
vaccino covid-19 (Ansa)
Mentre una nuova ondata del contagio sta stressando in maniera diversa l’Europa intera, la Commissione è stata travolta dai ritardi delle Big Pharma più volte venute meno agli accordi presi con l’Unione. La politica comunitaria dell’acquisto dei vaccini doveva essere un pilastro del corso Von Der Leyen ma qualcosa è andato storto, tanto che ora c’è chi procede in modo autonomo (vedi Austria e Danimarca che produrranno i vaccini insieme a Israele ma anche i Paesi dell’area Visegrad che acquistano il vaccino da Russia e Cina). In questo quadro, la Commissione sta lavorando per potenziare l’industria farmaceutica e la sua capacità produttiva, progetto che vede l’Italia in prima linea. Proprio oggi, il Commissario Europeo all’industria Thierry Breton è a Roma e ha incontrato il Ministro dello sviluppo economico Giancarlo Giorgetti. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0.
Sabella, com’è andato questo incontro di stamattina tra Breton e Giorgetti?
Si è trattato di un incontro proficuo, del resto a Bruxelles c’è ampia contezza del ruolo importante che l’Italia può giocare a livello di riorganizzazione dell’industria europea, essendo il nostro Paese secondo solo dopo la Germania in termini di produzione manifatturiera e particolarmente eccellente proprio nel comparto della farmaceutica. A ogni modo, Giorgetti ha aggiornato Breton circa quello che concretamente potrà fare l’Italia, quanti impianti potrà attivare e in quanto tempo (informazioni ancora coperte da riservatezza). Il problema degli impianti per la produzione dei vaccini è un problema europeo e la mole di risorse del Recovery Fund serve proprio a ricostruire l’industria continentale con la finalità non solo di innovarla ma anche di rendere l’UE più indipendente da USA e Cina. Da questo punto di vista, Breton è stato infatti fra i primi a cogliere l’urgenza dell’autonomia vaccinale su scala europea, capendo le insidie della dipendenza dalle Big Pharma che oggi, ahimè, stiamo pagando.
Come si spiega questo incidente che oggi vede la Commissione Europea sotto scacco dalle Big Pharma?
Al di là del fatto che l’Unione in questa fase sta facendo una pessima figura perché questa è un’operazione che non doveva conoscere intoppi – cosa che ancora una volta alimenta come stiamo vedendo le spinte nazionaliste – non possiamo però non dire che Pfizer e Moderna sono inadempienti contrattualmente, al di là del fatto che qualcuno dica che non siano previste penali per le mancate consegne di vaccini. Io mi limito a dire che nessuno conosce quegli accordi perché sono secretati nei punti chiave. Il punto vero però è un altro ed è ciò che Breton ha capito benissimo: qui non è solo questione di Big Pharma, è questione che gli USA hanno investito 3,5 miliardi di dollari in finanziamenti per ricerca e preacquisti di vaccini. Come non vedere dietro questa inadempienza anche un aspetto politico? È ovvio che in questa fase complicatissima, gli USA – la cui campagna vaccinale sta funzionando meglio che in Europa – vaccinato il 15,8% della popolazione contro il 6,3% UE, fonte Ocse – pensino a loro. In questo senso, è ancora America First, al di là del fatto che Biden sarà più amico dell’Europa di quanto lo sia stato Trump. Chi prima uscirà dall’emergenza sanitaria, prima uscirà dall’emergenza economica. E in una fase di potente riconfigurazione della globalizzazione, nessuno fa favori a nessuno, se non per un interesse diretto. Come, per esempio, stanno facendo Russia e Cina.
Si riferisce ai vaccini Sputnik e Sinopharm?
Si, mi riferisco al fatto che Russia e Cina, che hanno meno problemi dell’Europa in capacità produttiva, attraverso la cessione dei loro vaccini proseguono nella loro politica di penetrazione in Europa.
Ma perché l’Europa si trova in questa situazione di scarsa capacità produttiva dei vaccini?
Perché nella sua politica industriale l’Europa non ha considerato che produrre vaccini era una cosa strategica. Non che l’industria farmaceutica in Europa sia debole, tutt’altro. Si pensi a colossi come Bayer, Novartis, Sanofi, ma anche alle nostre Menarini, Chiesi, Angelini, Dompé, Bracco, Zambon, etc. Il punto è che per produrre vaccini ci vogliono impianti specifici di cui al momento scarseggiamo. Ci stiamo pensando ora, meglio tardi che mai. L’errore vero è stato quello di non pensarci un anno fa. E le ragioni che dovevano spingerci a farlo sono diverse. Ma, sappiamo, l’Europa è una lenta burocrazia.
A cosa si riferisce in particolare?
Mi riferisco non solo al contingente problema della pandemia, non ne usciamo senza il vaccino. Ma, inoltre, il fabbisogno di vaccini potrebbe crescere anche in ragione di un mondo sempre più abitato dai microbi. A causa dello scioglimento dei ghiacciai, si stanno diffondendo virus debellati o sconosciuti: di recente, una ricerca condotta da scienziati statunitensi e cinesi ha infatti ritrovato virus sepolti nei ghiacci risalenti a circa 15 mila anni fa (studio pubblicato sulla rivista bioRxiv a gennaio 2020). Inoltre, ad aprile dell’anno scorso, la Società italiana di Medicina ambientale ha reso noto che tracce di coronavirus sono state ritrovate nelle polveri sottili: il particolato atmosferico trasporta quindi i microbi. Benché non sia rilevata l’efficacia del contagio per via aerea, a questo punto, in un mondo stressato dal problema dell’inquinamento, dobbiamo sempre più difenderci da virus e microbi. È questa la ragione per cui la ricerca in ambito farmaceutico negli ultimi 10 anni ha molto investito in questa direzione, cosa che ha probabilmente agevolato la realizzazione del vaccino per il Sars-Cov-2 a tempo di record.
Oltre che per aspetti di carattere sanitario, da un punto di vista industriale qual è l’importanza di questa operazione europea per il nostro Paese?
Intanto, predisporre impianti per la produzione del vaccino – ex novo o attraverso la riconversione degli stabilimenti che producono l’antinfluenzale – vuol dire non solo costruire un percorso di politica sanitaria ma generare condizioni per lo sviluppo di lavoro e occupazione. Pensiamo anche al fatto che sarà necessario produrre macchine come bioreattori e fermentatori, cosa che a loro volta genererà opportunità occupazionali. Questo significa rispondere ai bisogni emergenti. In questo quadro mi sembra interessante far notare anche che vi è un progetto del Cluster Alisei –
supportato da Farmindustria, Federchimica ed Eguaglia – di back reshoring (recuperò attività produttive) dalla Cina e dall’India che coinvolgerà circa 60 industrie e favorirà la creazione di 11.000 posti di lavoro (secondo i calcoli di Alisei), progetto che dà evidenza alla “riconfigurazione delle catene del valore” di cui si parla da tempo. in sintesi, la farmaceutica è l’inizio dell’attuazione del Recovery Plan in Italia, oltre che in Europa naturalmente.