
PIETRO CALABRESE BENIGNO ZACCAGNINI FLAMINIO PICCOLI MARIANO RUMOR 1979, FOTO CONTRASTO
Questo che pubblichiamo, per gentile concessione, è il testo dell’intervento di Guido
Formigoni, ordinario di Storia Contemporanea all’ Università IULM di Milano, durante
la commemorazione, a trent’anni dalla morte, di Benigno Zaccagnini. Alla
commemorazione, che si è tenuta a Ravenna martedì scorso, ha partecipato il Presidente
della Repubblica Sergio Mattarella.
Signor Presidente della Repubblica,
Gentile famiglia Zaccagnini, Autorità, cittadine e cittadini, ragazze e ragazzi.
Nato nel 1912 a Faenza, Benigno Zaccagnini è stato un tipico esponente di QUELLA
generazione di giovani che si formò pressoché interamente sotto il fascismo, ma che nelle
associazioni giovanili cattoliche trovò un ambiente che – pur nell’acquiescenza formale –
seppe educare a modelli interiori alternativi a quelli del totalitarismo. Spostatosi con la
famiglia a Ravenna, militò nella Gioventù di Ac frequentando il circolo di Santa Maria al
Porto, animato da don Giuseppe Sangiorgi e poi, entrato nella Fuci all’Università, dove
nel 1930 si iscrisse a Medicina, divenne responsabile del circolo diocesano della
federazione. Nel caso del giovane Benigno, contava naturalmente anche una storia
familiare, con il padre ferroviere licenziato per non aver voluto prendere la tessera del Pnf
e con la memoria viva dell’assassinio di don Giovanni Minzoni nelle terre di Argenta.
Diversamente da molti giovani cattolici della sua età che passarono attraverso un percorso
di chiarimento progressivo, l’antifascismo fu per lui veramente attitudine precoce e intima.
Medico dal 1936, specializzatosi pediatra, si impegnò presso l’Ospizio di Santa
Teresa per i malati poveri, mentre diveniva anche presidente diocesano della Gioventù di
Azione cattolica: era una prospettiva di vita e servizio che egli amava profondamente.
Interrotta solo per il servizio militare, svolto nella tragedia della guerra mondiale, ufficiale
medico sul complicato fronte dei Balcani. La vicenda dell’8 settembre mise una cesura determinante: salvatosi rocambolescamente dalla deportazione in Germania e rientrato a
Ravenna, il giovane militante compì la scelta resistenziale, non senza tormenti di coscienza
e non senza un dibattito collettivo nei suoi ambienti di riferimento. Nelle Brigate Garibaldi,
a contatto con persone di altra ispirazione ideale, assumendo il nome di battaglia evocativo
di «Tommaso Moro», ricoprì un ruolo politicamente crescente fino a coordinare il CLN
locale. Sarebbe stato il probabile sindaco della città al momento della Liberazione, ma rinunciò in favore di un esponente del Partito repubblicano (non ultima delle occasioni in
cui mostrò significativa assenza di volontà di affermazione personale).
Quasi naturale divenne piuttosto la candidatura alla Costituente nel 1946 e l’avvio
di un percorso politico sempre compiuto con l’attitudine interiore della provvisorietà, del
servizio temporaneo che lo costringeva ad abbandonare la propria professione vissuta
come vocazione, ma che doveva divenire lungo e decisivo, per una serie di incroci tra
volontà e contingenze, fino a caratterizzare tutta la sua vita. Più di quarant’anni vissuti nel
cuore delle istituzioni nazionali non gli impediranno però mai di esprimere
quotidianamente la sua umanità ironica e al contempo severa, il suo profilo spirituale di
uomo di fede integra non ideologica ma vitalmente sentita, di marito e padre di famiglia a
tempo parziale quanto affettuoso e coinvolto, di animatore popolare tra i bambini malati
con la pratica dei burattini continuata con l’amico di una vita, l’anarchico Giordano
Mazzavillani, di appassionato servitore della convivenza locale nella sua città.
La sua Democrazia cristiana, in sede locale, era una Dc che non assunse i caratteri
del partito di potere, essendo la provincia di Ravenna rossa e comunque segnata da un
radicamento tale del Pri da equilibrare il ruolo di cattolici anche in anni di centrismo
imperante. Era un partito che si poneva al centro di una rete associativa e cooperativa
solida e diffusa. Ed era un partito che nelle sponde a livello nazionale propendeva per le
posizioni riformatrici all’interno di quell’arcipelago composito e purtuttavia unitario che
cominciava a essere la Dc, come molte altre rappresentanze provinciali emiliano-
romagnole. Nella prima legislatura, lo spiccato senso di Zaccagnini per la giustizia sociale
e i problemi dei lavoratori lo portò in sintonia con la battaglia di Giuseppe Dossetti,
ancorché senza scegliere uno schieramento correntizio aperto, forse anche per una certa
spontanea sintonia con molti aspetti dell’azione di Alcide De Gasperi.
Aderendo poi a Iniziativa democratica negli anni ’50, egli sviluppò la stessa
attenzione per i problemi del lavoro nell’apposito ufficio centrale del partito. Mentre
cresceva la sua competenza, la sua concretezza e la sua lealtà lo facevano emergere anche
nella figura e nei ruoli parlamentari. Non a caso, come a livello locale aveva mantenuto le
amicizie dei tempi resistenziali nonostante la rottura del 1948 dell’Anpi (storica rimase
quella con Arrigo Boldrini), a livello nazionale ebbe occasioni di lavoro comune anche con l’opposizione socialcomunista: spicca una sua mozione, presentata con alcuni
emendamenti del socialista Mario Berlinguer nel 1954, che impegnava il governo a cercare
accordi per il disarmo termonucleare. Questa capacità di dialogo non gli impediva di essere
tranquillamente e serenamente fedele all’alleanza atlantica e anzi interlocutore non
occasionale dell’ambasciata statunitense a Roma, dove discuteva con gli alleati della
politica italiana, incontrando a tratti maggiore, a tratti minore sensibilità e apertura verso
le specificità del dibattito interno al paese. E non gli impediva di polemizzare con i
comunisti, come nella memorabile evenienza della profezia sulla caduta del muro di
Berlino, che sarebbe stato abbattuto (disse nel 1963 in parlamento) «dal cammino
travolgente delle idee di libertà, di giustizia, di pace che ovunque avanzano nel mondo».
La parabola del suo impegno ministeriale non fu lunga: nemmeno quattro anni, tra
sottosegretariato e ministero del Lavoro – spostato poi, inopinatamente per lui – ai Lavori
Pubblici. Le questioni del lavoro erano naturalmente al centro della sua prospettiva di una
politica mirata a risolvere i problemi concreti delle persone, nella prospettiva allora
possibile della piena occupazione e di quel compromesso tra democrazia e capitalismo che
vedesse l’affermazione del ruolo civile dei lavoratori nella vita associata.
Anticipò a livello locale la scelta politica che poi appoggiò con convinzione dopo il
1959 a livello nazionale, concordando con l’azione di Moro alla segreteria della Dc: quel
centro-sinistra inteso come risposta a un paese che cambiava, come disse in occasione della
discussione sulla fiducia al governo Moro nel 1963: «la sua unica vera ragione d’essere è nel
paese stesso, nel suo modo di strutturarsi, nelle trasformazioni che profondamente lo
investono nelle forze economiche e sociali; ma soprattutto, a nostro avviso, nelle forze
civili, umane e morali che si liberano e si mettono in movimento». Da capogruppo
parlamentare della Dc alla Camera fino al 1968, egli seguì l’attività riformatrice dei governi
di centro-sinistra in uno snodo istituzionale importante, che fin dai tempi di Dossetti ERA
stato individuato come nesso tra indirizzo di partito e azione di governo, e al contempo
come effetto sul piano dei lavori parlamentari dell’acquisizione degli indirizzi di
cambiamento dell’esecutivo.
Dopo le elezioni del 1968, egli sostanzialmente seguì Moro nell’esperienza
traumatica di rottura della corrente maggioritaria della Dc, a fronte della sfiducia crescente verso l’atteggiamento della segreteria dorotea sull’azione politica del centro-sinistra. Non a
caso, in questi anni, scrivendo al giovane figlio Carlo coinvolto nella temperie della
contestazione studentesca, gli indirizzava parole forti, che ribadivano il primato dell’azione
riformista nella difesa della libertà, riconoscendo però la necessità di uno stimolo ulteriore
perché il riformismo non scadesse nell’acquiescenza allo status quo: «credo che occorra
custodire in sé stessi, intimamente, un’anima rivoluzionaria, operando però nel concreto
con metodo, tenacemente, realisticamente, instancabilmente e senza sentirsi mai
soddisfatti, riformando e rinnovando, guardando avanti al domani, non perdendo però
mai di vista il presente». Personalmente, visse i primi anni ’70 in posizione defilata,
ricoprendo ruoli di garanzia come quello di vicepresidente della Camera e
contemporaneamente di presidente del Consiglio nazionale democristiano. L’ampia base
di consensi e fiducia che però si era costituita nel corso della sua attività politica lo
condussero vicino a una candidatura alla presidenza della Repubblica nel 1971, che egli
pervicacemente rifiutò, ritenendo che l’unica figura adatta fosse appunto quella di Aldo
Moro, il quale però poteva farsi eleggere accogliendo i disponibili voti della sinistra solo
se ci fosse stata una indicazione chiara della maggioranza della Dc sul suo nome, che non
ci fu.
Sempre in quest’ottica, si permise la libertà di rilasciare al diffuso settimanale
«Panorama» un’intervista forte, in cui esplicitava un giudizio critico verso comportamenti
diffusi nel suo stesso partito che stavano creando un solco tra classe politica e paese. La
crisi della Dc in questi anni, tra la sconfitta del 1974 nel referendum sul divorzio e il calo
di consensi a fronte del ringiovanimento dell’elettorato e della spinta a sinistra proveniente
dai movimenti sociali, appariva come profonda crisi di credibilità e di fiducia nei confronti
di un partito logorato da trent’anni di inamovibilità al governo e al potere. In questo
quadro maturò il vertice della carriera politica di Benigno Zaccagnini: la segreteria
nazionale della Democrazia cristiana. Un momento inatteso e imprevisto, quasi
paradossale nella sua forma. Eletto in un contesto di oscura difficoltà nel luglio del 1975,
dopo la sfiducia votata in consiglio nazionale a Fanfani, in assenza di una candidatura
comune del gruppo di maggioranza del partito e a fronte di un tentativo di forzatura dei dorotei, egli accettò inizialmente da presidente del consiglio nazionale di ricoprire
l’incarico solo temporaneamente per gestire l’emergenza.
Da qui nacque una parabola che va ancora indagata a fondo con metodi di ricerca
scientifica: un percorso di rinnovamento del partito intrecciato di misure evidenti di tipo
innovativo e di un alone di mito che si venne a condensare attorno alla sua figura e che va
compreso nella sua genesi e nella sua evoluzione. La metafora dell’«onesto Zac»,a VOLTE
giocata in termini riduttivi a sottolineare la sua ingenuità e la sua estraneità dai circuiti del
potere, ebbe alla fine comunque un impatto forte nel paese sull’immagine del partito. Non
a caso, ci fu anche qualche momento di incomprensione con lo stesso Moro, il quale da
presidente del consiglio di governi con una risicatissima base politica era attento alla
continuità storica degli assetti politici e alla necessità del partito di salvare l’unità senza
perdere nessuna delle sue pur discusse componenti dirigenziali e delle sue pur complesse
referenze sociali. Il segretario seppe comunque creare una squadra motivata e coesa
(ancorché composita dal punto di vista correntizio), che rilanciò l’attività di partito nei suoi
risvolti collettivi, capillari e popolari, ottenendo una ripresa di militanza soprattutto nelle
giovani generazioni. Era un metodo che da lunghi anni non era più conosciuto e che forse
resta uno degli ultimi tentativi della prima fase della Repubblica di ricostruire una base
sociale alla politica. Tale esperienza diede l’immagine di cosa si poteva fare anche da parte
di chi era tutt’altro che un neofita per rilegittimare una politica stanca e incompresa, se ci
fosse stata solo una autenticità di fondo e una disponibilità a mettersi in gioco con serietà
e senza accentuare finalità personalistiche. Al combattuto congresso della primavera del
1976 venne rieletto alla carica, questa volta con un voto diretto dei congressisti e una
maggioranza chiara, scaturita da un limpido scontro, cosa non sempre consueta nelle
modalità comunicative e politiche in casa democristiana. La vittoria legittimò
politicamente la prospettiva del rinnovamento e fu certo una – non l’unica – motivazione
della ripresa elettorale del 20 giugno del 1976: pesò anche una sorta di chiamata a raccolta
dell’elettorato moderato-conservatore, che infatti lasciò i partiti di destra e di centro ai
minimi storici e «turandosi il naso» si concentrò sulla Dc per paura del sorpasso comunista.
Tale ambigua situazione doveva essere gestita dall’abile ancorché ardua strategia del
«confronto» con il Partito comunista guidata da Moro e accompagnata con discrezione e non senza alcuni dubbi da Zaccagnini. La dialettica che si venne a creare fu tutto sommato
feconda. I governi di solidarietà nazionale con la delicata situazione parlamentare che
traeva il Pci fuori dall’opposizione, pur senza accettare la proposta berlingueriana del
compromesso storico, riuscirono ad affrontare alcuni aspetti dell’emergenza economica,
meno efficacemente quella terroristica, dando anche qualche spazio al completamento di
una prospettiva di riforme sociali come quella ereditata dalla stagione degli anni ’60 (si
pensi alla riforma sanitaria, alla politica della casa e ad altri capitoli).
In questo periodo per tanti versi fervido, la tragedia improvvisa del rapimento di
Moro, sviluppata nel calvario dei cinquantacinque giorni, doveva colpire profondamente
Zaccagnini fino a non lasciarlo più tornare alla normalità della sua esperienza umana
epolitica. Colpito dall’impotenza crescente (e forse non del tutto incolpevole) in cui
sprofondavano gli apparati dello Stato, egli vide crescere la critica amara nei suoi confronti
da parte del prigioniero, nelle lettere fatte filtrare fuori dal carcere brigatista, con il
corrispettivo montare di una sfiducia della famiglia e degli ambienti vicini al suo amico e
maestro politico. Non che oggi – a distanza di quarant’anni – non sia possibile smontare
l’apparente centralità che allora sembrò assumere il lacerante scontro pubblico tra
fermezza e trattativa: Zaccagnini sapeva in cuor suo che non avrebbe probabilmente
potuto fare di più e di diverso, soprattutto perché gli stessi carcerieri non fecero mai
realmente niente per mostrarsi disponibili a venire incontro allo Stato. Come mostra
l’impotenza di tutti i tentativi – comprensibilmente riservati – che oggi sappiamo furono
comunque tentati, al di sotto della quasi necessaria copertura della retorica della fermezza,
voluta soprattutto inizialmente dal Pci ma a cui anche la Dc come partito difficilmente
avrebbe potuto sottrarsi, in quel clima di legittimazione difficoltosa della politica in un
paese agitato e confuso. Ma questa coscienza di ineluttabilità non gli risparmiò una serie
di angosciosi interrogativi, che non a caso egli riscriverà qualche anno dopo in quella lettera
alla moglie che configurava quasi un suo testamento spirituale.
Ritornato molto provato a gestire il partito, nonostante la volontà espressa di
lasciare il suo posto, ebbe un ruolo cruciale nell’elezione di Pertini alla presidenza della
Repubblica. Zaccagnini dovette subire la sconfitta finale della politica di solidarietà
nazionale, nei suoi interlocutori e nel suo stesso partito, con il congresso democristiano del febbraio 1980. La sua testimonianza sobria e incisiva di servizio al bene comune non
sarebbe venuta meno nei pochi anni che la vita ancora gli avrebbe riservato, all’ombra del
suo travaglio interiore, mentre rifiutava ancora una candidatura presidenziale nel 1985.
Girò molto l’Italia a offrire la sua testimonianza e a rilanciare un appassionato appello per
la costruzione politica della pace. Nella primavera del 1988, venne a Milano a un
partecipato raduno dei giovani di Azione cattolica e rilasciò un’intervista in cui disse: «Nei
limiti con cui la politica e ogni cosa umana può esprimersi è certo indispensabile portare
avanti il rinnovamento, che non è solo un fatto generazionale ma soprattutto di idealità, di
freschezza, di ideali politici. Non si può appiattire la politica perché allora ci si sporca
solo le mani. Si deve tenerla alta, e… dopo essersi sporcati le mani, cercare di lavarle». Mi
pare un’immagine sobria e fiera che ben rappresenta il suo lascito essenziale, che potrebbe
funzionare anche da controcanto critico ad alcuni limiti della politica contemporanea.