Nella serata di ieri la procura di Taranto ha notificato una nuova direttiva all’Ilva perché avvii entro cinque giorni lo spegnimento degli impianti sottoposti a sequestro nell’ambito dell’inchiesta per disastro ambientale. Ma secondo il ministro dell’Ambiente Corrado Clini l’operazione è impossibile: “Lo spegnimento – afferma – non si può fare in cinque giorni perché si tratta di un impianto molto complesso, tant’è che la procura chiede l’avvio dei processi”. Clini annuncia anche che la presentazione dell’Autorizzazione integrata ambientale sarà pronta nei prossimi giorni. “Ho fiducia nella legge”, dice il ministro. Tra queste posizioni resta il dramma di una fabbrica e di una città. Una città che sta vivendo una “guerra tra vittime”. Per parlare di questo abbiamo intervistato Gianni Alioti, sindacalista della Fim-Cisl (responsabile dell’ufficio internazionale e dell’ufficio “ambiente e sicurezza”). Alioti è stato per anni Segretario regionale della Fim-Cisl della Liguria. E’ autore di due ricerche sulla Siderurgia: ha realizzato per l’Assessorato all’Ambiente del Comune di Genova uno studio su: Siderurgia e territorio. Il caso di Genova Cornigliano (1995) e un altro studio per il BIC Toscana:
La dimensione socio-economica della Val Cornia dove c’ è il sito siderurgico di Piombino (1996).
La settimana scorsa al Senato è stato convertito in legge il decreto sull’Ilva di Taranto. Sono stati stanziati 336 milioni di euro (329 pubblici e 7,2 privati) per favorire la riqualificazione ambientale. Secondo lei sono sufficienti per tentare di risolvere questa tragedia sociale, ambientale che colpisce gravemente la salute dei cittadini di quella città (i dati della Asl di Taranto riferiscono che i ricoveri ospedalieri per patologie oncologiche hanno fatto registrare, nel primo semestre del 2012, un aumento del 50% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno)?
Il provvedimento rappresenta solo una prima risposta “risarcitoria” dello Stato verso una città che ha pagato un prezzo altissimo…..e vive, oggi, una tragedia estrema. Non saremo qui a parlare di “disastro ambientale”, di dati impressionanti sul numero di tumori e di malattie cardio-respiratorie dovute all’inquinamento dell’Ilva, di migliaia di persone che rischiano di perdere il lavoro.
I soldi stanziati, e non poteva essere altrimenti, non riguardano né la messa in sicurezza degli impianti e le bonifiche del sito siderurgico, tantomeno gli investimenti in innovazione tecnologica di processo, necessari a rendere eco-compatibile la produzione di acciaio a Taranto. Risorse, queste, che devono essere garantite essenzialmente dal Gruppo Riva.
Parliamo dello stabilimento. Qualcuno, lo scrittore Dino Buzzati, aveva definito quella fabbrica una “cattedrale di metallo e vetro” che avrebbe reso “moderni gli uomini che venivano dai campi”. Parole di cinquant’anni fa. Si è continuato a produrre acciaio, praticamente, con lo stesso metodo di allora (è vero che vi sono state migliorie ma il processo produttivo è rimasto lo stesso). Insomma sia durante la fase “pubblica” che quella “privata” si è fatto poco o niente per portare la fabbrica su livelli tecnologici compatibili con l’ambiente. Eppure vi sono nuove tecnologie che possono far produrre acciaio con minore impatto ambientale. E’ una “utopia” la riconversione “ecologica” della fabbrica? Si può salvaguardare salute e lavoro?
Le parole di Buzzati esprimono bene l’idea di sviluppo e la fede nel progresso di quegli anni….Anche allora ci furono voci discordi all’insediamento del siderurgico, prima, e al suo raddoppio, dopo. Ma i più vivevano l’industrializzazione del territorio, come un’opportunità di lavoro per i giovani, come fine dell’emigrazione, come riscatto sociale e politico. C’era, quindi, un alto grado di accettabilità sociale e istituzionale dell’inquinamento come “male minore”. Del resto non c’era la reale percezione dei danni all’ambiente e alla salute, che solo il tempo avrebbe manifestato…E il siderurgico, in fondo, rappresentava un’importante fonte di reddito – diretta e indiretta – per decine di migliaia di famiglie. Era una forma “accettata (o subita)” di monetizzazione del rischio ambientale. Fenomeno comune a molti centri industriali, non solo Taranto. Ciò che fa la differenza tra Taranto e le altre realtà siderurgiche è la dimensione dell’impianto e, quindi, l’estensione dell’impatto ambientale e l’incidenza delle malattie correlate al processo produttivo. Pensiamo, ad esempio, ai parchi minerali……montagne di carbone e minerale di ferro esposte ai venti e tra le fonti principali d’inquinamento. Ma non solo (e qui entriamo nel campo delle responsabilità).
A Taranto, lo Stato prima e i Riva poi, non hanno realizzato alcun rilevante cambiamento del ciclo di lavoro. Il processo tecnologico di trasformazione del minerale di ferro in rotoli di acciaio (in inglese coils), destinati ai produttori di auto o elettrodomestici, ha continuato a seguire lo stesso flusso di sempre: cokeria e agglomerato – altoforno e acciaieria – laminazione a caldo e a freddo…….E, in alcuni casi, come per l’agglomerato, con le “peggiori tecniche disponibili”, come la sinterizzazione del minerale (principale fonte delle emissioni di diossina e metalli pesanti). Tecnica in disuso sostituita dai pellets di ferro, sin dai tempi dell’Italsider, negli altri centri siderurgici a ciclo integrale presenti in Italia: Bagnoli e Cornigliano (ora dismessi), Piombino e Servola (oggi Lucchini).
Le tecniche e gli impianti per eliminare o contenere alla fonte le emissioni di sostanze ad alto rischio cancerogeno e leucemico esistono, non sono quindi un’utopia. Innovazioni come la “riduzione diretta” (DR) e la “fusione diretta” (SR) sono sempre più impiegati in siderurgia. Questi processi emergenti, progettati da importanti società di engineering, utilizzano gas naturale o carbone naturale come agente riducente del minerale di ferro. Non richiedono, pertanto, né la produzione di coke metallurgico, né la sinterizzazione del minerale di ferro, né la produzione di ghisa in altoforno. In pratica tutti gli impianti che – insieme ai parchi minerali – hanno portato all’ordinanza di custodia cautelare per disastro ambientale dell’Ilva di Taranto.
Se da una parte vi sono evidenti responsabilità aziendali, Riva ha guadagnato quello che ha voluto sull’acciaio, ha fatto pochi investimenti per ridimensionare i rischi per la salute dei cittadini. Le chiedo il Sindacato confederale, che a Taranto è diviso, è stato all’altezza della grande sfida di tutelare il lavoro insieme alla salute?
Nel rispondere a questa domanda so già che susciterò reazioni tra i miei colleghi sindacalisti, del tipo “io ho detto, io ho fatto…..”. La dimensione del dramma tarantino e la complessità della soluzione, sono sotto gli occhi di tutti…..
Dopo anni, quindi, di negligenza e ottusità (fino a casi di collusione) degli uomini delle istituzioni e della politica e di ostinata insensibilità e responsabilità imprenditoriale, c’è bisogno – anche come sindacati – di un auto-esame delle nostre colpe. Ciascuno dovrà riflettere sulle proprie, ma non è più socialmente accettabile l’ipocrisia di coloro che, di fronte a una tragedia come quella di Taranto, non riconoscono i propri errori e non si assumono la loro quota parte di responsabilità. Anch’io, come responsabile per la Fim-Cisl dell’ambiente, salute e sicurezza (oltre che dell’ufficio internazionale) ho le mie colpe e mi sento sconfitto. Ma non penso di aver perso. Come diceva “il Che”, l’unica lotta che si perde è quella che si abbandona. E non ho mai rinunciato a lottare, nella mia esperienza operaia e sindacale, per coniugare il diritto al lavoro con il diritto alla salute, il futuro dell’industria con il rispetto dell’ambiente.
Abbiamo, come sindacati confederali (e di base), il dovere di riportare speranza tra i lavoratori. All’Ilva di Taranto la migliore difesa del lavoro e del futuro della produzione d’acciaio è essere ambientalisti. Nella sua intensa attività sindacale l’avvocato reggiano Camillo Prampolini, fondatore nel 1892 del Partito dei Lavoratori Italiani e del successivo Partito Socialista, sosteneva: “Uniti siamo tutto, discordi siamo nulla”.
Il ruolo della magistratura, nel campo dell’ambiente e sicurezza del lavoro, è stato un ruolo, in questi anni, positivo. Sono state usate parole forti contro i giudici. Anche da parte di alcuni sindacalisti. Eppure dopo le sentenze sulla ThyssenKrupp ed Eternit non c’è più spazio per l’impunità…
La Fim-Cisl, nelle persone che seguono la vertenza Ilva a livello nazionale e tarantino, non ha mai contrastato né messo in discussione le prerogative della magistratura e, tantomeno, la sua autonomia. Altri l’hanno fatto e se ne assumono il peso.
Affermare, invece, che non è industrialmente e socialmente sostenibile che, al sequestro cautelativo degli impianti, si accompagni la chiusura di tutta l’area fusoria di Ilva di Taranto, fa parte della nostra autonomia sindacale (altrettanto legittima) di giudizio, di proposta e di azione. Mimmo Panarelli, segretario della Fim-Cisl di Taranto l’ha spiegato nell’incontro che ha avuto con il procuratore capo Franco Sebastio. Quei magistrati di Taranto che lavorano con professionalità, coraggio, senso di responsabilità e consapevolezza dell’effetto dei loro provvedimenti, meritano rispetto.
Le 303 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare affermano che Riva ha continuato a inquinare anche dopo il 1995. “[…] Era perfettamente al corrente di tutte le gravi lacune e disfunzioni che caratterizzavano lo stabilimento a livello di prestazioni ambientali […] Si è comportato come se il problema non esistesse”. E, in ogni caso, Riva con l’acquisizione di Ilva nel 1995, ha assunto sul piano giuridico anche le responsabilità precedenti alla sua gestione.
Anni fa il gigante industriale ABB, ha dovuto, ad esempio, vendere alcuni asset del Gruppo per assicurare l’ammontare dei risarcimenti (oltre un miliardo di euro) dovuti alle vittime dell’amianto e ai lavoratori esposti fino all’inizio degli anni’70 nella sua controllata americana Combustion Engineering. Nonostante quest’ultima fosse stata comprata nel 1989. Negli USA si stima in oltre 200 miliardi di dollari quanto pagato dalle imprese (molte di loro costrette al fallimento) per i risarcire i danni alla salute a causa dell’amianto.
La città sta vivendo una “guerra tra vittime”, così il Vescovo di Taranto. Taranto segna il fallimento di una certa visione clientelare dello sviluppo. Può partire da Taranto una nuova idea di sviluppo?
Il Vescovo di Taranto ha espresso una posizione forte e autorevole per evitare le lacerazioni della città tra diritto al lavoro e diritto alla salute. Per rendere credibile questa strada le emissioni inquinanti del siderurgico vanno contenute subito. Con urgenza. A partire da cokerie, agglomerato, altoforni e parchi minerali. E’ necessario lavorare in fretta per tutelare la salute dei lavoratori e dei cittadini di Taranto. A cominciare dagli abitanti del rione Tamburi. Bonificare, risanare in senso ambientale gli impianti, innovare il processo produttivo non solo manterrebbe il personale Ilva al lavoro, ma indurrebbe nuovo lavoro per migliaia di persone.
Immaginare oggi un futuro per Taranto è possibile. Significa immaginare un nuovo modo di produrre acciaio. Con le migliori tecnologie disponibili. Con la partecipazione dei lavoratori e il controllo della città. Con una transizione verso il superamento di cokerie e agglomerato (eliminando alla fonte benzene, benzo(a)pirene, diossine e idrocarburi policiclici aromatici). Attraverso impianti di riduzione diretta del minerale di ferro. Coprendo i parchi minerali. Rimodulando le produzioni. Continuando con gli altoforni recentemente rifatti, spegnendo e smantellando quelli obsoleti, da sostituire con nuovi impianti di riduzione o fusione diretta. Valutando la possibilità di convertire la produzione di due milioni di tonnellate d’acciaio dal ciclo integrale a quello elettrico (utilizzando il rottame).
Sostenere l’eco-sostenibilità dell’industria non significa dare una mano di verde ai nostri discorsi. E’ un concetto che include l’uso efficiente delle risorse naturali (minerali, metalli, energia, biomasse, acqua, suolo), l’eliminazione e la riduzione nel rilascio di sostanze inquinanti, la riduzione e il riciclo dei rifiuti. In altre parole “fare di più con meno”.
Le risorse necessarie non possono costituire un alibi. Vanno trovate. E rese disponibili dai corresponsabili del disastro ambientale e delle morti correlate all’inquinamento del siderurgico. Istituzioni – nessuna esclusa – e Riva.