Dovevano arrivare il 30 novembre le firme per l’accordo che sancisce l’ingresso dello Stato nella gestione della ex Ilva di Taranto, ma tutto è stato rimandato all’11 dicembre. Ancora 10 giorni, quindi, in cui il futuro della grande acciaieria resta sospeso anche perché, dal 1 dicembre, Arcelor Mittal potrebbe far valere una clausola rescissoria e recedere dagli accordi. Comunque vada a finire, l’acciaio italiano torna sotto l’egida dello stato. Per fare il punto della situazione, ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0, che segue la vicenda Ilva sin dall’inizio della sua crisi.
Sabella, come mai la firma di questo annunciato accordo alla fine è slittata?
Naturalmente si tratta di un’operazione di una complessità elevata. Dal Governo fanno sapere che l’accordo c’è e che si tratta di limare qualche dettaglio in vista dell’incontro finale dell’11 dicembre. A ogni modo, non si doveva superare il termine del 30 novembre perché, in questo modo, Mittal ha un pretesto per tirare ulteriormente la corda, cosa che fa dall’inizio. Il governo in questo si è dimostrato debole, anche se dopo la revoca dello scudo penale – avvenuta per via parlamentare (ottobre 2019) – la frittata era fatta. Conte, Gualtieri e Patuanelli sono stati certamente bravi nell’arginare una situazione disperata dopo che Mittal aveva portato i libri in Tribunale. Ma dopo l’accordo del 4 marzo, bisognava stringere con Mittal e dettare le condizioni per la restart, senza superare questa linea di demarcazione molto pericolosa perché, appunto, ora la multinazionale franco-indiana può esercitare la clausola rescissoria presente nel contratto.
E secondo lei lo farà o, invece, si accorderanno come dicono dal governo?
Penso che si accorderanno, dall’inizio di questa crisi con Arcelor Mittal sostengo che l’azienda non ha motivo di andarsene: intanto, è vero che può esercitare la clausola rescissoria ma, comunque, dovrebbe corrispondere 500 milioni come penalità allo stato italiano. E non sono pochi. Ma, oltretutto, Mittal ha sempre avuto ciò che chiedeva al governo: sconti, alleggerimento dei propri impegni, ammortizzatori sociali… ora lo stato si appresta a formalizzare l’ingresso nel capitale con la sua controllata Invitalia, perché Mittal davanti a tanta convenienza dovrebbe uscire? Non credo lo farà, almeno nell’immediato.
Però dal 2022 le cose potrebbero cambiare, anche in ragione del previsto aumento di quote di Invitalia. Qual è il suo pensiero?
Questa è una delle criticità maggiori dell’operazione. Partiamo da qui: il governo italiano si sta accordando con Arcelor Mittal per partecipare al 50% –attraverso Invitalia – la società AM Italia. L’acciaio dell’ex Ilva torna così allo Stato 25 anni dopo il passaggio dell’industria siderurgica dall’Iri alla famiglia Riva (maggio 1995). È prevista questa divisione paritaria dell’Ilva tra lo Stato e ArcelorMittal almeno fino al 2022 quando scadranno i termini dell’affitto degli impianti: in quell’occasione, la nuova società partecipata da Invitalia non solo ne rileverà la proprietà, ma dovrebbe vedere il soggetto pubblico crescere le sue quote rispetto al privato, fino al 60%. Questo il punto che non comprendo: perché questa scalata? Che bisogno ha lo stato di far crescere le sue quote in AM Italia?
E lei che risposte si dà?
Nella migliore delle ipotesi, ciò va nella direzione di – ancora una volta – alleggerire gli oneri della famiglia Mittal e dell’investimento che aveva inizialmente garantito (2017) aggiudicandosi il bando di gara: stiamo parlando di quasi 4 miliardi di euro. Naturalmente, solo durante il primo anno di gestione Mittal si è resa conto per cosa realmente si era impegnata. E non vedevano l’ora di rompere quegli accordi tanto che con la revoca dello scudo penale gli abbiamo fatto un grande favore, gli abbiamo cioè consentito di ridiscutere tutto da capo. È chiaro che in una forma più conveniente non c’è questa fretta di lasciare Taranto, dove oggi non c’è più nemmeno un manager dell’azienda. C’è Lucia Morselli con un management tutto nuovo nominato da lei. È chiaro che a queste condizioni, il governo ha convinto la famiglia Mittal a rivedere la propria volontà di disimpegnarsi.
E nell’ipotesi peggiore?
Nella peggiore delle ipotesi, Mittal nel 2022 lascerà l’Italia. È vero che c’è tempo per riorganizzarsi, ma è questa un’ipotesi temibile per più ragioni: innanzitutto, siamo sicuri che vi sia un altro player privato disposto a subentrare? E poi, il rischio che Mittal andando via si porti con sé una buona parte del portafoglio clienti non è da sottovalutare. E, in ultimo, se Mittal lasciasse e non vi fosse nessun privato pronto al subentro, ma davvero crediamo che l’industria dell’acciaio possa essere nazionalizzata e gestita dallo stato? Ma non c’è bastato il recente commissariamento – dopo il sequestro alla famiglia Riva – per farci capire che lo stato non è in grado oggi di gestire questa complessità?
Mi pare di capire, tuttavia, che lei non è in disaccordo sull’ingresso dello stato nel capitale di AM Italia. O pensa che sia sbagliata questa operazione?
Che lo stato vada oggi in soccorso dell’economia – e quindi del privato – è ciò che sta avvenendo in tutto il mondo, anche negli USA. Aggiungiamoci anche che, approfittando dei fondi europei del Recovery Plan, il governo vuole fare della ex Ilva il simbolo del Green Deal italiano: l’idea non è sbagliata, Taranto resta uno dei poli industriali più importanti d’Europa, anche per via dello scalo. L’accordo tra Governo e Mittal va valutato quindi positivamente, per la svolta green – vi è coinvolta anche la società del gruppo Enel all’avanguardia nelle riconversioni industriali – e anche per gli effetti che comporta a livello occupazionale.
I sindacati però hanno avuto di che lamentarsi in questa fase. Quali sono i loro timori secondo lei?
I sindacati intanto assistono da tempo, senza poter fare nulla, al declino dello stabilimento di Taranto. Teniamo presente la loro difficoltà di gestire persone che sono esasperate tanto è lunga questa vicenda. Tuttavia, in questa fase lamentano il loro mancato coinvolgimento. È anche vero che il governo stava, e sta tuttora, trattando le condizioni di acquisizione di alcune quote con Mittal. Quindi, non è semplice coinvolgere le Parti in una situazione del genere. Però, da oggi, il sindacato deve maggiormente vigilare: intanto l’ingresso dello stato va a calmierare i problemi occupazionali, questo è elemento che non sottovaluterei. Se però si vuol dare un futuro al lavoro, bisogna che il sindacato si impegni e faccia la sua parte per creare quelle condizioni indispensabili al privato che investe nell’industria, sia esso Mittal o chi subentrerà. Il sindacato deve evitare che la ex Ilva sia nazionalizzata. Il pubblico non ha le giuste competenze per gestire l’industria, soprattutto in questa fase di potente trasformazione in cui persino i più grandi innovatori faticano a tenere il passo disruptive delle macchine che hanno inventato.