“Un anno nero per il lavoro, come il carbone dell’Ilva”. Intervista a Giuseppe Sabella

Ilva, Taranto (Gettyimages)

 

Si chiude un’annata con la vicenda Ilva al centro delle cronache, storia che fotografa non solo fatiche e drammi del lavoro ma soprattutto quella instabilità di fondo del sistema Italia che rende scivoloso il terreno per gli investimenti. Un travagliato anno attraversato anche da altri avvenimenti, dall’elezione di Maurizio Landini al vertice della Cgil, alla crisi d’agosto, alla fusione FCA-PSA. Ne abbiamo parlato con il direttore di Think-industry 4.0, Giuseppe Sabella.

 

Sabella, partiamo dalla vicenda Ilva. Oggi presso il Tribunale del Riesame di Taranto si è tenuta l’udienza circa il ricorso dei commissari contro l’ordine di spegnimento dell’altoforno 2. I giudici si sono riservati la decisione e hanno tempo fino al 7 gennaio per depositare il provvedimento. Cosa ne sarà del polo siderurgico di Taranto?

È questa una vicenda che fotografa in modo potente la debolezza del nostro sistema. Lo spegnimento dell’altoforno 2 può implicare una riduzione di circa 1 milione di tonnellate di acciaio prodotte in ragione d’anno e la conseguente cassa integrazione per circa 3.000 lavoratori che si aggiungono a quelli che lo sono già da tempo. Il rilancio del siderurgico non sta avvenendo, e cio è solo in parte dovuto alla contrazione del mercato dell’acciaio a livello europeo, come invece sostengono i vertici di ArcelorMittal.

E quali sono gli altri fattori che hanno impedito l’attuazione del piano industriale di solo un anno fa?

Iniziamo col dire che il più importante player della siderurgia a livello mondiale – ArcelorMittal appunto – non può non sapere che si tratta di un settore fortemente ciclico, ovvero esposto a forti oscillazioni del mercato. Quindi non ha senso che un anno dopo si apra un tavolo di crisi di questa entità solo per questo. Evidentemente c’è dell’altro come, ad esempio, un funzionamento non perfetto della catena produttiva – per altro reso noto anche da fonti interne a Mittal – e una nuova strategia del governo giallorosso in cui è cresciuto lo spazio di quella corrente che da sempre sulla ex Ilva ha idee diverse e che ne vuole oggi la produzione a gas dopo aver regalato alla Grecia un importante giacimento di metano a sud della Puglia.

Può spiegare meglio questo cambio di strategia su Taranto?

La revoca dello scudo penale ha di fatto aperto un negoziato con l’azienda in cui è il governo che deve fare delle proposte che vadano bene a Mittal. Incredibile, quelle condizioni solo un anno fa erano blindate a favore nostro. In questo spazio che si è aperto, il governo vuole il Green New Deal per Taranto, vuole cioè avviare la produzione di acciaio con la tecnologia DRI (gas appunto), che mai Mittal avrebbe adottato perché è operazione molto costosa. In sintesi: un investimento da 3 miliardi di euro per le nostre casse con molte incognite che al momento non conosciamo, sia da un punto di vista strettamente industriale sia occupazionale, considerando anche l’indotto di Taranto.

E con lo Stato azionista, sta tornando l’IRI come qualcuno dice?

Più che una nuova IRI, credo si stia avviando una stagione dove la partecipazione del pubblico a sostegno della expertise privata – come in questo caso – sarà importante. I francesi lo fanno da tempo e, in modalità peculiari, lo fanno anche gli USA. Quindi mi sembra stupido scandalizzarsi. Sarei più attento invece a ciò che questo investimento può produrre.

Insomma un futuro con molte incognite ma anche un anno nero alle spalle per il lavoro…

Si, un anno nero, al di là del record sui tassi di occupazione che in realtà nasconde i fenomeni del part time involontario, del crollo delle ore lavorate, e dei livelli di cassa integrazione alle stelle. Per non parlare dell’incapacità di gestire le crisi aziendali. Difficile in queste condizioni pensare che possa maturare quel progetto di sviluppo per il Paese di cui abbiamo bisogno come il pane, anche perché per gli investimenti siamo sempre meno attraenti.

Al di la della vicenda Ilva, ricorderemo questo 2019 anche per altri avvenimenti importanti per il lavoro. A gennaio, per esempio, Maurizio Landini è stato eletto Segretario Generale della Cgil. È cambiato qualcosa secondo lei?

Landini è un volto popolare e amato, questo è fattore importante. Mi sembra però che la sua elezione non abbia al momento prodotto quel cambio di passo auspicato per il sindacato confederale: questo può avvenire solo in modo unitario e, per ora, l’azione collegiale di Cgil Cisl Uil pare piuttosto debole. Tutto ciò fa certamente i conti, anche, con strutture che non sono di per sé agili e che, quindi, faticano ad attuare processi innovativi. Ad ogni modo, bisogna imprimere un cambio di rotta della politica economica e del lavoro.

Cosa dovrebbe fare il sindacato secondo lei?

Penso che se non saranno le Parti sociali a dettare l’agenda al governo per lo sviluppo economico, il 2020 andrà in continuità con l’anno nero che si sta chiudendo. Bisogna nel concreto capire quali sono gli asset per noi strategici e non subire le loro crisi: ciò può avvenire soltanto rilanciando un piano innovativo per l’impresa e attraverso politiche del lavoro capaci di accompagnare la trasformazione, cosa che in qualche territorio virtuoso come la Lombardia e l’Emilia Romagna continua ad avvenire, pur in mezzo alle tante difficoltà.

E, in tutto questo, la Confindustria?

La Confindustria mi è parsa in questi anni piuttosto attendista, al di là della vivacità che alcune sue sedi territoriali hanno dimostrato. Mi riferisco in particolare a Milano e Vicenza. Non a caso, proprio da quella Milano che ha salutato quel grande industriale che è stato Giorgio Squinzi, arriva una candidatura importante, quella del Presidente di Assolombarda Carlo Bonomi. Ma, appunto, la Confindustria mi pare inevitabilmente molto concentrata sulle sue vicende interne avendo a che fare con il prossimo cambio di guida.

Il 2019 è anche l’anno della fusione FCA-PSA. Cosa ne pensa in ottica italiana?

Penso che si tratti di un’opportunità anche per la nostra produzione, considerando che proprio in questi giorni si è avuta la conferma degli investimenti per l’Italia. Anche la notizia dei due membri del sindacato nel cda di FCA-PSA è naturalmente storica e importante, che segue in particolare al lavoro di chi a suo tempo ha firmato con Marchionne quegli accordi che hanno dato una nuova vita a Fiat. Resta il fatto che siamo in mezzo a Francia e USA e che, quindi, anche la nostra politica è chiamata a vigilare e ad agire. In questo momento non siamo organizzati, come più in generale non lo siamo per sostenere le nostre imprese in giro per il mondo.

Prima ha fatto cenno a un piano per accompagnare impresa e lavoro. Concretamente, cosa fare?

Da una parte, bisogna rilaciare il piano industria/impresa 4.0 e trovare il modo giusto per incentivare l’innovazione delle imprese, fattore in cui il sistema è debole e da cui conseguono gli indicatori molto bassi sulla produttività del lavoro (che, in ultima istanza, significa salari bassi). D’altra parte, bisogna efficientare il raccordo scuola-lavoro (e Università) e la formazione delle persone: abbiamo bisogno di lavoratori sempre più competenti. Non trascurerei, inoltre, che esistono molte posizioni vacanti, segno che – oltre al problema della precarietà del lavoro e della sua mancanza – vi è anche il problema del matching, ovvero dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Anni fa, vi erano le file di giovani in cerca di occupazione fuori dalle Agenzie per il lavoro, oggi le ApL faticano a dare risposta alle aziende. Forse il cosiddetto decreto dignità non funziona così bene come Di Maio – che ne resta il principale fautore – ci dice ancora oggi. E, anche in questo senso, qualcosa bisognerà pur rivedere.

 

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