sospeso” (2017).
Professoressa, la Libia torna a bruciare. Come si è arrivati a questo punto?
Dopo l’ultimo vertice sulla Libia (la conferenza di Palermo del 12 e 13 novembre) sembravano essere stati realizzati alcuni minimi passi avanti nel dialogo politico per la “stabilizzazione” del Paese: una road map che prevedeva un percorso istituzionale per condurre a elezioni e una maggiore collaborazione tra le parti anche in tema di sicurezza. In quell’occasione, il generale Khalifa Haftar aveva addirittura accettato che al-Serraj potesse essere riconfermato alla guida del consiglio presidenziale almeno fino alle elezioni. Il percorso sembrava ormai tracciato. Eppure la Libia ci insegna che le cose possono mutare con una rapidità spesso sconosciuta alla storia. L’errore, per lo meno dell’Italia, è stato quello di sottovalutare le minacce di avanzata di Haftar di cui, invece, erano a conoscenza i suoi alleati, Francia compresa. Sapevamo da tempo che Haftar era oramai l’uomo forte della Libia, lo avevamo “agganciato” a Palermo, seppure con la probabile intercessione di Putin, ma poi ci siamo arroccati di nuovo sulle nostre posizioni per difendere i nostri interessi a Tripoli da cui l’Eni estrae circa il 70%del greggio e da cui partono (o per lo meno partivano) la più parte dei migranti diretti verso le nostre coste. Non riuscire a tessere la rete diplomatica per fermare l’avanzata di Haftar e aver continuato a guadare solo alla capitale, sono stati gli errori italiani che hanno favorito il caos che al momento regna nel Paese. Forse non avevamo gli strumenti per evitarlo, ma quantomeno avremmo dovuto operare qualche sforzo in più.
Il protagonista, il generale “gheddafiano”, Khalifa Haftar è stato da poco in Arabia Saudita. Ha incontrato il controverso principe ereditario bin Salman. E’ andato a battere cassa. Insomma Haftar ha cercato l’appoggio dell’ Arabia Saudita (ed anche degli Emirati Arabi) per estendere il suo potere. Per qualche osservatore internazionale, però, questo conflitto libico ha tutti i connotati di una guerra per procura…. Per lei? INSOMMA, CHI GIOCA SPORCO IN LIBIA?
In Libia tutti gli attori regionali e internazionali che sponsorizzano le varie fazioni “giocano sporco” fin dal 2011. Dalla caduta del rais, i fili della Libia sono tenuti dai gruppi di potere locale in una serie di alleanze a geometria variabile con vari player internazionali che oramai fanno affari con le singole milizie e a volte con gli stessi signori della guerra, perpetuando la divisione del Paese. Dalla Francia, alla Russia, all’Italia, passando per il Qatar, la Turchia, l’Egitto, gli Emirati arabi e l’Arabia saudita, tutti sembrano più interessati ad assicurarsi l’appoggio di leader locali che a progettare insieme un percorso per la stabilizzazione, parola che oramai è divenuta un mantra vuoto di significato. È una vera e propria guerra per procura che ultimamente sta vedendo come protagonisti soprattutto i cosiddetti attori regionali: sauditi ed emirati finanziano Haftar per estendere il loro potere nel paese e per affermarsi sulla fratellanza musulmana che sostiene alcune fazioni di Tripoli, a loro volta supportate da Qatar e Turchia. È uno scenario poco edificante che, per certi versi, ricorda quello siriano.
Che interesse ha l’Arabia Saudita in Libia? Un interesse politico e “religioso?
C’è un aspetto fin qui poco considerato. Riad è la culla del madkhalismo, una corrente di stampo salafita ultraconservatrice (Salafiyya Madkhaliyya), fondata dallo sceicco saudita, Rabi al-Madkhali, considerato da molti al soldo della casa reale saudita. Insediatisi in Libia già negli anni Novanta sotto il regime di Muhammar Gheddafi, che li utilizzava strumentalmente in chiave anti fratellanza musulmana, i madkhalisti sono ancora forti e presenti in Libia. La longa manus saudita, attraverso i loro appartenenti, tra cui almeno uno dei figli di Haftar, influenza gli equilibri interni, fornendo ingenti somme di denaro ad alcuni gruppi dell’est e dell’ovest, manipolando gli assetti interni e bypassando le divisioni locali. Attraverso le forze fedeli al generale, i sauditi vogliono allargarsi nel Paese, per indebolire la fratellanza musulmana sostenuta, in particolare, da Qatar e Turchia. Il crescente potere dei madkhalisti in Libia dovrebbe portarci a una riflessione. L’influenza degli Stati del Golfo, e in particolare dei sauditi, negli affari di sicurezza dell’ex Jamahiriya è stata sottovalutata dagli attori internazionali concentrati sulla sconfitta dello Stato islamico e sulla riconciliazione delle divisioni politiche. Tuttavia, anche le crescenti fratture nelle fazioni islamiste meritano attenzione poiché potrebbero essere la causa di questa escalation di violenze.
Altre potenze, come ha detto prima, sono interessate alla Libia: la Russia di Putin, per ragioni geopolitiche, O per altri motivi?
Prima ho illustrato gli interessi del Golfo ma, in realtà, tutte le potenze internazionali e regionali sono interessate in qualche modo alla Libia per motivi diversi. In primis la Russia che ha fin qui sostenuto Haftar per interessi economici e geostrategici. Da un punto di vista economico Putin non ha certo bisogno del gas e del petrolio dalla Libia, ma non disdegna di vendere know-how e tecnologie ai tanti impianti dell’est libico, ricco di petrolio. Inoltre, Haftar ha bisogno di armi per proseguire la sua guerra contro la fratellanza musulmana e la Russia ha tutto l’interesse a fornirgliele. In termini di proiezione mediterranea, poi, Haftar è il complemento ideale all’asse con l’Egitto di al-Sisi e, forzando un po’ la mano, anche con Damasco. Infine, la questione dello sbocco sul mare. La Russia, intervenendo militarmente nel conflitto siriano, accanto ad Assad, si è assicurata, per lo meno, il mantenimento del porto di Tartus, vitale sbocco sul mare. Perché non approfittare del generale di Haftar per ricavarsi un altro “porto sicuro” nella Cirenaica? In questo momento, però, anche il Cremlino si trova in una fase di impasse. Il recente incontro tra Putin ed Erdogan (che sostiene Tripoli e dunque gli avversari dei russi) potrebbe placare gli animi. In ballo ci sono molti interessi: la fornitura ad Ankara dei missili russi S-400 e il gasdotto South Stream. Per questo Putin, per mettere in salvo gli affari con la Turchia, potrebbe aver chiesto al generale di fermare la sua offensiva. Sono ipotesi ancora tutte da verificare ma che potrebbero far pensare a un minimo passo indietro del Cremlino nel sostegno ad Haftar.
Al Sharrai ha dato del complice a Macron. Lei pensa che la Francia voglia destabilizzare Tripoli per li pozzi di petrolio? Per contrastare l’italiana Eni? Mi sembra una scelta suicida peggio di quella che fece Sarkozy contro Gheddafi.. Come vede il ruolo della Francia.
Oramai sappiamo bene che la Francia ha spinto per l’intervento in Libia nel 2011 per i propri interessi nazionali, soprattutto energetici, cercando di marginalizzare l’Italia ed ha continuato a farlo sostenendo Haftar che poteva garantire il controllo dei giacimenti dell’est e della sirtica. Nella situazione attuale, però, credo che anche la Francia rischi qualcosa. Se da un lato l’Eliseo conosceva senza dubbio i piani di “espansione territoriale “ di Haftar, dall’altro, ora, con una guerra civile in corso, che secondo molti potrebbe protrarsi ancora per un po’ di tempo e assumere le sembianze di una guerra “a bassa intensità”, rischia di perdere il suo alleato di ferro. Haftar, infatti, aveva fin qui giustificato la sua azione presentandosi come il “salvatore della patria” per fare perno su una popolazione stanca del caos e dello strapotere delle milizie e sull’incapacità di Serraj di controllarle e riportare la pace a Tripoli. Portando avanti una avanzata così aggressiva, però, rischia di perdere il consenso di una parte della popolazione e di alcune delle milizie che fin qui lo hanno appoggiato. Se Haftar perdesse parte del potere e parte del controllo del territorio, la Francia, sua alleata, perderebbe posizioni Libia, viceversa accrescerebbe la sua egemonia nell’area. Solo il tempo, dunque, potrà dirci se è una scelta suicida.
In tutto questo caos gli USA se ne lavano le mani, ritirano il piccolo contingente militare. Tutto è coerente la politica neoisolazionista di Trump. È così professoressa?
Gli Usa non hanno mai avuto a cuore la questione libica, specie con l’amministrazione Trump. A ben guardare, però, dietro a questa mossa potrebbe esserci di più. L’Italia ha firmato un memorandum d’intesa con la Cina, ha posizioni divergenti da quelle americane sulle sanzioni alla Russia o sul destino di Maduro e questo infastidisce non poco Trump. Perciò, seppure il presidente americano sia stato uno dei principali alleati dell’Italia per la realizzazione della conferenza sulla Libia – tanto che l’idea era nata in occasione della visita di Conte a Washington nel luglio del 2018 – ora le cose sono cambiate e l’Italia difficilmente potrà contare su Trump. Inoltre, va ricordato anche che il presidente americano è molto più interessato alla partnership con i sauditi che a quella con l’Italia. Riad è tra gli alleati e finanziatori di Haftar e tra quelli che lo hanno aiutato in questa avanzata. Tuttavia, per mantenere le vitali relazioni economiche con Riad Trump potrebbe aver chiuso più di un occhio sulle minacce del generale. Gli americani, oltre al ritiro del contingente di Africom, hanno nominato un ambasciatore straordinario a Tripoli, ma questo non è tanto un segnale di vicinanza all’Italia quanto piuttosto un avvertimento al Cremlino.
L’Italia non sembra all’altezza della situazione. Per il governo italiano, o meglio per questo governo populista, la Libia è solo una diga contro l’immigrazione. Quali sono stati gli errori italiani in Libia?
Il governo italiano, come ho detto all’inizio, dopo il parziale successo della conferenza di Palermo ha preso un po’ “sottogamba” la questione libica. Si è forse accontentato di aver bloccato gli sbarchi senza guardare ciò che accadeva oltre la costa. Secondo alcuni analisti, tuttavia, i nostri servizi erano a conoscenza delle intenzioni del generale e avevano informato il governo. L’Italia, però, potrebbe non essere stata in grado di evitare tale escalation a causa del mancato supporto degli alleati, specie degli Usa fin qui vicini alla posizione del nostro governo in Libia e ora molto più distaccati per i motivi sopra ricordati.
C’è il rischio di una espansione del conflitto?
Credo che il conflitto abbia raggiunto la sua massima e (forse) inaspettata espansione. Nella migliore delle ipotesi si manterrà per un po’ di tempo, perlomeno finché le forze sul campo – le milizie di Misurata e l’esercito di Haftar- potranno giovare degli aiuti esterni. Viceversa, ipotesi forse più remota, si potrebbe giungere a un minimo compromesso, una sorta di “tregua armata”, mediata dagli attori internazionali, capace di portare alcune delle fazioni in lotta a Ghadames per la tanto agognata conferenza che dovrebbe svolgersi dal 14 al 16 aprile. Vorrei però evidenziare che al momento i segnali non sono positivi. Nelle ultime ore si è aperto un nuovo fronte per Haftar a Sirte, dunque da est e non dal sud rispetto a Tripoli, Ci sarebbero stati bombardamenti anche in questa zona, al momento circondata dalle forze del generale. Anche Sirte è difesa da Misurata e dunque potrebbe essere un nuovo “fronte caldo” capace di ostacolare qualunque tentativo di mediazione.