“IL GREEN NEW DEAL È L’UNIONE DEL LAVORO E DELLA SALUTE”. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Ursula Von Der Leyen (ApPhoto)

Salario minimo, nuovo patto per l’immigrazione e salute al centro dell’agenda europea. Questo il discorso di Ursula von der Leyen al Parlamento europeo che ha aggiunto che “assieme al presidente Giuseppe Conte, in occasione della presidenza italiana del G20, organizzerò un vertice mondiale sulla sanità in Italia (con molta probabilità a Roma) e questo dimostrerà agli europei che l’Europa c’è ed è pronta a proteggerli. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, esperto di politiche europee e autore del recente Ripartenza Verde (Rubbettino Editore), qui già presentato.

Sabella, l’Europa con l’insediamento della commissione con der Leyen sembra aver cambiato passo. Qual è la sua opinione?

È come dice. Sin dall’inizio del suo mandato, la Commissione von der Leyen ha molto insistito sulla necessità di nuove politiche economiche fondate sul rilancio dell’industria e delle filiere produttive. La svolta, quantomeno nei programmi, si basa sull’idea condivisa che l’Europa ha bisogno di innescare un percorso di crescita sostenibile per generare un nuovo equilibrio economico e sociale. Tutto ciò passa dal miglioramento delle condizioni di lavoro, del ceto medio, certamente anche da un welfare più forte in ambito sanitario. Ma la differenza la farà la nostra capacità di rilanciare le produzioni. È questo il Green New Deal europeo.

Oggi tutti parlano di Recovery Plan, di Next Generation EU. È la nomenclatura che segue alla pandemia. Ma ben prima del covid-19, addirittura nell’ultimo anno della presidenza Juncker, l’Europa stava lavorando su un piano chiamato Green New Deal. Ci può spiegare meglio cosa si intende per Green New Deal?

La cosa curiosa è che l’espressione Green New Deal arriva dagli USA: nel 2019, infatti, i Democratici hanno proposto al Congresso un pacchetto così chiamato per far fronte ai cambiamenti climatici oltre che alla disuguaglianza economica, anche facendo leva sulla suggestione storica offerta dal New Deal di Franklin Delano Roosevelt che rispondeva alla grande crisi del ‘29. Ma negli Stati Uniti tutto ciò che ha a che fare con la questione ambientale – sebbene le industrie e molti Stati se ne interessino eccome – è uscito dall’agenda della Casa Bianca. E così, Green New Deal è diventato intento, per non dire programma, ben più condiviso in Europa e che potrebbe diventare anche fattore di un nuovo multilateralismo basato non solo sulle politiche ambientali ma anche su istanze che vanno dalla sanità, alle migrazioni e alla cyber security. In buona sostanza, il Green New Deal vuole fare i conti con le gradi trasformazioni del nostro tempo e ha tre grandi obiettivi, in linea con l’Agenda Onu 2030: 1) la riconfigurazione dell’economia globale; 2) il processo di digitalizzazione; 3) la salute dell’ambiente e il climate change. Poi naturalmente vi è un livello di dettaglio che conosceremo.

Si, non a caso Ursula von der Leyen ha parlato di salute e di salario minimo.

Il tema del salario minimo riporta al centro il tema del lavoro che tra l’altro è strettamente connesso a quello dell’industria. Ho delle perplessità quando in Europa si parla di salario minimo a meno che non si intenda dire che i Paesi che non ce l’hanno, tra cui il nostro, lo devono fare. Secondo me più che il salario minimo dovremmo occuparci della crescita dei salari, ad ogni modo al momento mi pare più una bandiera che altro. Il tema della salute invece è un tema importantissimo, primo perché rende onore a quanto il nostro sistema di welfare stia facendo la differenza – si guardi al caso USA ed è evidente – e poi perché non esiste salute dell’ambiente a prescindere dalla salute delle persone. Prima di tutto, l’ambiente sono le persone.

Lei insiste moltissimo sull’importanza del rilancio delle filiere produttive. Crede che sia questa l’aspetto che può far svoltare l’economia europea?

Esattamente. Guardi, ho un amico che mi dice: “o l’industria 4.0 o il sottosviluppo”. In poche parole è così. L’Europa oggi, grazie al Recovery Fund e al debito comune, ha un’occasione storica. E sono sicuro che i nostri partner europei sapranno cogliere questa opportunità. Speriamo di farlo anche noi perché altrimenti sarà davvero sottosviluppo. Del resto, è trascorso più di un trentennio in cui la politica si è preoccupata essenzialmente di rompere le barriere che ostacolavano la circolazione di capitali e beni nel mondo – cosa che non è una male di per sé, anzi… – senza rendersi conto che questo movimento aveva una direzione univoca verso il Sol Levante tanto da rendere la Cina un colosso e da consegnarci una situazione di impoverimento generalizzato dell’Occidente. Questo perché si è creduto che la ricchezza potesse essere il prodotto dei mercati e degli scambi. Ma nel favorire mercati e scambi, abbiamo permesso agli investitori di andare a cercar fortuna quasi esclusivamente nei paesi a basso costo del lavoro, così da causare un processo di deindustrializzazione che non ha precedenti.

È questa la ragione per cui l’Europa oggi riporta l’industria al centro dell’agenda politica?

Si. La produzione di manifatturiero e la sua quota di PIL corrispondente sono state in costante calo in Occidente; il baricentro industriale si è gradualmente spostato verso quelle economie in grado di offrire rapida crescita a bassi salari: non solo Cina, Asia più in generale, India ed Europa dell’est. Già negli anni ‘80 in Occidente il numero degli occupati nel comparto dell’industria calava dal 35% al 30%; negli anni ‘90 ancora giù al 24%. Oggi la Cina è il più grande paese manifatturiero del mondo (quasi un terzo sulla produzione manifatturiera mondiale), in forte miglioramento rispetto al 8,3% registrato nel 2000, davanti agli USA e ai grandi Paesi Europei (Germania, Italia e Francia). Tutto ciò, a Ovest, ha voluto dire crollo degli investimenti, indebolimento del lavoro e del potere d’acquisto, consumo sostenuto dal debito e bolla finanziaria che a un certo punto scoppia. E, negli anni della crisi, le economie occidentali hanno perso 13 milioni di posti di lavoro. Nel ventennio della prima globalizzazione sono stati circa 20 milioni i posti cancellati nel comparto industriale, quasi 1 addetto su 5. Oggi l’industria in Europa occupa il 15% dei lavoratori, in Italia il 17%. Da qualche anno, tuttavia, questa tendenza si è interrotta e – da questo punto di vista – la pandemia è un acceleratore del cambiamento. Senza contare il ritardo che abbiamo in termini di innovazione con USA e Cina. In particolare negli due ultimi anni, a seguito del forte rallentamento del commercio mondiale e della crescita stabilmente debole della UE, in Europa si è infatti preso atto del ritardo industriale rispetto a USA e Cina. Da una parte, tale ritardo è certamente dovuto all’assenza di una vera politica economica – a cui la Commissione vorrebbe appunto rimediare – soprattutto se si pensa a quanto coesi sono i mercati americano e cinese; dall’altra, è piuttosto evidente il gap che scontano le imprese europee sul piano tecnologico e, più in generale, dell’innovazione. Secondo il McKinsey Global Institute, infatti, l’85% degli investimenti in intelligenza artificiale è stato realizzato in aziende americane e cinesi. È ovvio che restare indietro sul piano dell’innovazione generi intoppi sul piano della competitività.

Per quanto riguarda la riconfigurazione della globalizzazione, cosa sta avvenendo e come si sta comportando l’Europa?

La globalizzazione sta cambiando verso, a dire il vero lo ha già cambiato negli ultimi tre anni per via del rallentamento del commercio mondiale e della sempre più crescente regionalizzazione dell’economia. Con i mercati americano e cinese che sanno essere rigogliosi per le rispettive produzioni, anche il mercato europeo deve trovare la giusta coesione, cosa che passa da una parte nell’upgrading della propria capacità produttiva; dall’altra, da una maggior protezione dei prodotti europei che risponda ai dazi americani e cinesi.

Lei sostiene che l’industria 4.0 sia il vero antidoto per la crisi climatica. Su cosa si fonda questa convinzione?

Se andiamo a vedere concretamente come stanno le cose, ci rendiamo conto che è proprio il processo di digitalizzazione che comporta una crescente e progressiva dematerializzazione dell’economia. Si intende dire, con questa espressione, che la digitalizzazione sta rendendo l’industria sempre più indipendente dalle materie prime. Come dice Andrew McAfee, capo ricercatore al MIT di Harvard, il progresso tecnologico ha cambiato pelle: computer, internet e tecnologie digitali ci stanno permettendo di dematerializzare produzioni e prodotti consentendoci di consumare sempre di più attingendo sempre di meno. Dematerializzare significa appunto conseguire una riduzione dell’uso di materie prime nell’economia, aumentando la produttività delle risorse naturali per unità di valore. E il digitale è il nuovo motore che rompe col paradigma dell’era industriale della macchina a vapore e dei suoi discendenti capaci di attingere dai combustibili fossili. Come siamo riusciti a ottenere di più con meno? Facciamo qualche esempio: nel 1959 la lattina della Coca Cola pesava 85 gr di alluminio, oggi pesa circa 10 gr; se consideriamo le automobili, i motori a combustione sono mediamente più piccoli del 40% rispetto agli anni ‘80; oggi in uno smartphone vi è il telefono, la calcolatrice, la macchina fotografica, la fotocamera, la radiosveglia, il registratore, il navigatore satellitare, la bussola, il barometro, etc. Tutto questo significa meno metallo, plastica, vetro, silicio rispetto ai dispositivi che sono stati rimpiazzati. Come si vede, le nuove tecnologie e in particolare il digitale, ci stanno rendendo sempre più indipendenti da Madre Terra. Poi c’è tutti il capitolo della transizione energetica.

E a che punto siamo con le energie rinnovabili?

Le energie rinnovabili giocano un ruolo strategico verso un futuro più sostenibile. Nella UE l’energia derivata da fonti rinnovabili ha raggiunto il 17% nel 2016. È parte degli obiettivi europei raggiungere il 30% di rinnovabili entro il 2030. Nel contenitore UE vi sono molteplici situazioni differenti: dagli Stati virtuosi come la Svezia con il 53,8%, la Finlandia con il 38,7%, la Lettonia con il 37,2%, l’Austria con il 33,5%, a Stati molto meno competitivi come Lussemburgo (5,4%), Malta e Olanda (6%). In Italia più del 18% del consumo totale di energia del Paese proviene da rinnovabili. Anche per quanto concerne l’economia circolare, In Italia si osservano progressi tra i migliori a livello europeo (49,4% di rifiuti riciclati sul totale) che ci avvicinano agli obiettivi del 2020 (50%). Oltre a ciò, è in costante diminuzione il consumo materiale interno per unità di PIL (meno 26% rispetto al 2010), cioè il consumo di risorse materiali effettuato in Italia.

Per concludere, come vede il futuro industriale di Europa e Italia?

Vedo molto bene il futuro industriale dell’Europa, non dimentichiamoci che l’Europa è piattaforma industriale quasi al pari degli USA, se non fosse che è rimasta indietro – come si diceva – sul piano dell’innovazione. Ma è molto determinata per recuperare questo gap, soprattutto perché molto determinati sono i tedeschi, cuore della produzione industriale nell’Unione. Anche la Francia, insieme alla Germania, farà ottime cose, ne sono convinto. L’Italia ha tutte le carte in regola per stare al passo con i suoi partner, anzi potrebbe essere la vera sorpresa di questo ciclo alle porte perché oltre ad essere molto integrata con la piattaforma tedesca è essa stessa piattaforma manifatturiera. I settori che traineranno la ripresa sono i soliti: meccanica di precisione, tessile, pellami, chimico, abbigliamento, calzature, computer, prodotti di elettronica, ottica, apparecchiature elettriche, manifattura di base, prodotti in legno. Ma le vere sorprese arriveranno dai settori più vicini all’innovazione. La mobilità è completamente stravolta non solo da car sharing e car pooling, ma anche dal fatto che ci si muoverà di meno, o almeno con destinazioni diverse. A ogni modo, l’auto elettrica sarà uno dei simboli del ciclo alle porte.

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