Pecorelli continua a far paura. Intervista a Raffaella Fanelli

Le indagini sull’omicidio di Mino Pecorelli, riaperte nel febbraio del 2019 dopo l’inchiesta giornalistica di Raffaella Fanelli, sono ancora in corso. E mentre la Procura di Roma indaga, la giornalista mette in fila nel suo libro “La Strage Continua”, edito da Ponte alle Grazie, elementi inediti che fanno emergere, attraverso fonti archivistiche, fonti giudiziarie e testimonianze esclusive, una pista nuova, mai battuta. Tanto che l’avvocato Giulio Vasaturo, legale della Federazione Nazionale della Stampa, costituita parte offesa accanto ai familiari di Mino Pecorelli, ha chiesto l’acquisizione del libro di Raffaella agli atti dell’inchiesta.
La sensazione che si avverte, in tutte le pagine de “La Strage Continua”, è quella di essere davanti all’assassino di Mino Pecorelli. Una sensazione accentuata dal fatto che quello che dovrebbe essere un saggio in realtà è un libro di inchiesta scritto come un romanzo giallo dove, a raccontare il misterioso cold case, sono due giornalisti, due voci che si incrociano in uno studio radiofonico, in tempi di coronavirus. Due personaggi reali come le indagini e i depistaggi riportati nel libro.
“L’ultimo risale a poche settimane fa – denuncia la Fanelli – Un insospettabile ha avvicinato il legale della famiglia Pecorelli nel tentativo di riportare l’inchiesta indietro di 40 anni. Su una pista battuta e archiviata nei primi anni ’90 e che indicava in William Aricò il killer del giornalista. Un killer già defunto, condannato per aver ucciso con tre colpi di pistola l’avvocato Giorgio Ambrosoli, il liquidatore delle banche di Michele Sindona. Le indagini condotte da Gherardo Colombo, all’epoca giudice istruttore, dimostrarono che le accuse arrivate ad Aricò da una relazione dei servizi americani, erano infondate: Aricò e il suo picciotto Rocco Messina non erano in Italia il 20 marzo del 1979 quando fu ucciso Mino Pecorelli. Ora c’è da chiedersi il perché arrivi questa assurda testimonianza proprio oggi che l’inchiesta è stata riaperta. Un’inchiesta che porta a personaggi ancora vivi e vegeti. A proposito di questa relazione dei servizi americani si potrebbero ricordare le minacce di Kissinger a Moro o, ancora prima, la misteriosa telefonata che bloccò il golpe Borghese fino alla strana presenza di Steve Pieczenik nel comitato di esperti chiamati a “gestire” l’emergenza scaturita proprio a seguito del sequestro dell’onorevole Aldo Moro… D’altronde anche Sindona e Aricò sono morti in strane circostanze: il primo si sarebbe suicidato bevendo un caffè al cianuro l’altro sarebbe precipitato nel vuoto nel tentativo di evadere dal Metropolitan Correctional Center di Manhattan insieme a un trafficante colombiano di cocaina. A dispetto di questo insospettabile militare che è già intervenuto in altre inchieste, resto convinta che il killer di Pecorelli non vada cercato sottoterra, men che meno all’estero – dove credo ci sia ben altro – ma in casa nostra. In un Paese che proprio in quel ventennio di stragi e omicidi avrebbe potuto costruire un presente diverso.

Chi ti ha portato sulla strada di Mino Pecorelli?  Un personaggio molto complesso…
A portarmi sulla strada di Mino Pecorelli sono state le dichiarazioni, forti e spiazzanti, di Maurizio Abbatino sul caso Moro. L’ex boss della banda della Magliana, durante una lunga intervista, mi ha parlato di una richiesta arrivata dall’onorevole Flaminio Piccoli: rintracciare il covo dove le Brigate Rosse tenevano prigioniero Aldo Moro. Un’informazione che, stando alle dichiarazioni di Abbatino, fu riportata allo stesso Piccoli pochi giorni dopo, durante un incontro sul lungotevere, nei pressi di Ponte Marconi. Difficile immaginare l’onorevole accanto ai due boss fondatori della banda, Maurizio Abbatino e Franco Giuseppucci. Difficile pensare che i due criminali avrebbero potuto, con i loro uomini, liberare Moro. Nella frenetica ricerca di riscontri, fra faldoni ricchi di documenti e informazioni ho ritrovato un verbale di interrogatorio di Vincenzo Vinciguerra, neofascista di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. Era infilato in uno dei tanti fascicoli intestati al sequestro e all’omicidio dell’onorevole Aldo Moro. In cima a quel verbale c’era il nome di Mino Pecorelli.

Cosa riportava esattamente quel verbale?
Riportava le dichiarazioni di Adriano Tilgher, fondatore con Stefano Delle Chiaie di Avanguardia Nazionale, su un presunto ricatto di Domenico Magnetta, altro avanguardista che, stando al verbale di Vinciguerra, avrebbe detenuto le armi del gruppo, inclusa la pistola usata per uccidere il giornalista Mino Pecorelli. Magnetta che è poi la persona arrestata con Massimo Carminati nel 1981 avrebbe ricattato i vertici di Avanguardia perché lo aiutassero ad uscire dal carcere. In caso contrario avrebbe tirato fuori la pistola usata per uccidere Pecorelli. Il verbale è del 27 marzo 1992 e ad interrogare Vinciguerra, all’epoca detenuto nel carcere di Parma, è il giudice Guido Salvini.   I fatti raccontati si riferiscono a dieci anni prima, al novembre del 1982. Tutti gli elementi e le date riportate da Vinciguerra in quel verbale corrispondono: Vinciguerra era detenuto nella stessa cella di Adriano Tilgher. Erano amici, camerati, si conoscevano da anni. Quindi ci sta che Tilgher parlasse del “problema Magnetta” con Vinciguerra. E’ importante dire che tutte le dichiarazioni di Vinciguerra sono state corroborate dalle indagini del giudice Guido Salvini. Che Vinciguerra non è un collaboratore di giustizia e che non ha mai cercato sconti di pena. Mai benefici. Vinciguerra non ha mai mentito.

Il titolo del libro è la chiave di lettura del tuo lavoro, lo riprenderemo alla fine. A chi ti sei ispirata?
A una copertina abbozzata e mai pubblicata rinvenuta nell’auto di Mino Pecorelli la notte del 20 marzo 1979, poche ore dopo l’omicidio. Un foglio con appunti riportati a matita e con uno strillo centrale che Pecorelli avrebbe utilizzato: “La strage continua”. Perché di stragi stava scrivendo e sulle stragi stava investigando.

Veniamo al contenuto del libro. Tu scrivi: “Per parlare di lui non si può non parlare del nostro Paese, perché la biografia del giornalista è in qualche modo la biografia dell’Italia del ventennio 1960-1980”. Un’Italia devastata dalla strategia della tensione. E fra le tante cose inedite presenti nelle tue pagine ci sono le interviste a protagonisti di quegli anni, da Franco Freda a Gianadelio Maletti. Cosa ti hanno raccontato?
A Franco Freda ho chiesto degli incontri che Giovanni Ventura ha avuto con Mino Pecorelli a fine 1978, poco prima della sua evasione e pochi mesi prima di quel 20 marzo… A Gianadelio Maletti, invece, ho chiesto di Piazza Fontana, del Golpe Borghese e di Licio Gelli. Ma ci sono anche le risposte dell’assicuratore calabrese Vincenzo Cafari, dello stesso Tilgher, di Domenico Magnetta e di Vincenzo Vinciguerra, oltre che di Antonio Ugolini, il perito che denuncia la manomissione dei reperti del caso Pecorelli. Nel libro manca la testimonianza del generale Pasquale Notarnicola che ho raccolto solo di recente.

Pasquale Notarnicola è stato direttore della prima divisione del Sismi, e ha testimoniato nel processo per la strage di Bologna …
Esattamente. Il generale non ha escluso il coinvolgimento di uomini dei servizi nell’omicidio del giornalista, e ha ricordato che poco prima di quel 20 marzo iniziarono a seguirlo. A spiarlo, a controllarlo anche telefonicamente. Tanto che andò nell’ufficio di Giuseppe Santovito minacciando denunce. La sera dell’omicidio Pecorelli, con sospetta tempestività, fu avvisato del delitto. La telefonata arrivò sull’utenza privata del generale e fu fatta da un ufficiale responsabile di “osservare i fatti del Medioriente”. Il generale Notarnicola ha dichiarato che nei mesi successivi fu sempre più emarginato e che tale restò fino alla vigilia della strage di Bologna.

Chi era Mino Pecorelli? Condividi che era un “ribelle di Palazzo” (definizione di Aldo Giannuli)?
Era un ribelle, indubbiamente. Ho scoperto tanto della sua vita parlando con i figli, Andrea e Stefano, e con Rosita Pecorelli, la sorella del giornalista. Durante la seconda guerra mondiale ha combattuto nell’armata polacca che ha contribuito alla liberazione dell’Italia dai nazifascisti. Mino Pecorelli aveva solo 17 anni quando raggiunse le truppe del generale Wladyslaw Anders e fu arruolato nella compagnia Hastoio, il plotone schierato in prima linea nella terribile battaglia di Monte Cassino. Fu decorato con la croce di ferro, la massima onorificenza polacca. Avvocato specializzato in diritto fallimentare lasciò la toga per l’ufficio stampa di Egidio Carenini, all’epoca vicesegretario amministrativo della Democrazia Cristiana. E nel partito strinse rapporti e amicizie, finché non diventò addetto stampa di Fiorentino Sullo, ministro per le Regioni nei governi Moro. Perché Pecorelli non fu mai fascista né mai comunista, ma un democristiano puro, profondamente radicato in una Dc che doveva tener conto di tante personalità, di troppi equilibri e di infiniti legami. Democristiano fu Pecorelli e democristiano fu il settimanale Op, il suo Osservatore Politico.

Pecorelli, con le sue inchieste, come abbiamo visto, ha messo a nudo i torbidi intrecci del potere. Era consapevole dei pericoli che correva la sua vita? Perché non chiese una scorta?
Era consapevole dei rischi, stando ai ricordi di chi lavorava con lui e della sorella Rosita. Eppure ha continuato a scrivere e a denunciare: nei vari archivi ho raccolto i numeri di Op, la grafica non sarà stata delle migliori ma i contenuti erano davvero inquietanti, non so quanti giornalisti oggi avrebbero il coraggio di pubblicare le sue inchieste. Forse avrebbe potuto avere una scorta, di certo avrebbe meritato quella “scorta mediatica” che oggi viene garantita ai colleghi minacciati. Ma quello scudo per Pecorelli non c’è mai stato: la sua penna è stata infangata anche da noti giornalisti e l’infamante nomea di ricattatore gli è rimasta attaccata per anni, dopo la sua morte, nonostante il Tribunale di Perugia nella sentenza di primo grado, emessa in data 24 settembre 1999, abbia messo nero su bianco che “Pecorelli le notizie le pubblicava. Mentre la forza del ricattatore è quella di minacciare la pubblicazione di una notizia per poi venderla ai diretti interessati e non al pubblico”.

Hai definito Pecorelli un democristiano, oserei dire molto anomalo. Quali erano i suoi rapporti con Giulio Andreotti?
Era un democristiano e criticava i leader della Dc. E’ stato accusato di essere un giornalista di destra. Eppure nei suoi articoli attaccava personaggi della destra. Perché in realtà era solo un giornalista. Non era nient’altro che uno scomodo giornalista.
Giulio Andreotti nel suo diario annotò: “è stato assassinato a Roma il giornalista Mino Pecorelli”. Il 25 marzo, cinque giorni dopo, invece annoterà: “Ceccherini mi informa che Barbieri dice che fanno correre la voce che esistano assegni miei a Giannettini e che Pecorelli li stava pubblicando. Un secondo caso Giuffré? Da altro giornalista ha sentito che Pecorelli e un ufficiale del Sid erano andati a suo tempo a mettere a Milano microspie nell’edificio dove abita l’ingegner Valerio: ora è in corso il processo per le bobine scomparse e qualcuno temeva che Pecorelli parlasse”.
Le bobine erano quelle del Golpe Borghese, consegnate da Antonio La Bruna al giudice Guido Salvini dodici anni dopo l’omicidio Pecorelli. Di quelle bobine che dimostravano il coinvolgimento di Avanguardia nazionale e di Licio Gelli al golpe, Pecorelli aveva le trascrizioni.

Veniamo alla sua attività di giornalista. Quando nasce OP?
Dopo un anno di lavoro presso il settimanale politico Mondo d’Oggi, il 22 ottobre 1968, Mino Pecorelli registrò presso il tribunale di Roma l’agenzia di stampa Osservatore politico Internazionale. L’agenzia diventò poi mensile e infine, nel 1978, un settimanale. L’Italia di quegli anni era l’Italia degli omicidi politici e delle inchieste insabbiate, degli scandali che scoppiavano a “orologeria” oppure, come nel caso Lockheed, degli avvertimenti che arrivavano da oltreoceano. Con il suo Op, Mino Pecorelli s’inserì in questa guerriglia sotterranea, e non per raccontare il costume degli italiani ma per denunciare la loro corruzione.

Quali sono stati i principali scoop di Pecorelli?
La prima grande esclusiva è del 19 novembre 1967. Pecorelli scrive un articolo per Nuovo Mondo d’Oggi intitolato “Dovrei uccidere Aldo Moro”, dove riporta le confessioni del tenente colonnello Roberto Podestà (paracadutista ex ufficiale del SIM, Servizio Informazioni militare) su un omicidio commissionato dal capo di un partito politico oggi scomparso, e l’omicidio era appunto quello di Aldo Moro. Un omicidio “necessario per riportare l’ordine in Italia”. Su Nuovo Mondo d’Oggi, Pecorelli scrisse fino all’ottobre del 1968, fino alla sua preannunciata inchiesta sull’università domenicana Pro Deo – diretta da padre Felix Morlion, ex agente dell’Oss, Office of strategic services, il servizio segreto americano che precede la Cia – “Affari, sesso, devozione”, questo era il titolo dell’inchiesta che Pecorelli non riuscì a pubblicare. In redazione arrivarono i carabinieri e tutto fu sequestrato. Sulle pagine di Op furono tantissimi gli scoop: nel 1977 iniziò a scrivere della “lista dei 500” evasori che avrebbero esportato capitali dall’Italia attraverso la Finbank di Michele Sindona, poi pubblicò il famoso dossier Mi.Fo.Biali denunciando un ingente traffico petrolifero con Libia e Malta, con un’altrettanta cospicua frode fiscale ai danni dello Stato italiano. L’inchiesta provocò uno scandalo che travolse i vertici della guardia di finanza, generali e petrolieri. Diffuso a puntate su Op con il titolo “Petrolio e manette”, dal dossier emersero le plateali responsabilità del comandante della Guardia di Finanza Raffaele Giudice, del petroliere Attilio Monti e del Venerabile maestro Licio Gelli. Inquietanti furono i suoi riferimenti al Noto Servizio in articoli del 1977 che ricostruivano la vicenda delle trattative segrete tra Italia e Libia per la fornitura di ingenti partite di armi da parte italiana alla Libia e la fornitura di petrolio libico all’Eni con tangenti miliardarie incrociate. Per ben tre volte, rivelando le pressioni esercitate sull’allora presidente dell’Eni, Raffaele Girotti, Pecorelli fa riferimento all’intervento di un Noto Servizio. Due parole scritte fra virgolette, quindi non generiche, ma usate per indicare il nome di un’istituzione, nota, è evidente, anche ai vertici dell’Eni. Pecorelli fu anche il primo a rivelare l’esistenza di una loggia massonica in Vaticano: furono 121 gli illustri prelati e cardinali che finirono sulle pagine di Op, con tanto di data di iniziazione e numero di matricola. Nel nutrito elenco di religiosi figuravano anche Agostino Casaroli, Ugo Poletti, Piero Vergari e Paul Marcinkus. Mino Pecorelli scrisse dello scandalo Lockheed e dello strano suicidio del colonnello Renzo Rocca. Scrisse di Roberto Calvi e del Banco Ambrosiano. Un intreccio d’inchieste e di notizie che alla fine riportavano sempre alle stesse complicità. Agli stessi interessi.

Pecorelli faceva paura per quello che aveva intuito e scoperto: il filo nero che lega gli episodi di sovversione dello stato democratico ovvero La strage continua, per citare il titolo del tuo libro, da piazza Fontana fino all’omicidio Moro. Sappiamo che quel filo arriverà fino alla strage di Bologna. Dunque i mandanti, o mandante, dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli vanno cercati nel cuore del “doppio stato” e del suo regista: la P2 e Licio Gelli. Ma di chi è la mano armata che lo uccise?
E’ una domanda che ho fatto ad Adriano Tilgher e a Domenico Magnetta. Il fondatore di Avanguardia Nazionale ha sempre detto di non sapere niente, non sapeva neanche che il padre era iscritto alla P2, non sapeva che Stefano Delle Chiaie era in Italia durante il Golpe Borghese e non ha mai sentito nominare Paolo Bellini, l’avanguardista rinviato a giudizio per aver partecipato alla strage di Bologna. Mimmo Magnetta invece la memoria non l’ha persa. Gli amici li ricorda.

Siamo alla fine della nostra conversazione. Adesso la parola passa alla Magistratura. A che punto siamo? 
La perizia sui reperti è stata affidata alla polizia scientifica di Perugia mentre è il magistrato Erminio Amelio della procura di Roma a condurre le indagini, uno dei pochi allenato ai casi irrisolti e difficili, in passato si è occupato della strage di Ustica, dell’omicidio di Massimo D’Antona, dell’omicidio di Nicola Calipari, insomma non so a che punto siamo ma di certo siamo in buone mani.