La via esigente dell’economia giusta

L’ultimo libro, scritto durante la sua malattia che l’avrebbe ucciso nell’aprile di quest’anno, di Edmondo Berselli. Il titolo è impegnativo, “L’economia giusta” (uscito per i tipi dell’Einaudi), e vuole essere un atto d’accusa lucido, essenziale all’imbroglio, così lo definisce l’autore, liberista.

Questo saggio, scrive il politologo Ilvo Diamanti, “non va considerato una “eredità”. Un lascito postumo. Ma un contributo “vivo” e attuale al dibattito sul nostro futuro”.

Berselli, grande giornalista (è stato editorialista di Repubblica e dell’Espresso, nonché per sette anni Direttore della prestigiosa rivista il Mulino), è stato una delle poche menti eclettiche di questo sfortunato Paese. Memorabili i suoi libri su Mariolino Corso (“Il più mancino dei tiri”) e i “Sinistrati” (sulle sventure politiche del Partito Democratico).

Con la stessa lucidità con cui ha analizzato la politica e la società italiana ora ci offre, con questo libro, in poco meno di un centinaio di pagine, una analisi di quello che è stata la grande ubriacatura liberista e monetarista nella società contemporanea.

Ubriacatura che ha fatto sì che il concetto di “economia giusta” (ovvero segnata dal principio della distribuzione equa della ricchezza), sognata da Marx e dalla Dottrina sociale della Chiesa, venisse abbandonata, in questo decennio, per inseguire il miraggio della ricchezza immediata, ovvero quella della speculazione finanziaria: “Nella società fordista veniva considerato equo che il presidente o l’amministratore delegato di una grande impresa guadagnasse trenta volte lo stipendio di un usciere. Oggi, o soltanto fino a ieri, si considerava normale che lo stipendio di un grande manager ammontasse da tre a quattrocento volte la retribuzione di un impiegato di basso livello”. Ed è proprio il grande tema della redistribuzione equa dei redditi che ha fatto grande il modello renano di capitalismo (Ovvero l’economia sociale di mercato, nata in Germania durante il secondo dopoguerra, che si e’ sviluppata in tutta Europa) rispetto a quello nordamericano.

Oggi questo “compromesso” sociale è in grande crisi. Resta il fatto, però, che questo è la grande eredità, positiva, dell’Europa rispetto al resto del mondo.

E allora qual è la via, secondo Berselli, per ricostruire un percorso di “economia giusta”? E’ qui la via si fa molto esigente, una vera e propria “metanoia” (conversione) quella che auspica l’autore che passa per la messa in discussione della “crescita”:

”Nel frattempo, noi europei proveremo a vivere sotto il segno meno: meno ricchezza, meno prodotti, meno consumi. Più poveri insomma (…). La scelta è fra essere poveri nella consapevolezza della propria condizione storica e antropologica, da un lato, e dall’altro essere poveri nell’assoluta inconsapevolezza di ciò che è avvenuto, nella sorpresa dell’indicibile, e quindi soggetti a tutte le frustrazioni possibili. Occorre accingerci a costruire una cultura, forse non della povertà, bensì della minore ricchezza. Di un benessere più limitato, e sapendo che questo minor benessere si ripercuoterà su ogni aspetto della nostra vita”. Quindi – conclude Berselli – “dovremo adattarci ad avere meno risorse. Meno soldi in tasca. Essere più poveri. Ecco la parola maledetta: povertà. Ma dovremo farci l’abitudine. Se il mondo occidentale andrà più piano, anche noi dovremo rallentare. Proviamoci, con un po’ di storia alle spalle, con un po’ d’intelligenza e d’umanità davanti”.

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