“Governo e Confindustria, attenzione al conflitto imprese – lavoratori”. Intervista a Giuseppe Sabella

Com’è noto, il presidente del consiglio Conte ha firmato il decreto “chiudi Italia” che sospende le produzioni non essenziali in tutto il Paese e che contiene la lista delle attività consentite. La firma è arrivata però dopo una giornata di tensione e molte ore dopo l’annuncio di sabato sera del fermo alle attività, anche con alcune differenze rispetto a quanto era trapelato. Ciò che è successo è ormai noto, ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0.

Sabella, come vede questo nuovo decreto di Conte?

Lo vedo pasticciato, non solo per colpa sua. Nel Paese c’è confusione e, come al solito, nei momenti di emergenza non riusciamo a definire delle strategie.

A cosa si riferisce in particolare?

Innanzitutto, qualcosa non sta funzionando sul piano sanitario. In Veneto stanno controllando egregiamente il problema, così anche in Emilia Romagna. In Lombardia molto meno: emerge un ruolo del sistema sanitario territoriale che in Veneto ed Emilia sta funzionando e in Lombardia no. Si è deciso di intervenire sul contagio col ricovero, intasando così gli ospedali e rendendo più vulnerabili le persone colpite dal covid-19 quando non necessitanti di terapia intensiva. E poi, sul piano del lavoro, ma che senso ha tenere “tutti a casa” e le fabbriche aperte?

Sta dicendo che bisognava fermare più produzioni?

Vedo due pericoli in questa situazione. Il primo è quello di un’azione non efficace del contenimento del contagio. Dall’altro vi è un problema che se non controlliamo da subito rischia di esplodere: come si deve sentire chi deve andare al lavoro pur non facendo parte delle filiere essenziali? Vi è un elenco lunghissimo e, oltre all’agroalimentare e al farmaceutico, tutto il resto è molto opinabile.

Qual è il secondo rischio sociale a cui alludeva?

Come in ogni situazione di crisi, a livello sociale matura sempre un risentimento che questa volta ha caratteristiche molto peculiari. I politici in prima linea, anche per il loro impegno che la gente avverte, godono di fiducia nonostante i loro errori. Qualcosa non ha funzionato in questa situazione e l’irrigidimento di Confindustria – che nemmeno in modo riservato ma con una lettera che ha fatto il giro del mondo – rischia di resuscitare un conflitto sociale che pensavamo relegato ai libri di storia: tra i lavoratori sta crescendo un’idea che le imprese, pur di produrre, non siano interessate al rischio che corrono gli operai. Non a caso, in particolare nel chimico, nel tessile, e nella gomma plastica vi sono scioperi, oltre che dei metalmeccanici lombardi. E ve ne saranno altri. Del resto, coloro che lavorano in produzione sono gli unici che non possono farlo in smart working.

E come si poteva gestire questa situazione?

Innanzitutto con più accortezza. Faccio notare che vi sono aziende che hanno chiuso senza aspettare decreti: la prima preoccupazione è stata per le persone. Certo dobbiamo anche tener presente che molte imprese non saranno in grado di reggere il contraccolpo. Ad ogni modo, più che una trattativa serrata alla luce del sole su attività che scopriamo oggi essere “essenziali” – sono un centinaio le voci nell’elenco – forse era il caso di essere molto rigidi su chi è in grado di garantire standard di sicurezza e chi no. E poi, ma possibile che non si comprenda che non può finire tutto sui giornali? Rimpiango i tempi delle segrete stanze…

Come si può procedere secondo lei?

Penso che dobbiamo capire come si muove il virus, la situazione in Lombardia è molto critica e al Sud è tutta da capire. Ad ogni modo, probabilmente si tratterà di intervenire ancora per fermare qualcosa ma mi piacerebbe innanzitutto che i vertici di sindacato e impresa lavorassero in modo riservato e definissero una strategia per il Paese insieme al governo, non solo di contenimento ma anche per una ripresa che deve iniziare a preoccuparci.

Ma, nel concreto, quale strategia?

L’Europa sta mettendo a disposizione una montagna di denaro, non solo con il quantitative easing. Questo, intanto, dovrebbe dirci che non è vero che l’Europa non sta facendo nulla. Il punto è, saremo in grado di cogliere l’occasione? Il denaro va intercettato e investito nel modo giusto. Qui non si tratta di salvare il salvabile, si tratta di capire laddove si possono generare fattori di sviluppo e di competitività per il sistema Italia: c’è qualcosa che avrà un futuro e qualcosa che inevitabilmente non lo avrà. Bisogna investire su ciò che sappiamo ci permetterà domani di competere nel mondo, mi riferisco in particolare alla componentistica ad alto valore aggiunto, alla chimica, all’agroalimentare, alla moda, ma le eccellenze in Italia sono tante e distribuite. Vanno utilizzate per creare lavoro e sviluppo. Come fare? Condividendo un piano di innovazione e di trasformazione delle nostre produzioni e delle nostre risorse umane, spostando il lavoro dove vi sono queste condizioni. Le competenze e la formazione delle persone avrà un ruolo fondamentale ma prima di tutto vanno individuati dei buoni precettori e dei buoni dirigenti. Ci attende una fase di ricostruzione del Paese e la politica deve smetterla di litigare. Tutti stiamo perdendo qualcosa a questo giro e, quindi, dobbiamo tutti essere disponibili al cambiamento. Per il bene nostro e di tutti.

C’è chi parla di una nuova IRI. È questa la strada giusta?

No, però è fuori discussione che con la fine dell’IRI è morto un gruppo dirigente che sapeva interfacciarsi con l’impresa e con l’industria. Va ricreata una task force con funzionari che hanno queste competenze. Calenda sarebbe un ottimo dirigente capo.

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