Galli Della Loggia e Ruini: nostalgici della Chiesa d’ordine. Intervista a Guido Formigoni

 

 

 

Nell’opinione pubblica cattolica italiana hanno fatto discutere gli interventi, nei giorni scorsi, di Ernesto Galli Della Loggia e di Camillo Ruini. Rispettivamente
storico, Galli della Loggia, ed ex presidente della Conferenza Episcopale Italiana, Camillo Ruini. Due interventi che hanno toccato il postconcilio e l’attuale
pontificato. Cerchiamo, in questa intervista, con il professor Guido Formigoni, ordinario di Storia Contemporanea all’Università IULM di Milano, di approfondire il significato di queste prese di posizione.

 

Professor Formigoni, la Chiesa Cattolica ha appena celebrato i cento anni della
nascita di Giovanni Paolo II. Un centenario che ha proiettato, da parte di
qualche alto prelato, anche giudizi sugli ultimi cinquant’anni della storia della
Chiesa contemporanea. Ma andiamo con ordine. Chiedo a lei, come storico, un
giudizio sintetico su Karol Wojtyla. Al di là dell’apologia, e in questi giorni se
n’è vista troppa, qual è la cifra del pontificato di Giovanni Paolo II?

Beh, difficile ridurre a una cifra semplice e sintetica un pontificato tra i più lunghi
della storia recente e senz’altro complesso come quello di Giovanni Paolo II. A mio
modo di vedere (e anche nei limiti della mia conoscenza), senz’altro il quadro
iniziale del pontificato è stato collegato alla ripresa e alla valorizzazione del concilio
(che si era chiuso da meno di quindici anni), ma con la caratteristica originale di
attribuirvi un nuovo timbro “istituzionale”. Il senso del messaggio del papa era un
rinsaldamento della Chiesa come struttura centralizzata e autorevole, come forza
sociale in grado di esprimere una visione forte del mondo e della storia, sia
nell’Occidente secolarizzato che nell’Oriente comunista e anche nel cuore delle
nuove esperienze dei popoli extraeuropei e del loro rigoglio di sviluppo religioso. In
questo senso l’esperienza polacca della Chiesa storicamente concepita come guida
della nazione indubbiamente contava. Per cui, in alcune realtà come quella italiana
dove il cammino postconciliare aveva seguito uno sviluppo proprio, centrato sulle
chiese locali, la valorizzazione del laicato, il pluralismo teologico, il dialogo con
l’esterno, questa logica apparve e fu piuttosto impositiva, provocando una crisi
indubbia (si ricordi l’approccio del papa al convegno ecclesiale di Loreto). Oppure si
ricordi il senso di una stretta sulle esperienze di comunità di base in America Latina,
con la connessa riaffermazione dell’autorità episcopale oltre che i limiti rigidi
imposti alla teologia della liberazione. Il papa pensava tutto ciò come un “tradimento del concilio” (titolo di un libro polemico che uscì in quegli anni)? Io direi di no,
anche se la sua sensibilità e il suo approccio deciso e volitivo aprivano uno scontro
multiforme ma visibilissimo su come intendere alcune delle conseguenze nella
recezione del Vaticano II. Il sinodo del 1985 non a caso rilanciò l’idea del concilio
come “grande grazia di questo secolo”: tutt’altro rispetto alla sua rilettura come
causa di tutti i mali contemporanei, che era propria della destra cattolica. E che il
papa restasse nel solco del Vaticano II lo si vide poi da alcuni gesti e parole
importanti: la tenuta sulla riforma liturgica; la critica estesa anche al capitalismo
dopo il crollo del comunismo europeo nel 1989; il deciso impegno per la pace e
contro ogni giustificazione religiosa della guerra, partito dalla grande preghiera
interreligiosa del 1986; l’apertura al ripensamento del ruolo papale nella “Ut Unum
Sint”; la richiesta di perdono per i peccati della Chiesa connessa al grande Giubileo
del 2000.

Dicevano all’inizio che il centenario ha offerto l’occasione, a qualche autorevole  prelato, in questo caso ad un cardinale italiano, Camillo Ruini, già Presidente
della Conferenza episcopale italiana sotto Wojtyla, di esprimere un giudizio su
una stagione complessa, quella del post concilio. Secondo Ruini con Giovanni
Paolo II “la Chiesa è uscita da quella posizione difensiva sulla quale era stata a
lungo costretta dalla crisi del dopo Concilio e ha potuto riprendere l’iniziativa,
soprattutto nell’ambito dell’evangelizzazione”. Un giudizio che tocca in pieno il
pontificato di Paolo VI. Al di là della modalità espressiva assai poco felice e
sbrigativa, è difficile pensare con Papa Montini, uomo dotato di grande cultura
e di raffinata visione “politica” del cattolicesimo, ad una Chiesa difensiva come
quella dell’immediato postconcilio. Mi sembra che il “dottor sottile”
dell’episcopato italiano qui voglia colpire il Concilio e la sua visione di Chiesa
sulla frontiera del dialogo con la modernità. Eppure Wojtyla, con i suoi limiti
ermeneutici, ha confermato su diversi punti (il dialogo est-ovest,  il dialogo
interreligioso, ecumenico, la critica al modello di sviluppo economico) il
Pontificato di Paolo VI. Qualcosa non torna nel giudizio di Ruini. E’ così
Professore?

Il giudizio di Ruini mi pare vada oltre Giovanni Paolo II stesso. Allude a un ruolo
del concilio del causare una situazione di crisi nella Chiesa che è concetto frutto di
una lettura storica non neutrale e ricca di conseguenze: molto diverso naturalmente è
vedere invece sotto i cosiddetti “anni dell’onnipotenza” fermentare una crisi del
cattolicesimo contemporaneo, cui il concilio provò a rispondere. L’ipotesi per cui
Paolo VI si ridusse a una posizione difensiva è smentita dalle ultime ricerche
storiche, che hanno messo in luce come indubbiamente il papa attraversò una fase di
incertezze, dubbi e sconforto nell’immediato post-concilio, venendo molto turbato
dalla violenta ondata anti-istituzionale che dalla società investiva la Chiesa. Ma è
ormai chiaro che negli ultimi anni di pontificato il suo approccio divenne molto più saldo, sereno e fiducioso, fino a quegli interventi come l’«Evangeli nuntiandi» del
1975 che erano attraversati da una logica tutt’altro che difensiva, ma innovativa e
propositiva, sul nocciolo stesso della questione dell’evangelizzazione.

Veniamo, ora, al secondo fatto, non direttamente legato al centenario di papa
Wojtyla, ma dato il personaggio coinvolto, forse un qualche legame c’è. Mi
riferisco a  Ernesto Galli della Loggia. Un personaggio assai controverso nella
sua “competenza” ecclesiale. Lo storico si è reso protagonista, con ben due
articoli apparsi sul “Corriere della Sera”, di un duro attacco a Papa  Francesco.
Nel primo, in estrema sintesi, si “accusa” la Chiesa guidata da Bergoglio di non
avere alcun impatto politico in quanto, il “discorso pubblico” del Papa, sarebbe
ridotto a ideologia (perché perde ogni specificità religiosa).  Non solo ideologia
ma anche i suoi destinatari, dei discorsi, sarebbero non più gli uomini di buona
volontà ma i poveri e i movimenti. Sociali. Affermazioni, queste, facilmente
smontabili. Nel secondo articolo, poi, si accusa il Papa nel suo annuncio in
favore dei poveri di mettere in secondo piano l’obbligo dei credenti verso Dio è
anche per questo che diventa un discorso ideologico e quindi, inevitabilmente, la
conseguenza è che la Chiesa diventi come un “partito”. Le accuse sono assai
pesanti.  Professore che idea si è fatto di questi attacchi? Perché questa
virulenza, da un “maestro” (si fa per dire) del moderatismo italiano?

Non scopriamo oggi la preferenza di Galli Della Loggia per una Chiesa che porti un
contributo d’ordine sul modello della «religione civile», in un mondo governato dalla
logica individualistica del liberalismo moderato. Questo lo porta a criticare un
pontificato che non sta proprio nelle sue corde, per l’acquisizione di un modello
post-cristianità totalmente diverso da quello da lui auspicato, in cui l’influenza della
Chiesa è affidata alla coscienza delle persone, in un orizzonte di libertà che ha
dismesso ogni sogno di potere mondano. Al di là di questa divergenza di opinione,
quello che spicca nei suoi editoriali è un approccio per così dire «fissista» alla
teologia e alla Chiesa, quasi che un certo modello del passato (impostazione
filosofica veritativa, autorità centralizzata, dottrina della Chiesa centrista, istanze di
conversione del mondo esterno…) sia dato per ovvio ed eterno. Per cui di fronte a un
papa che sposta il tiro sulla predicazione di un’esperienza del divino centrata sulla
misericordia di Dio rivelata nel vangelo di Gesù, egli si trova spiazzato e reagisce in
modo francamente un po’ eccessivo, giudicando queste posizioni prive di originalità
religiosa e lontane dal vangelo: che cosa sia propriamente religioso lo potrà decidere
chi è dentro nella Chiesa, più che un osservatore intellettuale esterno, per quanto
partecipe? Quello che poi Galli nota correttamente è invece che il papa ha preso un
indirizzo molto più universalista nell’indirizzare il suo messaggio, oltre le mura
dell’Occidente: naturalmente ancora una volta la sua lettura è di segno negativo, ma
qui egli coglie nel segno.

Di fronte a questi attacchi “brilla” l’assenza di una qualche reazione cattolica…E’ così?

Non saprei dire se ci sia stata totale passività… Una certa mancanza di reazione fa
parte probabilmente di un approccio ecclesiastico generale che non ama la polemica
intellettuale pubblica (a torto o a ragione). Ma è anche forse da attribuire in parte a
un approccio generale della Chiesa italiana che mi pare un po’ statico: mi sorprende
sempre quanto la parte di questa comunità cristiana che dovrebbe essere più in
sintonia con le novità del pontificato di Francesco – dopo anni di incertezze e
difficoltà vissute nel corpo ecclesiale – in realtà sia come timorosa e prudente,
semplicemente in ottica di ripetizione del magistero papale, più che non
nell’assunzione di una propria funzione trainante nella Chiesa per far fecondare e
rilanciare quanto il papa suggerisce.

Eppure nel mondo post-covid19 il ruolo della Chiesa sarà fondamentale. Non
solo nell’ambito delle opere di carità ma anche nella ricostruzione morale del
Paese.  Le sfide sono davvero enormi, e il papa Francesco, con buona pace di
Galli Della Loggia, ha detto parole chiare in questo tempo di Pandemia.  In
questo senso il discorso “politico” dei cattolici potrà giocare un ruolo
fondamentale. Vede spazi per un protagonismo dei laici cattolici?

A questo proposito le cose sono complesse: non credo ci sia niente di scontato.
Francesco ha computo gesti e detto parole di alto livello, soprattutto nella invocazione a Dio, solo in piazza San Pietro. Siamo tutti nella tempesta, nella stessa barca: nessuno è autosufficiente e padrone di sé stesso. Un messaggio forte, che dalla vulnerabilità non trae discorsi vecchio stile sul castigo divino o inviti alla flagellazione e all’ulteriore depressione, ma una invocazione allo Spirito perché aiuti coloro che stanno reagendo, in modo comunitario, mettendosi assieme, ai danni della tragedia cosmica. Questo messaggio a me appare forte e forse può mettere in carreggiata un modello per la pedagogia religiosa e per la risposta cristiana ai problemi del nostro tempo. Potremmo sicuramente anche dire che ci sono elementi di antropologia e di umanità tali da basare anche una prospettiva politica nuova. È però palesemente solo un inizio. Da qui a maturare una capacità politica di tradurre questo atteggiamento in scelte e  consapevolezze acute e prudenti, ce ne passa. Far nascere un progetto politico all’altezza dell’«epoca di cambiamento» che stiamo vivendo non è cosa cui basti buona volontà ed entusiasmo, né ricchezza di principi. Non sono sicuro che nel cattolicesimo italiano si stiano muovendo oggi risorse all’altezza di questa sfida, difficilissima per quanto entusiasmante.

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