“Posso confessare di non essermi mai battuto per la carriera, e
di aver preferito la sconfitta a un compromesso con i miei valori”.
Nei giorni scorsi, per una brutta malattia, è morto un gigante della storia della Fim torinese e di quella nazionale: Giovanni Avonto.
“Posso confessare di non essermi mai battuto per la carriera, e
di aver preferito la sconfitta a un compromesso con i miei valori”.
Queste parole lo descrivono piú di ogni altra.
Un uomo mite e caparbio, preparatissimo e coraggioso.
Si è spento venerdì sera, all’età di 84 anni, all’Hospice di Salerano Canavese, Giovanni Avonto, è stato Presidente della Fondazione Nocentini e storico dirigente Fim e Cisl di Torino e Piemonte.
Nato a Villanova Monferrato, in provincia di Alessandria, dopo la laurea in ingegneria, Giovanni Avonto entra all’Olivetti di Ivrea e partecipa all’ultima fase dell’esperienza iniziata da Adriano Olivetti. Ricopre incarichi importanti dal punto di vista professionale in azienda.
Nei primi anni ‘70 inizia il suo impegno nella Fim Cisl torinese e nazionale (percependo uno stipendio più basso di quello della Olivetti). Nel 1973 viene chiamato da Cesare Delpiano nella segreteria della Cisl torinese.
Dopo qualche anno entra nella segreteria regionale Cisl, a fianco di Mario Manfredda, per diventarne generale negli anni Ottanta. Guiderà la Cisl regionale nel periodo caldo dell’accordo di San Valentino del 1984 e del successivo referendum sulla scala mobile.
In seguito diventa segretario generale Fim Piemonte, incarico che lascia nel 1996 quando va in pensione e assume la presidenza della Fondazione Vera Nocentini. Ruolo che ricoprirà fino al 2014, rimanendo fino a oggi nel Consiglio di amministrazione. Avonto è stato anche il primo presidente dell’Ismel da cui nato il Polo del Novecento.
Negli ultimi anni si e’ dedicato alla storiografia della Fim e della Cisl curando le preziose attività della Fondazione Vera Nocentini. Con questa attività aveva custodito il libro “Passato Prossimo” di Pierre Carniti, pubblicato quest’anno da Castelvecchi. Lo vogliamo ricordare pubblicando, per gentile concessione della Segreteria della Fim Nazionale, un suo scritto del 2008.
Testimonianza scritta nel settembre 2008
1-C’è bisogno di un maestro?
“i discute oggi sulla gioventù del 2000 che non ha maestri e che si sente “perduta”. Ripensando alla mia generazione e agli anni giovanili mi sono ritrovato più vicino ai risultati di un’inchiesta dell’Università di Torino sul tema della “formazione della classe dirigente”: dalle risposte degli intervistati appariva significativo che il merito principale del loro percorso di vita professionale e sociale era da ascriversi a un “maestro”.
Gli anni ’S0 erano un crogiolo politico-culturale ed esistenziale con le sue angosce, speranze e brucianti maturazioni. La mia famiglia apparteneva al ceppo cattolico di un paese agricolo appena 5 chilometri a nord del Po, tradizionalmente collocato a sinistra (maggioranza socialcomunista, tranne nel ventennio di regime fascista , al quale l’adesione fu tacitamente unanime). Il reddito familiare era piuttosto precario: mia madre sarta e mio padre agente in una ditta di gestione delle imposte di consumo, decisero poi di riconvertirsi in negozianti di alimentari al dettaglio. Era il tempo della scomunica dei comunisti, e mia madre si arrovellava per un equilibrio di rapporti umani anche con le famiglie comuniste clienti del negozio familiare.
Nato nel ’36, io frequentai le scuole medie, inferiori e poi superiori, nella vicina città di Casale Monferrato, appoggiata sulla riva sud del Po, che io raggiungevo giornalmente con una bicicletta, sostituita solo nell’ultimo anno con un motociclo di uno zio. Era una vera fatica, soprattutto con vento e pioggia, che non conoscevano i miei compagni di studio abitanti in città.
La cultura giovanilistica della parrocchia mi aveva educato ad una impostazione di vita piuttosto romantica e accondiscendente verso le indicazioni della gerarchia ecclesiastica, soprattutto per chi militava nella Giac, la Gioventù di Azione Cattolica.
Si viveva un entusiasmo molto valido sul piano pedagogico, ma acritico perché le esperienze erano pensate e proposte senza collocarle nel contesto sociale e politico del tempo : la validità principale stava nell’alimentare la passione per l’ “avventura” in qualche impegno personale, e fra questi c’era il farsi l’abitudine alle brevi pause di riflessione e di ricerca orientate alla propria crescita spirituale (la cosiddetta meditazione).
La vicenda che costrinse me, come altri giovani cattolici , a dover confrontare l’esperienza di vita con i problemi di quel “nostro tempo” fu la resistenza della Giac, guidata prima da Carlo Carretto e poi da Mario Rossi, all’anticomunismo e all’integralismo di Luigi Gedda e di Papa Pacelli: questa contrapposizione (interna alla stessa Azione Cattolica) nella prima metà degli anni Cinquanta si concluse con la cacciata di Rossi e la sua sostituzione con una presidenza più docile.
Per noi fu uno choc profondo che riguardava soprattutto l’autonomia del laicato sul terreno sociale e politico: ma non si trattava di improvvisazione, perché da alcuni anni c’erano dietro l’ammaestramento e la letteratura di formazione di Emmanuel Mounier affiancati e filtrati dal foglio quindicinale di don Primo Mazzolari “Adesso”, attraverso le riflessioni di Mario Rossi, di don Mazzolari e di padre Umberto Vivarelli.
Certo ci furono anche altri autori (come Maritain, Bernanos, Simone Weil) che costituirono un materiale di formazione compatto e decisivo, ma Mounier fu certamente il “maestro” che favorì il mio impatto sociale con gli ambienti cattolici e il mio ritrovarmi poi alla fine degli anni ’S0 (mentre studiavo al Politecnico di Torino) con una generazione che possiamo chiamare “cristiano-sociale” e che rappresentava l’area minoritaria in quel movimento diffuso, allora chiamato “dissenso cattolico”.
A Torino (1958) la scissione nella Cisl fra sindacalismo di solidarietà associativa e sindacalismo aziendalista rappresentava l’immagine più evidente della spaccatura del mondo cattolico sul terreno sociale: da una parte c’erano fame e sete di giustizia e di dialogo, e dall’altra preoccupazioni per la difesa dei propri vantaggi e per la stabilità degli equilibri politico-sociali. Seguivo questi eventi mentre ero studente a Torino.
Quell’autonomia che l’area del dissenso cattolico rivendicava e che si vedrà riconosciuta poi dal Concilio Vaticano II (laicità dello Stato e della politica) rappresentava anche un problema nel rapporto con quelle culture egemoni della sinistra: occorreva impedire la nostra subalternità ma insieme correggerle, riequilibrarle e integrarle. Su questo terreno Mounier ci ha aiutato e ci può ancora aiutare a ricostruire il primato dell’essere sull’avere, in una progettualità sociale e politica che ponga l’attenzione all’uomo e alla solidarietà comunitaria, dove la ripartizione del lavoro e dell’utile che ne deriva siano momenti inderogabili di partecipazione e liberazione.
Dunque questa è stata la mia alfabetizzazione culturale e sociale che mi ha portato a valorizzare l’autonomia e la responsabilità in prima persona (il cosiddetto personalismo), nell’ambito di battaglie strategiche collettive; al rifiuto tanto di farmi adottare putativamente da un partito quanto di abbracciare una militanza solo di slogan; all’impegno a lavorare sul fronte della sinistra, cercando di rendere possibile e vivibile una “riva sinistra” come approdo e contaminazione di una pluralità di culture ed esperienze1.
Quest’approdo alla “Rive Gauche” non era comunque lineare. Nei colloqui e nella iniziative con gli assistenti spirituali che si sono succeduti (ultimo don Alessandro Pronzato) convivevano spinte e oscillazioni verso l’integralismo religioso, in particolare suscitato in contrapposizione alla diffusa secolarizzazione, cui anche le idealità della sinistra si assoggettavano. La mia idea di superiorità della Chiesa era contro l’indifferentismo dei valori e della morale che stavano permeando la società. In breve, la mia conclusione è che l’Azione Cattolica aveva temprato molto, ma aveva coltivato anche l’intransigenza.
2-Verso un approdo
Un’altra esperienza temprante fu per me il Politecnico, con la durezza dell’impegno richiesto, addolcito forse dalla cerchia di amici che lo frequentavano e che costituivano per me il retroterra fucino di Casale, dove ci si reincontrava al sabato. Qui coltivammo la spinta a far politica con pratiche anche diverse: una fu quella di entrare nel movimento giovanile dc, ed un’altra parallela fu di costruirci un giornalismo autonomo (un settimanale di cronaca e di dibattito denominato “Tuttocasale” di cui ero direttore responsabile). Copiavamo molto come stile le inchieste dell’Espresso” (tanto da essere definiti “L’Espresso del Po”) per trovare situazioni da denunciare o storie politiche da indagare. Ma il potere politico locale non ci sopportava, cosicché ricevetti querele dai democristiani ( per i servizi sulle baronie ospedaliere), ma anche dai comunisti dell’Anpi (per il dibattito sulla Resistenza, in cui emergevano le lotte fratricide e sanguinose in Monferrato fra formazioni diverse di Partigiani). Chiudemmo dopo circa tre anni per limitare l’accumulo di debiti.
Questa attrattiva verso l’esplorazione della realtà sociale e politica si era già manifestata in modi diversi negli ultimi anni di Politecnico. L’esperienza apparentemente professionale degli “stages” studenteschi offriva delle possibilità: per esempio al terzo anno di corso di entrare per due mesi estivi nella Scuola Allievi Fiat e di conoscere da vicino la realtà del gruppo, anche in occasione degli avvenimenti sindacali che avevo appreso. Nel quarto anno di corso mi buttai invece per un mese e mezzo in Polonia , in una fabbrica di cavi elettrici KFK di Cracovia, ove mi costruii anche l’occasione di conoscere la coesistenza fra regime comunista e cattolicesimo polacco, con la fortunata circostanza di incontrare l’allora assistente dei giovani universitari Karol Wojtyla.2
Concluso il Politecnico con una tesi sulle prime esperienze di comunicazioni che preludevano al riflesso satellitare, dopo alcune peregrinazioni presso gli uffici personale di varie aziende metalmeccaniche (era l’autunno 1962 con gli scioperi contrattuali) approdai a Ivrea presso l’Olivetti; ma posso dire che l’approdo fu triplice, perché quasi contemporaneamente conobbi le Acli e il Sindacato: si trattava della Fim- Cisl.
La scelta del proprio lavoro allora si riempiva per me di un fascino importante. Dunque all’inizio degli anni “Sessanta, quando al Nord si registrava un’esplosione di domanda di lavoro, io sceglievo di spostarmi dalla mia piccola regione del Monferrato in un’altra piccola regione: il Canavese, sempre nel cuore del vecchio Piemonte.
Era come lasciare una piccola patria ricca di storia e di vitalità, per abbracciare un’altra patria minore con la quale esistevano connessioni storiche (come ricorda anche Dante attraverso la figura del marchese Guglielmo: «fa pianger Monferrato e Canavese»).
Ma l’attrazione recente era rappresentata da quello sviluppo di industria e cultura diffuse sul territorio del Canavese, trainato non solo dalla tecnologia ma anche dal prestigio degli uomini.
Nel nostro retroterra culturale c’erano i profeti della nuova società (Mounier, Maritain, Simone Weil) che sorprendentemente avevano sollecitato anche la passione imprenditoriale e sociale di Adriano Olivetti.
Non solo c’era stato il suo immergersi coraggioso dalla meccanica fine nella ricerca e progettazione elettronica per il calcolo, ma Olivetti diffondeva anche la convinzione che per sopravvivere bisognasse progettare e programmare.
La pianificazione, con il compito di sostenere lo sviluppo, doveva concretarsi tanto nell’impresa quanto nella Comunità locale, ossia in quella dimensione territoriale ottimale in grado di assiemare le forze vitali, come Adriano Olivetti sapeva ben sintetizzare: «Noi pensiamo a un ambito vitale né troppo grande né troppo piccolo, ordinato e proporzionato alle dimensioni dell’uomo : un luogo più felice dove i campi,le fabbriche, cioè la natura e la vita, ricondotte a unità ritrovino quella compiuta armonia che alberga soltanto nella pace e nella libertà».
C’era quindi una sorta di gradimento da parte mia nell’immergermi in quell’utopia socio-industriale, che aveva anche aspetti di trasparenza spettacolari nei servizi sociali, nelle relazioni industriali, nella circolazione della cultura.
Ho gustato quel “sale” fin dall’inizio. Era ad esempio l’atmosfera aziendale di cordialità e di compatibilità che poteva convivere con l’adesione e anche con la militanza sindacale.
Per la verità io, da impiegato, avevo iniziato la mia attività di impegno sociale con le Acli; ma ben presto fui coinvolto nelle rappresentanze sindacali del “Fondo di solidarietà aziendale”, del Consiglio di Amministrazione dell’ospedale (perché ricostruito con il contributo finanziario dei lavoratori) e poi in quel “Consiglio di Gestione Olivetti” ultimo sopravvissuto fino all’anno 1971 di varie esperienze di “cogestione” che avevano attraversato la realtà di grandi fabbriche piemontesi nel periodo postbellico: quello della cosiddetta “Ricostruzione”.
Però eravamo già nella fase finale del ciclo fortemente espansivo chiamato “boom economico” e a fine del 1963 arrivava il blocco delle assunzioni, e nelle aziende iniziava il ricorso alla cassa integrazione per la caduta del mercato e la prima ondata di riorganizzazioni: erano le avvisaglie di un confronto competitivo che si apriva sul piano internazionale e che sarebbe poi diventato aspro e lacerante nel ventennio successivo. Come entrai nel sindacato? Frequentavo fin dai primi tempi la mensa Acli, e lì conobbi il responsabile della zona Cisl (Abramo Delloro, che personalmente seguiva le aziende chimiche e tessili), il quale oltre l’iscrizione alla Fim mi fece conoscere alcuni dei suoi dirigenti locali, che mi proposero di collaborare al periodico sindacale “Libero “indacato” e di aggregarmi alla commissione impiegati.
Nel 1964 viene proclamato il primo sciopero nazionale dei metalmeccanici in difesa dell’occupazione: quella fu per me la prima volta per la scelta di schieramento. Il giorno precedente io e il mio collega ingegner Pauri decidemmo di aderire e di comunicare la nostra decisione al nostro capo, che si mostrò contrariato (quasi fosse stato un mancato rispetto nei suoi confronti), ma si limitò a far conoscere la nostra scelta ai livelli superiori. Quando c’era uno sciopero che coinvolgeva tutta la categoria o tutta l’azienda gli ingegneri o laureati che scioperavano erano sei o sette (capofila era stato in passato l’ingegnere Angelo Dina della Fiom), e per non rimanere semplicemente a casa ci si dava appuntamento per un incontro di alcune ore di discussione presso la Sala culto valdese, ove il pastore Bouchard ci aveva offerto ospitalità e desiderava partecipare ai nostri incontri. In altre occasioni si partecipava alle riunioni serali organizzate in sede Acli.
Vorrei annotare che in Olivetti la triade sindacale era costituita da Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Autonomia Aziendale, quest’ultimo un sindacato aziendale espressione del Movimento di Comunità, creato dallo stesso Adriano Olivetti nel 1955, e con un successivo accordo di affiliazione alla Uil per il livello nazionale. Questo sindacato, pur di emanazione aziendale come altri promossi da alcune grandi aziende, non poteva essere considerato alla stregua di un sindacato “giallo”, perché costretto a rapportarsi all’unità d’azione pur condizionandola per il peso dei suoi associati. Forse si può dire che la sua posizione aziendalista si avvertiva di più all’interno del Consiglio di Gestione.
Nel 1964 calò su Olivetti la prima pesante crisi, con la decisione drastica dello smembramento della Divisione elettronica, creata negli anni Cinquanta e ceduta a una grande multinazionale statunitense (General Electric) già presente nell’area europea. Le difficoltà economiche e finanziarie dell’azienda e anche l’incapacità dell’allora primo governo di “centro sinistra” di sostenere un settore di importanza nazionale portarono a quel primo naufragio.
Fu quello un primo grande choc politico e sociale, che pareva mettere fine alla scelta delle nuove tecnologie: di fronte a quella sconfitta ci agitammo sul piano sindacale, politico, istituzionale, accorgendoci però di non avere preparazione per negoziare una politica industriale tanto a livello aziendale quanto a livello governativo. Neppure il “Consiglio di gestione” era una sede in grado di capire e di condizionare le ragioni di quella cessione.
Eppure quelle critiche e sollecitazioni conseguirono a medio termine un obiettivo: quello di rimettere in moto lo spirito che Camillo e poi Adriano Olivetti avevano trasmesso a dirigenti e ricercatori. Approfittando cioè di una clausola di salvaguardia nel contratto di cessione che riservava a Olivetti la possibilità di riprendere (quasi ricominciando da zero) progettazione e produzione nell’area dei piccoli calcolatori.
E fu con rabbia intelligente di chi vuole recuperare, superando anche i conflitti culturali interni all’azienda (circa l’opportunità e i vantaggi di una riconversione dalla meccanica all’elettronica), che alla fine degli anni “essanta veniva presentato il primo calcolatore da tavolo programmabile, che era una novità a livello mondiale. Si chiamava “Programma 101” e anch’io vi dedicai una parte del lavoro aziendale.
Quest’impulso di ripresa, che aveva anche fatto seguito al riassetto della proprietà azionaria dell’azienda nel 196S (con l’ingresso di una molteplicità di investitori tra cui l’Iri), si trasferì negli anni “ettanta anche in un grande impegno di indagine e progettazione sul terreno dell’organizzazione del lavoro, superando il classico taylorismo ed educando i lavoratori alla polivalenza, alla responsabilità, all’autocontrollo.
Ma a metà degli anni “ettanta questa transizione verso l’informatica incontrava nuove difficoltà economiche, finanziarie e anche manageriali. Ormai questa fase io la vivevo da esterno, essendo passato alla dirigenza sindacale a tempo pieno, prima nella Fim e poi nella Cisl. Diciamo però che l’essermi naturalizzato “canavesano” mi faceva seguire con l’occhio attento del sindacato e con l’interesse del cittadino della comunità locale le vicende della “ditta” (così chiamata nel gergo familiare anche nei negozi, negli uffici, al mercato …)
3-L’uscita in campo aperto
Diciamo che insieme all’apporto formativo delle Acli (ricordo in particolare le riunioni dei gruppi detti “raggi” a Ivrea ed i convegni annuali a Vallombrosa), i dieci anni di permanenza in Olivetti con la connessa attività sindacale (segreteria di lega, direttivi provinciali e di lega, consiglio dei delegati e commissioni sociali aziendali, assemblee in Olivetti e nel territorio Canavesano, unitamente ai corsi di formazione tenuti a fine settimana) hanno costituito il mio percorso formativo nel sindacato. Vorrei però aggiungere la contrattazione e la sperimentazione sull’organizzazione del lavoro e sull’inquadramento categoriale che nei primi anni ’70 portarono in Olivetti le modifiche della linea di montaggio con il lavoro su isole, e la ricomposizione delle mansioni con nuove qualifiche che resero possibili passaggi di qualifica specie nelle lavorazioni alle macchine utensili. Su questi temi ricordo una impegnativa presentazione e confronto con il dottor Francesco Novara (responsabile del Centro di psicologia aziendale) in sede Ocse a Parigi.
A fine primavera del 1972, mentre si pensava al rinnovo del Contratto nazionale, mi
venne fatta la proposta, in primo luogo da Pippo Morelli della Segreteria nazionale
Fim, di uscire a tempo pieno per il sindacato e di trasferirmi a Roma presso la sedenazionale. “i trattava di abbandonare l’impegno professionale in azienda, che pureavevo sempre cercato di coltivare e salvaguardare, per privilegiare l’impegno nel sindacato dei metalmeccanici. Questa chiamata era un privilegio, ma mi creava anche molta inquietudine, soprattutto il fatto di abbandonare l’azienda, che non era digerito nella cerchia dei familiari.
Mi aiutarono a decidere alcuni fatti: intanto la mia dissociazione progressiva dal partito della Dc a partire dal 1969 mi aveva disimpegnato anche dalle cariche politiche locali e mi rendeva più libero sindacalmente. In secondo luogo, per una strana coincidenza, nello stesso periodo il mio capo ufficio mi presentava la proposta dell’azienda di accettare il passaggio di categoria alla dirigenza. In terzo luogo, con mia moglie raggiungemmo un accordo: siccome anche lei faceva la sindacalista nel settore scuola, non era contraria a che declinassi l’offerta della dirigenza, ma l’esperienza del tempo pieno sindacale a Roma doveva esaminarsi con il rinnovo del contratto nazionale, quindi al più tardi nella primavera 1973. Questi ultimi fatti mi consentironodi rispondere a Olivetti che avevo scelto l’utopia sindacale, anche se per un tempo determinato.
Ricordo che al termine di un Consiglio generale della Fim tenutosi a Bologna, l’intera segreteria nazionale mi fece un “colloquio di assunzione”, anche se tutti già mi conoscevano personalmente perché al Congresso di Sirmione del ’69 ero stato eletto nel collegio dei probiviri di cui divenni presidente. Mi posero una serie di questioni che considerai molto serie, perché mi indicavano la statura degli uomini che guidavano la Fim: si discusse della retribuzione, che era la metà di quanto prendevo in Olivetti, e del mio grado di sopportabilità di una tale decurtazione, poiché il sindacato non poteva assicurarmi un trattamento economico equivalente a quello che lasciavo; si discusse del rapporto con mia moglie, visto che non intendevo trasferirmi permanentemente a Roma; mi chiesero come era mia abitudine trascorrere il fine settimana… Avevo 36 anni ed uscivo a tempo pieno al limite di età per tale scelta.
A metà settembre del ’72 entrai nella Fim nazionale che allora si insediava nella sede unitaria di corso Trieste, avendo costituito con Fiom e Uilm la Federazione Flm. Mi occupavo di ufficio studi e di sviluppo del Mezzogiorno, ed il primo impegno fu mia moglie e per i problemi di salute di mio padre. Ebbi la grande soddisfazione di vivere in diretta la conquista del contratto nazionale del 1973 (2 aprile) stipulato unitariamente dalla Flm con Federmeccanica: conteneva novità importanti dal punto di vista sociale, politico e culturale, tra le quali la prima classificazione unica per operai e impiegati con previsione di percorsi di mobilità, il diritto allo studio inteso non solo come conseguimento dei titoli dell’ordinamento scolastico, ma anche come diritto a tempo libero per corsi di acculturamento, ed i diritti di informazione sull’andamento dell’azienda, che con maggiore forza sarebbero poi diventati centrali nel successivo contratto nazionale del ’76.
La conclusione di quell’anno di esperienza nazionale fu la mediazione di Cesare Delpiano (allora segretario generale della Cisl torinese) per un ritorno a Torino e un ingresso nella segreteria dell’Usp.
Quasi sei anni vissuti con Delpiano travolsero l’iniziale impegno familiare di restare sindacalista a tempo pieno solo per un limitato periodo. E furono anni vissuti con dedizione estrema, quasi allo spasimo, come effetto del clima unitario fra le confederazioni, che però chiedeva alla Cisl di reggere nella concorrenza per la leadership della Federazione unitaria.
In quella segreteria Cisl torinese a tre, con Delpiano e Gheddo, io fungevo un po’ da ala sinistra, e mi piace ricordare, perché vissuta appassionatamente insieme alla Fim, l’esperienza dell “sinistra sindacale”, come l’ho descritta in una riflessione in occasione della presentazione di una tesi di dottorato proprio sulla storia di quella componente trasversale alle tre organizzazioni.
4-Il ventennio della sinistra sindacale
Gli anni della cosiddetta “nuova” sinistra sindacale per me sono stati anni di contaminazione politico-culturale e di creatività rivendicativa e partecipativa nel sindacato. La ricerca di una comune militanza sindacale andava oltre il dialogo e il confronto, che avevano caratterizzato l’esperienza degli anni ’60, insieme all’unità d’azione ai fini della contrattazione.
In questa nuova fase si sperimentava una comune analisi e proposta, mettendo da parte anche talune identità storiche di ciascuna confederazione, ovvero operando mediazioni culturali che erano alla portata di gruppi di sindacalisti abituati a lavorare fianco a fianco. La tensione verso la costruzione dell’unità sindacale organica, anche se era stata stoppata con la Federazione unitaria, viveva ugualmente come pratica nella sinistra sindacale.
La creatività si espresse soprattutto sulle tematiche sindacali del salario, dell’orario e dell’organizzazione del lavoro: qualcuno ha osservato che questi erano temi tradizionali e che in fondo il ruolo svolto era quello di ricucire gli strappi fra la linea assunta dalle confederazioni ed i bisogni della classe lavoratrice. Ma secondo me, queste osservazioni critiche, che pure erano presenti nell’area delle formazioni di estrema sinistra contigue alla sinistra sindacale, colgono solo parzialmente il lavoro costruttivo di questo movimento trasversale.
Infatti la nostra esperienza non si esauriva nell’essere una coscienza critica all’interno del sindacato: si cercavano nuovi spazi rivendicativi e di contrattazione dentro la fabbrica e all’esterno nei confronti delle istituzioni; cosicché i temi del sapere, per la propria vita e per il proprio lavoro, dell’uso della scienza e delle tecnologie per organizzare la vita collettiva e la produzione, e poi ancora del rapporto scuola – fabbrica – territorio costituivano occasioni per costruire un volto diverso alla società in cui si era immersi, e per allargare gli interessi e quindi la partecipazione dei lavoratori al cambiamento dello Stato.
Questa “nuova” sinistra sindacale non era una organizzazione, ma un movimento di opinione che si estendeva in Cgil, Cisl e Uil aggregando soprattutto militanti e dirigenti, e che comunque era governato da un gruppo di quadri nazionali e periferici, capaci di crearsi visibilità e attenzione. Con le loro intuizioni, questi dirigenti sapevano trasmettere lo spirito del protagonismo nel tradurre scelte culturali in impegno sindacale. Ha ragione però Loreto a concludere che si é trattato di un movimento minoritario, che ha lasciato tracce di ricordi e di passione in chi l’ha vissuto. La traccia principale per me è questa: l’autonomia del sociale va costruita e difesa.
In questa esperienza sono confluite principalmente le culture marxista-socialista e cattolica, come già succedeva per il dialogo nella sinistra storica. Ma ora ci si potrebbe chiedere perché la “nuova” sinistra sindacale per otto-dieci anni ha potuto svolgere questa sua funzione. La mia risposta é: perché c’erano spazi di convergenza fra le tre confederazioni. La sinistra sindacale saltava i paletti di confine e di difesa del proprio territorio, che ogni organizzazione confederale aveva piantato. Ma secondo me si può aggiungere qualcosa, che già era cresciuto nella sinistra storica, ed era la dimensione umana dei rapporti, la fiducia e l’affidabilità reciproca, il rispetto per i conflitti a cui la sinistra dava luogo in ciascuna confederazione. Insomma erano cresciute delle affinità coltivate su valori di alto profilo.
Vorrei citare alcune vicende che hanno caratterizzato soprattutto l’esperienza torinese con l’impegno della sinistra sindacale. Le cito un po’ al galoppo: l’opposizione alla legge Reale sull’ordine pubblico nel 1975 che restringeva libertà personali e spazi di mobilitazione e di lotta (a Torino si organizzò un convegno pubblico con la partecipazione di magistrati, ma nel successivo referendum abrogativo del ’78 prevalse lo schieramento a favore della legislazione speciale contro il terrorismo); aggiungerei poi l’opposizione e il ribaltamento di un questionario, promosso dal presidente del Consiglio regionale e sostenuto dal Pci, per la denuncia in forma anonima di qualsiasi atto individuato come sospetto di terrorismo (e noi si sosteneva invece il comportamento responsabile e trasparente dei lavoratori rispetto a quello occulto dei brigatisti). Ancora riprenderei l’editoriale di Avonto e Lattes su “Sinistra ’78” a favore di una posizione di trattativa per salvare la vita a Moro. E poi l’esperienza alla grande delle “150 ore” promossa e contrattata con le aziende e con l’istituzione regionale per merito soprattutto della sinistra sindacale.
Domanda finale: perché finisce la sinistra sindacale con l’affacciarsi del decennio ’80? Mi pare insufficiente dire che tale sinistra non é stata capace di presentare un progetto alternativo di riforma del sindacato per gli anni ’80; e, in conseguenza di ciò, il venir meno di stretti legami con vasti strati delle nuove generazioni.
Io penso che il periodo del terrorismo, soprattutto nel 1978, restringendo gli spazi di manovra del sindacato, abbia dato un colpo distruttivo finale alla sinistra sindacale. (E su questo meriterebbe fare una riflessione-rivisitazione nel sindacato, che non c’é nella pubblicazione di Loreto, e in nessuna ricerca su quel periodo). A questo si aggiunse la progressiva caduta delle convergenze sindacali su analisi delle trasformazioni in atto e su terapie da adottare: concertazione e politica dello scambio furono calate di peso senza una maturazione fra le vecchie e le nuove leve di sindacalisti, e prevalse l’amministrazione di un sindacato freddo e normalizzato rispetto alle dinamiche interne, cioè rispetto a dialettica e dissenso.
5-Un percorso sindacale fatto di mobilità
Nel 1979 Delpiano passava alla segreteria confederale ed io mi trasferivo a quella regionale del Piemonte. Dopo due anni col congresso del 1981 e con l’appoggio di Marini diventavo segretario della Cisl piemontese. Furono quattro anni di gestione difficile, sia per i gravi problemi del quadro sociale italiano e piemontese5, sia per le opposizioni interne che si organizzavano per avere un segretario responsabile che fosse un democristiano doc, insomma le contrapposizioni fra carmitiani e mariniani. Ma qualche buona soddisfazione la ebbi: per esempio l’amicizia con Ezio Tarantelli, con cui progettai la costruzione del “modello econometrico del Piemonte” utilizzando la tesi di un giovane che faceva servizio civile come obiettore (operazione poi troncata dall’omicidio di Tarantelli ad opera delle Br); come pure la sua venuta a Torino per un seminario di studio sulla crisi piemontese e italiana6. Potrei ancora ricordare la proposta elaborata con Fausto Bertinotti (allora segretario generale della Cgil piemontese) e sospinti a tale iniziativa da un’assemblea del Consiglione di Mirafiori per superare l’impasse dell’intervento sulla scala mobile nell’accordo col governo Craxi, proposta pubblicata contemporaneamente su Rassegna sindacale e Conquiste del lavoro7. Ma il nostro tentativo fu inutile perché la rottura della maggioranza Cgil sull’accordo col governo era ormai determinata.
Perso il Congresso regionale 1985 a Novara con una sconfitta sul campo costruita per lungo periodo dai miei oppositori, resi più attivi dopo la rottura unitaria fra Cgil, Cisl e Uil, ebbi un recupero ritornando in Fim nella segreteria regionale, di cui divenni responsabile nel 1988 (26 settembre).
Questo ritorno in Fim significò inizialmente il trasferimento nella sede unitaria torinese e regionale con Fiom e Uilm di via Porpora, che era stata acquistata insieme nel 1975, cioè con tre anni di ritardo rispetto alla costituzione della Flm in ambito nazionale e periferico. Questo ritardo fu dovuto al fatto che unitariamente si pensava di acquistare una sede che servisse non solo ai metalmeccanici ma anche a Cgil, Cisl e Uil di Torino. La ricerca fu lunga, perseguita soprattutto da Tino Pace, segretario della camera del lavoro torinese, attraverso contatti anche curiosi (per esempio incaricando don Prunas Tola assistente della “nobiltà” cittadina), perché si puntava a un palazzo di prestigio, in cui la proprietà fosse disponibile ad accettare l’insediamento di una grande “organizzazione sociale”. Ma alla fine il tentativo non riuscì e si ripiegò sulla sede dei soli metalmeccanici.
Anche la separazione fra Fim, Fiom e Uilm, dopo la rottura del 1984, avvenne con ritardo (nel maggio 1990) 8, perciò per alcuni anni dopo il mio ritorno alla Fim continuò la convivenza che si cercò di amministrare nel miglior modo possibile. Segretario regionale Fim era allora Carlo Daghino, mentre il responsabile Fiom era Cesare Damiano (futuro ministro del lavoro) le cui caratteristiche erano il realismo e la prudente mediazione. Continuarono riunioni e iniziative comuni, anche se si puntava ora a una caratterizzazione della Fim e alla formazione orientata non solo alla “contrattazione” ma anche alla “partecipazione”, attraverso lo studio di problematiche nuove affrontate dalle aziende (come la “qualità totale”), la riscoperta delle “commissioni paritetiche” e la proposta di “fondi bilaterali”9.
La sede della Fim regionale e torinese (in via Orsiera, zona San Paolo, dopo la separazione) subì diversi cambiamenti, per approdare nel 1994 in via Montecuccoli (zona centro di Torino) più vicina alla collocazione della Cisl.
Fu questa la miglior stagione per me nella ricerca di equilibrio per la ricostruzione della Fim e di possibili innovazioni. Il tutto senza mortificare la dialettica interna che pure si è manifestata con punte a livello torinese e novarese.
Siamo negli anni Novanta e di queste innovazioni vorrei ricordarne alcune.
Con la Fim nazionale si progettò la costruzione delle Macroregioni per le quali si prevedeva un coordinatore: per il Nord-Ovest (ossia Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta) io assunsi il compito del coordinamento che si esplicitava soprattutto nella formazione e nell’organizzazione. Ma ad Aosta dovetti affrontare le turbolenze dei valdostani con la reggenza. Nella preparazione del Congresso regionale 1993 (in epoca di tangentopoli) si approfondì la questione etica per il sindacato, sintetizzata poi in una “carta etica” per il sindacalista.
Ancora per lo stesso congresso si discusse e si approvò la proposta di favorire un incontro culturale e politico fra tre diverse tradizioni: popolari, riformisti e progressisti; portata al congresso nazionale la proposta creò divisione nella Fim, e si rinviò l’approfondimento a un consiglio nazionale che si tenne poi a Torino nell’autunno, ma con un quadro politico nazionale ormai deteriorato dalla corruzione su cui si abbatteva la scure della magistratura.
Nell’autunno del 199S feci la scelta di lavorare per un anno per costruire il mio cambio nella Fim regionale. Quest’impegno si concluse nel settembre 1996 con l’elezione a segretario generale della Fim piemontese di Gianni Vizio.
Nel frattempo vi furono offerte ed esplorazioni per il mio futuro impegno (assessorato al lavoro a Torino, candidatura parlamentare…) ma nessuna ebbe una conclusione.
Invece con Franco Gheddo approdai a un impegno culturale al servizio del sindacato.
6-Valutazione complessiva
La domanda finale che posso pormi è: c’è stata coerenza in queste pluralità di esperienze? Penso che molte scelte le rifarei, perché non derivavano da un capriccio o da un effetto di trascinamento. Certamente avrei dovuto essere più equilibrato nella mia vita familiare. Però posso confessare di non essermi mai battuto per la carriera, e di aver preferito la sconfitta a un compromesso con i miei valori.
L’esperienza nella Fim, iniziale e poi recuperata alla fine, è stata il cuore del mio impegno, e se c’è un orgoglio in questo è che si avvertiva di essere costruttori nella storia della Fim, perché a differenza di altre strutture (confederale e categoriali della Cisl) si cercava di promuovere e valorizzare gli uomini migliori.
Credo che nella Fim attuale sia rimasto molto delle esperienze coltivate in passato, almeno come volontà di protagonismo. E’ da valutare se lo spirito egemonico del passato nei confronti della confederazione madre abbia oggi ancora senso. Mentre ha sicuramente senso la sfida unitaria e insieme concorrenziale rispetto a Fiom e Uilm.
Note
1 Vedi Giovanni Avonto, Una bussola per la Rive Gauche, in Dino Sanlorenzo, Noi cominciamo così, Edizioni the C’, 1999; e Introduzione in Emmanuel Mounier: la ragione della democrazia, Edizioni Lavoro, Roma 1986 curato dall’Istituto Emmanuel Mounier.
2 VediGiovanni Avonto, ImieiricordigiovanilisuKarolWojtyla, in “Conquiste del Lavoro”, 5 aprile
2005.
3 Per le vicende che coinvolsero la storia di Olivetti vedi: “Lettera Fim”, n. 9/1996 e Francesco Novara et al. (a cura di), Uomini e lavoro all’Olivetti , Bruno Mondadori, Milano 2005.
4 Fabrizio Loreto, L’anima bella del sindacato, Ediesse, Roma 2005
5 Vedi Giovanni Avonto, Piemonte tra solidarietà ed assistenza, in “Contrattazione” , n. 5, sett.-ott. 1984, G. Avonto e Manuela Merli, Requiem … per cassaintegrati, in “Il Progetto”, n.8, mar.-apr. 1982 e G. Avonto, Un sindacalismo deindustrializzato?, in Angelo Michelsons (a cura di), Tre incognite per lo sviluppo, Franco Angeli, Milano 1985.
6 Vedi l’opuscolo dell’Usr-Cisl Piemonte, L’azione del sindacato verso un patto per il lavoro: il caso Piemonte. Giornata di studio 3-4 gennaio ’85. gli interventi di Ezio Tarantelli, atti trascritti dalla registrazione del seminario a cura dell’Usr-Cisl Piemonte e la riproduzione su CD curata dalla Confederazione Cisl in occasione dell’inaugurazione della nuova sede della Fondazione Ezio Tarantelli nel 2005.
7 Vedi Giovanni Avonto e Fausto Bertinotti, Un patto per il lavoro, in “Conquiste del Lavoro”, 6
febbraio 1984
8 Il materiale documentario e archivistico, con relativo inventario, della Flm senza scorpori è stato
depositato presso l’Archivio di Stato di Torino, Sezioni Riunite di via Piave.
9 Per una cronologia delle varie iniziative si può consultare la parte storica introduttiva alla Guida all’archivio storico sindacale della Fim-Cisl di Torino e Regionale del Piemonte, Fondazione Vera Nocentini, 2001.