CRISI CHIP E MATERIE PRIME: BIENNIO DIFFICILE PER L’EUROPA MA MENO PER L’ITALIA. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Intel (MIGUEL RIOPA/AFP via Getty Images)

Intel (MIGUEL RIOPA/AFP via Getty Images)

Com’è noto, è stata presentata qualche giorno fa un’indagine sulla componentistica automotive italiana realizzata dalla Camera di commercio di Torino, dall’Anfia e dal Center for Automotive and Mobility Innovation dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. È emerso che la carenza dei semiconduttori provocherà un calo della produzione di auto in tre anni di oltre 14 milioni di veicoli: 4,5 milioni quest’anno, 8,5 milioni nel 2022 con una coda di 1 milione nel 2023. Si tratta di numeri rilevanti anche alla luce della transizione all’auto elettrica che si aggiungono alla crisi delle materie prime e all’aumento dei prezzi di energia, gas, carburanti etc., fenomeni che stanno spingendo l’inflazione su livelli di guardia e che rischiano di compromettere la ripresa europea. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0.

Direttore, cosa sta succedendo proprio ora che la macchina del Next Generation EU si è messa in moto?
Come abbiamo visto in precedenza (http://confini.blog.rainews.it/2021/09/10/la-prosperita-comune-di-xi-jinping-e-la-possibile-soluzione-alla-crisi-delle-materie-prime-intervista-a-giuseppe-sabella/), la crisi di microchip e materie prime si spiega non solo con la forte ripartenza delle produzioni e dell’economia, ma anche con il disallineamento dei diversi lockdown mondiali. Si pensi, ad esempio, a quel grande fornitore che è il Vietnam, che oggi è in lockdown. Quando ci siamo fermati noi, si è fermata la Germania perché gran parte della nostra componentistica e utensileria va lì. Inoltre, vi sono elementi che hanno che fare con la riconfigurazione della globalizzazione: la Cina lo scorso anno, approfittando del lockdown generalizzato e del calo dei prezzi, ha comprato materie prime ovunque. C’è chi dice per fare scorta, ma secondo me a Pechino sono consapevoli del fatto che l’Europa è concentrata sul consolidamento del suo mercato. Solo così, infatti, il Next Generation EU può avere successo. E ciò non può non avere riflessi sulla penetrazione nel MEC del prodotto made in China. Ecco che allora la Cina – che vale più di 1/3 della produzione manifatturiera mondiale – avendo acquistato materie prime in tutto il mondo si è rafforzata e ha allo stesso tempo indebolito l’Europa, costringendola a comprare a prezzi notevolmente aumentati, come del resto fa anche la Russia col gas.

Quindi l’Europa è il grande malato di questa fase?
Sicuramente l’Europa è la macroregione che più sta soffrendo nonostante, tuttavia, il problema sia di tutto il mondo. Certamente gli USA sono più autonomi di noi, come del resto sono stati più accorti nelle delocalizzazioni. L’Europa non ha avuto una strategia condivisa dagli stati membri e, di conseguenza, ha perso autonomia su molti fronti. Lo abbiamo visto, drammaticamente, con le mascherine e lo vediamo anche con i vaccini. L’Europa è infatti l’unico grande Paese che non ha un proprio vaccino ma lo importa: gli USA ne hanno 3 (Pfizer, Moderna e Johnson and Johnson), la Cina ha Sinopharm, la Russia ha Sputnik, la Gran Bretagna ha AstraZeneca. Non siamo così ricchi di materie prime come gli USA e quindi, per certi versi, stiamo subendo questa situazione senza grandi colpe. Ma su microchip e semiconduttori non si doveva arrivare a questo punto: si è persa completamente autonomia produttiva su componenti indispensabile a qualsiasi circuito elettronico e digitale, finendo col dipendere dalle economie con cui competiamo.

In questo senso è interessante il progetto del governo italiano di favorire l’insediamento di una fabbrica di microchip di Intel. Come possiamo valutare questa operazione?
È questa, senza dubbio, un’iniziativa interessante che il governo italiano ha preso, forte anche dei rapporti che Draghi ha con gli USA. Si evince un’azione di carattere sovranazionale, come del resto quella che ha portato a Stellantis. Ed è questa la strada giusta per rafforzare il manufacturing europeo. Teniamo conto che Italia, Francia e Germania insieme valgono quasi quanto gli USA in termini di produzione manifatturiera mondiale. Ma, in generale, l’Unione deve pensare a colmare il suo ritardo tecnologico che ha con gli USA e, soprattutto, con la Cina, processo che comunque è in corso. Tornando a Intel, in Italia dovrebbe avviarsi un impianto di packaging (o “confezionamento”) dei microchip, l’ultimo anello della catena che porta al prodotto finito. La megafactory vera e propria, quella dove si costruiranno i chip, sarà probabilmente in Germania, ma anche la Francia ha possibilità di aggiudicarsela. Per quel che riguarda l’impianto di packaging, anche la Polonia è in lizza insieme all’Italia. Torino (Mirafiori) e Catania le due possibili destinazioni del sito produttivo Intel.

A proposito di Mirafiori, il settore dell’automotive denuncia un forte rallentamento, che ricadute può avere sull’economia italiana ed europea?
I numeri sono preoccupanti e, come sappiamo, il settore dell’auto è nevralgico per le economie avanzate. Oltre l’indagine a cui lei si è riferito, mi sembra interessante quanto rilevato da Standard&Poor’s: quest’anno si produrranno circa 5 milioni di auto in meno, assestandosi a 80 milioni di auto prodotte, per poi salire a 84 milioni nel 2022. La cosa interessante è che, sempre secondo l’agenzia di rating, nel 2023 la crisi dei microchip sarà superata e la produzione mondiale potrebbe tornare a regime attorno ai 90 milioni. Per quanto riguarda Italia ed Europa, è evidente come il nostro Paese stia soffrendo meno di Germania e Francia, paesi in cui l’industria dell’auto è sicuramente più dominante, basta andare a vedere le ultime stime di Ocse e FMI, ma sono curioso di vedere le prossime che saranno diffuse a breve.

In prospettiva, l’UE come può evitare di ritrovarsi in una situazione similare?
Certamente si possono prevenire alcuni mali ma, come dicevo prima, vi sono fattori che non sono controllabili: per esempio, la pandemia e i suoi lockdown per giunta disallineati, sono fattori straordinari. Tuttavia, l’Europa con il suo programma Green Deal intende rispondere alla riconfigurazione della globalizzazione e raggiungere più autonomia da un punto di vista industriale. Inoltre, si tenga presente che circa un mese fa, intervenendo al Parlamento europeo per il suo secondo discorso sullo Stato dell’Unione, la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen non solo dava centralità al problema della produzione di chip e semiconduttori, cuore di qualsiasi infrastruttura tecnologica; Von der Leyen ha parlato anche della costruzione di un Global gateway, ovvero di una via di accesso globale che riesca a garantire quegli approvvigionamenti di cui l’Europa ha bisogno e che si ponga come alternativa verde e democratica alla “Via della Seta” cinese, senza i quali il Green Deal non può vivere. Per la prima volta, Bruxelles identifica nella Cina un rivale strategico. Mi sembra un passaggio importante. In questo senso, si tenga presente che la Germania è tuttora il più importante partner commerciale di Pechino. Ma, evidentemente, qualcosa sta cambiando.

Come si spiega, in questa fattispecie, la resilienza del sistema produttivo italiano e la miglior performance, per esempio, rispetto a Germania e Francia?
In effetti le stime degli organismi internazionali continuano a vedere la crescita italiana superiore a quella tedesca e francese e, anche, alla media europea. Siamo certamente in presenza di un fenomeno che ha le sue tipicità, diverso – per esempio – dalla contrazione provocata dalla crisi del 2008. In quella fase, le economie in cui la grande impresa è più presente si mostravano più resilienti mentre soffrivano moltissimo, pur per ragioni diverse, le economie trainate dalla piccola impresa come Italia, Spagna e Grecia. Per i paesi dell’area mediterranea gli anni della crisi furono uno tsunami: in Spagna andarono persi quasi 3,5 milioni di posti di lavoro, in Italia 1,2 milioni, in Grecia 1 milione ma su una popolazione complessiva molto più piccola. La Germania, al contrario, mostrava molta capacità di resilienza, riuscendo addirittura a creare occupazione (+1,8 milioni posti di lavoro). Ora la dinamica è completamente diversa. Perché? Credo che la risposta sia questa: siamo in presenza di un fenomeno atipico, di un rallentamento dell’economia dovuto ai lockdown ma non a una recessione. In questa fase, in cui si uniscono fattori di trasformazione potenti, il piccolo si mostra più veloce del grande. L’Italia, ad esempio, è su livelli di produzione industriale che equivalgono al periodo che precede la pandemia. Non così Francia e Germania. Naturalmente, questo non significa che va tutto bene: il nostro Paese soffre meno degli altri la situazione attuale ma deve crescere la sua capacità, in particolare, di gestire i flussi occupazionali: la transizione ecologica ed energetica ci chiederà di ricollocare e di riqualificare una parte consistente di lavoratori e lavoratrici. Non siamo stati capaci in 20 anni di far funzionare le politiche attive del lavoro, questo è il nostro punto debole: auguriamoci che non sia questo a rallentare la nostra crescita.

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